CAPITOLO 8

SCALATA A CINECITTÀ

Sabato, 4 giugno 1938

A metà pomeriggio il treno si snodava attraverso la campagna romana, ormai in vista della capitale.

Partita da Milano all’alba, Olimpia era stanchissima, indolenzita dai sedili in legno della terza classe, affumicata dagli sbuffi di vapore che a tratti entravano dai finestrini semiaperti.

Guardava distratta quel paesaggio sconosciuto, il verde dei campi interrotto ogni tanto dalle arcate in pietra dell’acquedotto romano, sotto le quali le greggi di pecore si riparavano dall’ultimo sole della giornata.

Era anche preoccupata per l’avventura che si apprestava ad affrontare. Quello che stava per compiere, se ne rendeva ben conto, era un salto nel vuoto.

Nei mesi precedenti, passato il terrore di essere scoperta per l’omicidio di Anita Serra (ma quando ci pensava era sicura che nulla potesse tradirla), aveva iniziato a prepararsi al viaggio.

I rimorsi dei primi giorni avevano avuto vita breve. La Serra in fondo se l’era cercata: quella sera con lei era stata beffarda e taccagna, anche provocatoria, le aveva buttato in braccio i vestiti smessi come per farle l’elemosina, le aveva offerto una somma ridicola nonostante Olimpia le avesse assicurato che sarebbe stato solo un prestito.

E che bisogno c’era, quando l’aveva vista frugare nella cassaforte, di attaccarsi al telefono per chiamare la Polizia? L’avrebbe rovinata per tutta la vita. Non bastava una lavata di capo?

Lei poi non sapeva che la pistola era carica e senza la sicura. L’aveva afferrata istintivamente per mettere paura alla cantante, e l’arma aveva sparato quasi da sola.

Certo, vedere la donna abbattersi a terra in un lago di sangue non era stata un’esperienza piacevole, ma in fondo la Serra aveva già vissuto la sua vita. Lei invece era giovane e aveva tutto il diritto di difendere il proprio futuro.

Comunque ormai era andata, ed era andata bene, e lei non voleva più pensarci.

Una domenica pomeriggio in cui tutta la famiglia era fuori, Olimpia aveva trovato il coraggio di dare un’occhiata al suo bottino ed era rimasta strabiliata.

I contanti ammontavano a due milioni, purtroppo in banconote di grosso taglio che avrebbe dovuto cambiare poco per volta. I gioielli erano una fortuna: anelli con enormi gemme, bracciali, collane di perle, la fantastica collana di smeraldi e brillanti che doveva essere il famoso dono del maharajah indiano, quello che i ministri erano andati invano a reclamare. E ancora spille a forma di fiori, di uccelli, smaltate a figure geometriche, lunghe catene d’oro, orologi tempestati di brillanti.

Olimpia aveva riposto il tesoro nella borsa, incartando i gioielli con vecchi giornali.

Per il viaggio si era procurata al mercato dell’usato di Porta Lodovica un valigione dove aveva stipato i suoi abiti e quelli che le aveva donato la Serra, oltre alla borsa dei preziosi estratta dal nascondiglio solo la sera prima della partenza.

In casa erano preparati da tempo a vederla partire. Aveva raccontato che una sua amica, trasferita a Roma da qualche mese, le aveva trovato un posto come commessa in un negozio elegante e l’avrebbe ospitata da lei.

Nessuno gliel’aveva proibito, forse perché suo padre e sua madre non avevano l’energia sufficiente per controbattere quando la vedevano decisa, o forse perché in fondo in fondo speravano che almeno lei riuscisse a volare. Chissà.

Solo sua sorella aveva pianto. E qualche lacrima l’aveva vista brillare anche negli occhi dell’amico Tonino Novelli.

«Peccato» le aveva detto alla notizia della partenza, «io contavo su di te. Speravo che prima o poi avresti messo la testa a posto e ti saresti accorta di chi ti vuole bene davvero…»

«Tonino» aveva ribattuto lei accarezzandogli una guancia, «ma non ti rendi conto che insieme saremmo stati due disgraziati? Io sento che posso diventare qualcuno, cerca di capire che ho il diritto di provarci.»

«Vai, farfallina» aveva risposto Tonino con affetto. «Ma ricordati due cose: non buttarti via, le belle ragazze fanno presto a finire in un bordello. E se un giorno vorrai tornare, conta sempre su di me.»

Olimpia era fuggita per non mostrare che anche lei stava piangendo.

La stazione di Roma la lasciò delusa: era vecchia e polverosa, con un fumoso padiglione centrale in ferro e vetro e due imponenti corpi laterali aggiunti in un secondo tempo. Niente a che vedere con la monumentale stazione di Milano, ornata di statue e bassorilievi, una montagna di pietra candida inaugurata da pochi anni.

Olimpia aveva programmato da tempo come muoversi. In stazione non faticò a individuare la stanza delle cassette di sicurezza e stipulò un contratto di un anno per una delle più grandi.

L’impiegato per fortuna non fece storie per la sua giovane età, come sarebbe accaduto se si fosse rivolta a una banca. Estrasse dalla valigia la borsa dei gioielli, in cui aveva riposto anche buona parte del denaro, e la chiuse al sicuro nella cassetta.

Quindi, reggendo il valigione alleggerito, uscì in piazza dei Cinquecento, dove si incrociava un intenso traffico di auto e tram. Si trattava di trovare una pensioncina dove dormire almeno i primi tempi. Olimpia prese a caso le vie a sinistra della stazione e dopo aver gironzolato a lungo in un quartiere popolare scoprì l’alberghetto La Fenice dietro l’imponente chiesa di Santa Maria Maggiore, in via dei Quattro Cantoni.

Dietro il banco d’accettazione era seduto a leggere il giornale un uomo grasso e pelato di mezza età, con un gran paio di baffi sul volto rotondo. La scrutò con curiosità, ammise che, sì, avevano una stanza libera, ma andava pagata a settimana e in anticipo. Solo dopo aver incassato il denaro si decise a metterle in mano una chiave, indicando che la trentadue si trovava al terzo piano. E con un sospiro si rimise a leggere il giornale.

La stanzetta era squallida, arredata con mobili moderni che già cadevano a pezzi, ma a Olimpia sembrò più che decorosa. Trovò da sola il bagno in fondo al corridoio e poté finalmente rinfrescarsi, allineò gli abiti nell’armadio e scese a cenare in una latteria all’angolo.

Al rientro cadde sul letto fulminata dal sonno, ma il riposo durò poco: per le scale tutta la notte fu un viavai di passi, porte che sbattevano, risate, gridolini. Era finita in un albergo per puttane.

Decise, cercando almeno di rilassarsi, che al più presto avrebbe dovuto trovare una sistemazione migliore.

Si risvegliò al mattino affamata e curiosa. Aveva deciso di dedicare la prima settimana alla conoscenza di Roma, e il bel sole che la salutò appena spalancata la finestra le parve di buon auspicio.

Indossò uno degli abiti da giorno della Serra, si concesse di fare colazione in un caffè elegante e partì alla scoperta della capitale. Si meravigliò di sentirsi carica di energia, di non rimpiangere per nulla ciò che si era lasciata alle spalle.

Furono bei giorni: passeggiò per le vie del centro guardando le vetrine, ammirò la grandiosa via dei Fori Imperiali che aveva sventrato gli scavi archeologici. Ricordava che appena un mese prima Hitler e Mussolini l’avevano trionfalmente percorsa nella notte scintillante di riflettori, in auto scoperta, alla testa di una sfilata che aveva mostrato al mondo la potenza dell’Italia.

Si spinse fino alla mole del Colosseo, ma sapeva troppo poco di storia per commuoversi. Apprezzò invece il Vittoriano, che trovò imponente. Le opere mastodontiche le piacevano.

Un giorno lo dedicò al Vaticano; si divertì a percorrere il colonnato del Bernini e si sentì molto piccola nell’enorme chiesa di San Pietro, giudicò solenne la via della Conciliazione che aveva distrutto i quartieri medievali preesistenti, un’altra delle opere del regime di cui parlavano i giornali.

Qualche pomeriggio andò al cinema e scelse locali di prima visione.

Entrò da un parrucchiere del centro e si fece fare un taglio di classe, la depilazione come le attrici del cinema e la manicure. Comperò due paia di scarpe alla moda e qualche cosmetico e studiò un trucco leggero che esaltasse i begli occhi verdi. Cominciò a usare abitualmente calze di seta.

Nelle piazze più famose, come piazza di Spagna, piazza Navona, piazza di Trevi, si permise di sostare qualche volta dopo cena a un tavolo all’aperto, osservando con attenzione il passeggio mentre sorbiva una bibita.

Insomma, prese confidenza con la città.

A Roma era già estate e le notti erano dolci.

Una mattina di metà giugno, vestita da ragazza di buona famiglia con una camicetta bianca e una gonna al ginocchio bianca e blu, suonò al portoncino dell’accademia di danza Floriani in via della Penna, vicino a piazza del Popolo e al Tevere.

Era il primo passo che faceva sulla strada del cinema e si scoprì emozionata. E se non l’avessero accettata?

In effetti il titolare della scuola, uno scattante cinquantenne appena brizzolato, nel cui ufficio fu introdotta da una segretaria che a lei sembrò una diva, tanto era ben vestita e truccata, la guardò con attenzione, la fece camminare avanti e indietro, le chiese di imitare i suoi movimenti e alla fine sentenziò: «Forse puoi riuscire, ma solo nella danza moderna, non pensare a quella classica per la quale non hai più l’età. Vedremo dalle prime lezioni come te la cavi».

«Grazie, maestro» balbettò Olimpia, sollevata. «Sarò l’allieva più diligente.»

«Dove vuoi arrivare, qual è il tuo obiettivo?» si incuriosì Floriani guardandola con scuri occhi penetranti.

«Ecco, sono venuta a Roma per fare l’attrice» ammise lei.

«È un buon segno che tu voglia cominciare andando a scuola. Ma sei qui da sola?»

«I miei lavorano e non hanno potuto seguirmi.»

«Dovrai stare bene attenta, non è facile farsi scritturare per un film, e l’ambiente è dei più insidiosi. Avrai anche bisogno di lezioni di recitazione e canto. Sai a chi rivolgerti?»

Olimpia non lo sapeva, ma sperava che qualche indicazione le venisse proprio da lui.

«A proposito» le chiese Floriani, «chi ti ha mandato da me?»

Non era il caso di citare Anita Serra, per questo inventò di aver letto il nome dell’accademia su un giornale di cinema.

Soddisfatto, Floriani le promise di fornirle gli indirizzi richiesti e le fissò tre ore di lezione a settimana con l’uso gratuito della palestra.

Olimpia uscì con la testa tra le nuvole, padrona del mondo.

Cominciò un periodo intenso ma costruttivo, che Olimpia avrebbe sempre ricordato con piacere.

Il maestro di ballo era Giulio Baldi, un bel giovane dai lineamenti classici e i capelli neri lucenti di brillantina, inesorabile nel pretendere la perfezione. La ragazza passava ore nella palestra della scuola a sciogliere la muscolatura con esercizi alla sbarra, e a lezione imparava, sulle musiche eseguite al pianoforte da un simpatico vecchietto, i passi figurati del valzer, del tango, del foxtrot, ma anche l’indiavolato boogie woogie e il tip tap.

Voleva apprendere a esibirsi sia da solista sia in coppia ma anche come ballerina di fila. Credeva che sarebbe stato facile, però presto si accorse che saper ballare davvero aveva poco a che vedere con le piroette delle serate danzanti al Dopolavoro.

«Ma io voglio diventare attrice, non ballerina» protestava con Giulio quando non ne poteva più di ripetere sempre le stesse figure.

«Prima di tutto non sai cosa ti toccherà fare nei film che interpreterai» ribatteva lui. «E anche per recitare devi avere il senso del ritmo, devi essere fluida, muoverti con agilità, occupare bene il tuo spazio. Guai se ti presenti a un provino rigida come un bastone.»

Fu a Baldi che Olimpia chiese l’indirizzo di una pensione per attori. «Ora abito alla Fenice, un albergo poco pulito vicino alla stazione, in via dei Quattro Cantoni» spiegò. «È il primo che ho trovato quando sono arrivata, ma tutta notte c’è un gran viavai di prostitute e, a parte il fracasso, non vorrei essere importunata da ubriachi o malintenzionati. Pensa che prima di dormire, per stare tranquilla, metto sempre una sedia davanti alla porta, per svegliarmi nel caso qualcuno tentasse di entrare.»

«Hai soldi da spendere?» le chiese Giulio senza preamboli.

«Qualcosa sì, ma preferirei non buttarli via; non so quando troverò lavoro.»

«Allora va’ a nome mio alla pensione Archi in via Merulana. Il posto è pulito e confortevole, e la padrona, a richiesta, si presta anche a preparare pranzo e cena. Non è un albergo costoso, e inoltre conoscerai gente di teatro e cinema, e non si sa mai… qualche buona informazione può sempre fare comodo.»

Olimpia si sistemò in una bella camera spaziosa piena di sole, sotto l’ala protettrice della signora Gianna, che sovrintendeva a una ventina di giovani aspiranti divi, ballerini, cantanti, attori, chi già in attività, chi in attesa di scritture e alla perenne ricerca di lavoro negli uffici di produttori e impresari.

In luglio cominciò anche le lezioni di canto e di recitazione, e ci furono nuovi ostacoli da superare.

La signora Antonietta, un’anziana attrice, inorridì nel sentire l’accento lombardo della ragazza e partì dalla dizione. Le insegnò a impostare la voce, a staccare bene le parole, a pronunciarle esattamente. Dovette arrivare l’autunno prima che la ritenesse in grado di recitare qualche breve scena, e anche allora ci fu il problema delle pause, dell’espressione del viso, dei movimenti.

In compenso, accortasi della scarsa cultura della ragazza, cominciò a prestarle alcuni libri, prima romanzi, poi opere teatrali, che lei prese gusto a leggere.

Andò meglio col canto: Olimpia era intonata di natura e imparò presto a leggere le note. Aveva una voce bassa e sensuale, e l’insegnante, nonostante avesse un passato di soprano lirico, ebbe il buonsenso di non forzarla ai toni alti che andavano di moda: sarebbe stata una cantante confidenziale. Era una buona allieva, e ogni tanto Madame Giuliana, come si faceva chiamare, le dava anche lezioni di pianoforte.

Con Giulio divennero presto amici, il giovane aveva una decina d’anni più di lei, era libero sentimentalmente e sensibile al fascino femminile. Uscivano qualche volta insieme, andavano al cinema, nei locali di jazz o a mangiare qualcosa, pagando rigorosamente ognuno la sua parte: Olimpia non voleva comportarsi come fosse la sua ragazza. Qualche volta si recavano a ballare, e spesso le altre coppie in pista si fermavano a guardare le loro esibizioni.

Chiacchieravano volentieri passeggiando sul Lungotevere o mangiando un gelato in un caffè.

Giulio le raccontò che aveva cominciato a ballare, con grande scandalo della famiglia (suo padre era un avvocato di Arezzo), coltivando il sogno di diventare un nuovo Nijinskij, il celebre ballerino classico russo dei primi del secolo. Prometteva bene, ma un brutto giorno, per colpa di una caduta rovinosa dopo una piroetta, si era fratturato in più punti una caviglia. L’operazione era riuscita bene, ma la gamba non aveva più riacquistato la forza necessaria nel balletto. Così si era rassegnato a fare il maestro, in attesa di aprire una scuola sua.

Le confidò di avere amato per anni una ballerina sua compagna, ma questa, una volta assunta nel corpo di ballo di un teatro di Venezia, si era messa con un orchestrale e non si erano più visti.

Del proprio passato Olimpia parlava poco. Del resto pensava ai suoi molto raramente. Un mese dopo l’arrivo a Roma, aveva inviato loro una cartolina, in cui scriveva di trovarsi bene, ma non aveva comunicato alcun indirizzo.

Con Giulio preferiva chiacchierare dei nuovi amici della pensione: il giovane musicista Alfiero Cagni che ogni tanto con una scusa si infilava nella sua camera, dalla quale lei doveva farlo uscire a viva forza. Anna Lacordero, un’attrice alle prime armi che faceva particine da generica, e Rosalba Vittoni, una veneta che si manteneva a Roma intrattenendo i clienti in un locale notturno mentre aspettava di sfondare nel cinema.

Una domenica di luglio Olimpia andò con Giulio a Ostia, su uno dei treni popolari che il regime aveva istituito per gli svaghi dei lavoratori.

Era la prima volta che vedeva il mare, e il giovane ebbe un bel daffare a impedirle di scottarsi prendendo troppo sole. Una volta in acqua imparò quasi subito i movimenti per reggersi a galla e Giulio le promise che le avrebbe insegnato a nuotare. A mezzogiorno pranzarono in una trattoria all’aperto, ombreggiata da un pergolato di vite. Olimpia aveva voglia di chiacchierare, ma lui era pensieroso.

«Cosa c’è?» gli chiese la ragazza accorgendosi del suo umore. «Sei stanco di sole? Vuoi che torniamo a Roma?»

«Ma non ti accorgi di quello che sta succedendo intorno a noi?» sbottò lui. «Non hai paura?»

«Paura? Perché?» si meravigliò Olimpia.

«Sto parlando di politica» chiarì Giulio abbassando la voce. «Ci stanno trascinando verso una nuova guerra. Non leggi i giornali? Prima l’impresa di Etiopia, che ci ha buttato fra le braccia di Hitler. Poi, solo per parlare di quest’anno, Hitler annette l’Austria e Mussolini non fa una piega, anzi lo riceve in Italia con tutti gli onori. E adesso il duce si lascia imporre le leggi razziali contro gli ebrei che sono già operative in Germania. Hai letto questa settimana il “decalogo della razza” elaborato da studiosi fascisti? Hitler vuole la guerra in Europa, e quel buffone di Mussolini finirà per andargli dietro. Ma tu lo sai cos’è una guerra?»

«Stai attento» lo ammonì Olimpia. «È pericoloso parlare di queste cose.»

«Ah, lo sai anche tu che il nostro non è un Paese libero. Il duce prima ha fatto uccidere i suoi avversari dalle squadracce. Una volta al potere, quelli che erano rimasti li ha mandati al confino o li ha gettati in carcere, come Gramsci.» Il giovane si schiarì la gola con un sorso di vino dei Castelli. «E adesso va d’amore e d’accordo con quel delinquente paranoico di Hitler, che sta marciando verso una nuova guerra e finirà per trascinarci con lui.»

Olimpia si guardava intorno impaurita, ma nessuno li stava ascoltando. «Però in fondo» provò a dire, «ora siamo una grande nazione, rispettata all’estero. Lo Stato fa molto per i lavoratori: le colonie, i dopolavoro, le feste, interi quartieri nuovi. Roma è piena di opere del regime.»

«Bella roba, quelle» ribatté Giulio. «In compenso i disoccupati sono sempre più numerosi e chi si arricchisce sono gli industriali e i grandi proprietari terrieri, sostenitori del regime. Il duce è invecchiato» continuò, «e sta perfino cadendo nel ridicolo. Lascia fare a quel burattino di Starace che ha inventato il passo romano, il saluto romano e vuole introdurre l’uso del “voi”. Ma l’hai saputa l’ultima? Qualche giorno fa Starace ha imposto a tutti i gerarchi le prove sportive alla presenza del duce: vecchietti rattrappiti che correvano, grassoni sudati che saltavano. Lui stesso si è esibito passando attraverso un cerchio di fuoco, e purtroppo non c’è rimasto bruciato. Ma ti pare gente seria? Hitler farà dell’Italia quello che vorrà…»

Tornarono a Roma in silenzio, e Olimpia, che non si era mai posta problemi di politica, cominciò a valutarli con più attenzione, rendendosi conto per la prima volta che la politica poteva influire anche sulla sua vita.

Non era ancora stata a Cinecittà. Una mattina salì sul tram azzurro che partiva da piazza dei Cinquecento e, attraversato il centro di Roma, si dirigeva agli stabilimenti cinematografici.

Dalla via Tuscolana, lasciata alle spalle l’ultima periferia, Olimpia cominciò a intravedere le strutture della città del cinema stagliarsi contro il verde dei campi. Scese davanti all’ingresso, quasi modesto rispetto alla monumentalità dei suoi sogni, e non poté andare oltre. Un omone gigantesco, tale Pappalardo, lasciava entrare solo chi aveva un invito scritto.

Quella di entrare negli stabilimenti diventò per Olimpia una fissazione. Era a Roma ormai da tre mesi ed era tempo di darsi da fare. Cominciò a tormentare la sua amica Lacordero perché le procurasse un ingaggio come comparsa.

Fu esaudita, e una mattina di settembre si trovò con una folla eterogenea nel punto di raduno in piazza Tuscolo, emozionata e pronta a salire sul camion di Cinecittà.

Sperava, una volta dentro, passeggiando per i viali, entrando negli studi di posa, di essere notata da qualche regista. La sera però tornò a casa stanca morta e con la coda tra le gambe.

Il camion era entrato da un ingresso secondario, il capocomparse aveva messo in fila Olimpia e i suoi compagni in uno stanzone nudo e, come a una fiera del bestiame, li aveva divisi in gruppi secondo i ruoli a cui erano adatti.

Olimpia era finita su un set all’aperto che raffigurava una cittadina dell’Ottocento, a passeggiare in costume d’epoca spingendo una carrozzina. Saltò perfino il pasto, perché nessuno le aveva detto che bisognava portare un panino da casa e alle comparse era rigorosamente vietato andare in giro per i viali.

Anche il compenso fu deludente. Non era quella la strada per diventare una diva.

L’occasione si presentò inaspettatamente i primi di ottobre, grazie al suo amico Giulio con cui non aveva più parlato di politica.

«Vieni nel mio ufficio» le disse un giorno al termine di una lezione. «Ho un’offerta per te.»

Olimpia lo raggiunse con il cuore in gola.

«Non aspettarti una gran cosa» esordì il giovane. «Si tratta dell’impresario Zanotti; sta allestendo una rivista di avanspettacolo al cinema Moderno. Cerca ballerine di fila e si è rivolto alla scuola. Ho fatto il tuo nome, e anche il maestro Floriani è d’accordo, perché ormai ti sai muovere.»

La ragazza fece una piroetta di gioia.

«Comincerai a farti vedere in pubblico, e da qui possono nascere tante cose. Però ricordati di non saltare nessuna delle lezioni, perché per distinguerti dalle ragazze che si buttano alla ventura hai ancora molto da imparare.»

Olimpia, che non si tratteneva più, corse ad abbracciarlo.

«C’è un’ultima cosa buona nell’offerta: Zanotti è felicemente sposato e innamorato di sua moglie. È un signore e non ti metterà in imbarazzo.»

Il giorno dopo, vestita con un elegante tailleur nuovo, che si era fatta cucire da una sarta conosciuta tramite la padrona della pensione, e un cappellino capriccioso in testa da cui usciva la sua soffice chioma ondulata, Olimpia era nella sala d’attesa di Zanotti insieme a una decina di ragazze dall’aria popolana.

Zanotti la ricevette in maniche di camicia, dietro una scrivania ingombra di fotografie e progetti di scena, su cui campeggiava un grosso portacenere ricolmo di mozziconi. Era grassoccio e pelato, con occhi piccoli sotto sopracciglia cespugliose.

«Tu saresti quella di Floriani?» esordì. «Sei una bella ragazza, non dico di no. Ma cosa posso fare di te?»

«Sono qui per il balletto» balbettò Olimpia, che non si era aspettata quella doccia gelata.

«Ma le hai viste le altre?» ribatté Zanotti indicando con una mano la porta chiusa dietro la quale erano in attesa le ragazze. «Sono tutte almeno dieci centimetri più basse di te. Sono romane, hanno le gambotte corte, anche se ben fatte. Tu sei un cigno, un trampoliere; me le faresti sfigurare tutte.»

Era un brutto colpo.

Poi nella confusione della sua mente si accese una luce. «Potrei fare la ballerina solista. Oppure… non vi serve una cantante? Io so anche cantare.»

«Ma quante cose sai fare?» sogghignò Zanotti, abituato alle millanterie delle ragazze che avrebbero fatto di tutto pur di calcare il palcoscenico.

«So ballare, cantare e recitare, signor Zanotti, perché prima di presentarmi a un impresario ho passato quattro mesi a prendere lezioni!» ribatté Olimpia con fierezza.

«Vediamo» rispose l’uomo, laconico, alzandosi dalla scrivania e raggiungendo un pianoforte che lei non aveva nemmeno notato.

Dopo alcuni accordi avviò con decisione il motivo del Tango della gelosia. Olimpia lo conosceva. Aspettò il momento giusto, quindi attaccò, con voce bassa e voluttuosa: «No, non è la gelosia…».

Il pianoforte la accompagnò fino al termine della canzone, quando dall’anticamera arrivò uno scroscio di applausi.

«Non male» dovette ammettere Zanotti. «Hai una voce sensuale, bene impostata. Procurati un abito da sera fatale e presentati fra tre giorni al Moderno per le prove.»

In capo a una settimana, e per un compenso di settecento lire al mese per sei sere alla settimana, il doppio di quanto suo padre avesse mai guadagnato, Olimpia affrontò il pubblico per la prima volta.

Si presentò con un abito di pizzo blu dal corpetto aderente che le lasciava completamente scoperte le spalle, la gonna allargata a campana. Un paio di sandali dai tacchi alti esaltava la sua già ragguardevole statura, i bei capelli erano sciolti sulle spalle, un pesante trucco di scena le aggiungeva qualche anno in più.

Ogni volta cantava tre canzoni, che aveva cura di variare da una sera all’altra, e ogni volta raccoglieva fragorosi applausi da un pubblico molto distinto.

Era felice, e ancora illibata. Scrisse tre cartoline, una ai suoi, le altre a Tonino e all’amico pittore. Ancora una volta, senza comunicare l’indirizzo né raccontare nulla di sé, se non che le cose si stavano mettendo bene.

Non era affatto turbata dal sostegno che Mussolini aveva dato alla Germania per l’occupazione della Cecoslovacchia né dalle persecuzioni contro gli ebrei che ormai avvenivano ufficialmente anche in Italia.

Giulio, da cui continuava a prendere lezioni come dagli altri insegnanti, per ciò che la riguardava aveva visto giusto.

Una sera di dicembre, poco prima delle feste di Natale, mentre tornava dietro le quinte dopo la sua esibizione, Zanotti la avvertì infatti che aveva visite in camerino. Olimpia aprì la porta dello stanzino in cui si cambiava e truccava e trovò, comodamente adagiato sull’unica poltroncina, un signore di mezza età dalle tempie spruzzate di bianco, vestito con un elegante completo scuro che slanciava la sua modesta statura. Appena la vide si alzò in piedi con un bel sorriso.

«Mi scusi se ho invaso la sua stanza» esordì. «Mi chiamo Giovanni Parenti e sono il proprietario della Cineparenti.»

Olimpia sobbalzò: si trattava di una nota casa cinematografica che produceva di preferenza commedie brillanti e film in costume.

«Sto per produrre una commedia musicale per la quale cerchiamo un’attrice con le sue caratteristiche. Mi piacerebbe farle un provino.»

«Non so che cosa dire, dottor Parenti» replicò Olimpia arrossendo. «Fare cinema è il mio obiettivo, sono venuta a Roma per questo. So anche ballare e recitare. Interpretare uno dei suoi film sarebbe un sogno.»

«Non corra troppo, signorina» la ammonì Parenti sorridendo. «Non si tratta di una parte da protagonista. Per quella abbiamo già Sara Colli. Lei dovrebbe interpretare la sua rivale.»

Olimpia aveva visto la Colli in qualche film: era una bella bruna dagli occhi di fuoco.

«Naturalmente non la sto già scritturando» continuò Parenti avvicinandosi a lei e scrutandola con attenzione. «Dobbiamo fare il provino col trucco di scena e le luci e vedere come si muove davanti alla macchina da presa. Ma se dimostrerà buona volontà… Lei del resto è una gran bella ragazza.»

Con una mano le alzò il mento osservando il profilo, poi la lasciò ricadere quasi casualmente a sfiorarle il seno. Olimpia non si mosse.

«Bene» concluse Parenti porgendole un biglietto da visita. «Prenda appuntamento con la mia segretaria e vedremo.»

Quella sera Olimpia non resistette a precipitarsi a casa di Giulio che già dormiva e a raccontargli quello che le era capitato.

L’amico non si meravigliò troppo. «Parenti è un marpione» la ammonì, «e ha fama di procurarsi le amanti promettendo provini. Poi non sempre le scrittura.»

Olimpia naturalmente aveva notato l’atteggiamento mellifluo dell’uomo. «Cosa devo fare, allora?» si informò.

«Se vuoi un consiglio, non finire nel suo letto prima di avere in mano un contratto» fu la risposta lapidaria di Giulio.

Il provino ebbe luogo a Cinecittà subito dopo l’Epifania del 1939.

Quella volta Olimpia entrò dall’ingresso principale e si fece indicare il teatro di posa dove era attesa. Si sottopose al trucco, infilò un aderente abito da sera e si presentò sul set dove erano in attesa Parenti e il regista Romolo Ganci, oltre ai macchinisti e agli addetti alle luci. Le furono scattate molte foto, fu invitata a recitare una breve scena, quindi fu congedata con l’invito a ritornare il giorno dopo.

«Come sono andata?» si azzardò a chiedere al produttore.

«È presto per dirlo» rispose questi facendole una lunga carezza sulla spalla nuda. «Dovrà tornare domani, quando avremo visionato gli spezzoni.»

Il giorno dopo fu convocata nell’ufficio del produttore, dove trovò anche il regista.

«La sua recitazione è accettabile» esordì questi, «e sa muoversi con una certa disinvoltura.»

Olimpia sospirò benedicendo le lezioni che aveva seguito con diligenza.

«Quello che non va è il suo tipo.»

«Come?» esclamò lei, che era abituata a sentir lodare la sua bellezza.

«Non mi fraintenda, signorina» precisò Ganci. «Lei è una gran bella ragazza.»

«Già» si intromise Parenti. «Sarei orgoglioso di averla a cena con me.»

Ganci sorrise allusivo e continuò. «Però il suo tipo di bruna mediterranea è troppo comune nel cinema italiano.»

La ragazza trasecolò e si chiese dove i due volessero arrivare.

«Quindi avremmo pensato, il dottor Parenti e io» spiegò il regista, «di trasformarla in una bellezza nordica.»

Olimpia trasse un sospiro di sollievo.

«Alta e flessuosa com’è, con quegli occhi verdi, se lei acconsentisse a tagliarsi i capelli e a platinarli, diventerebbe un tipo nuovo per il nostro cinema, ora che va di moda la razza ariana.»

Fu messa subito nelle mani di parrucchieri e truccatrici, i bei capelli castani furono tagliati a caschetto e tinti di un biondo lunare, il trucco sottolineò gli occhi. A lavoro finito aveva acquistato il fascino di una giovane valchiria.

«C’è un’altra cosa di cui vorrei parlarle» la interpellò Parenti la mattina seguente, dopo il nuovo provino che era riuscito molto bene. «Ma vorrei farlo questa sera, quando sarò meno impegnato, magari invitandola a cena.»

Olimpia se l’aspettava e accettò l’invito; a quel punto non era il caso di fare troppo la preziosa.

Parenti andò a prenderla alla pensione con una lussuosa Lancia Augusta. La portò in un ristorante del centro e fatta l’ordinazione le prese una mano.

«Queste belle dita aristocratiche starebbero bene con un anello di brillanti» esordì. «Lei crede che costi troppo?» proseguì davanti all’espressione meravigliata della ragazza. «Potrei pensarci io se lei fosse carina con me. Sa, da quando l’ho vista, là sul palcoscenico, non faccio che fantasticare su di lei.»

«Di cosa doveva parlarmi?»

«Sì, una cosa importante.» Parenti parve riscuotersi. «Mi sembra che lei si chiami Olimpia… Cavenaghi, se non sbaglio. Non penserà di sfondare nel cinema con questo nome padano! Ci vuole un nome d’arte che si ricordi subito, che esprima il suo tipo. Che ne dice di Myra Leoni? Myra è un nome che evoca mistero, e Leoni allude a quel non so che di felino che è in lei.»

La giovane, che non aveva mai pensato a un nome d’arte, ne fu sorpresa. «Va bene, mi piace» esclamò.

Al termine della cena Parenti le accarezzò ancora la mano. «Non sarebbe bello finire la serata all’hotel Excelsior?» propose. «Potremmo ballare al night, e ho già prenotato una splendida stanza da cui si vedono i tetti di Roma» concluse insinuante.

Olimpia sorrise misteriosa, ricambiò la carezza e con voce languida rispose: «Sarò felicissima di trascorrere con lei una serata all’Excelsior per festeggiare la firma del contratto».

Nel giro di qualche settimana Olimpia era impegnata nelle prove degli abiti e del trucco per il film, aveva conosciuto i colleghi, tra cui l’interprete principale Sara Colli che dava poca confidenza a tutti, aveva in mano un contratto per tre film in parti di secondo piano e non era più illibata.

Con Parenti non era stata e non era un’esperienza piacevole, ma lei si consolava con il pensiero che almeno non si era buttata via. Finalmente era un’attrice cinematografica e aver raggiunto il suo obiettivo valeva la verginità.

Il produttore era caduto dalle nuvole la sera in cui, nella lussuosa stanza dell’Excelsior, Olimpia, anzi Myra, gli aveva confessato di non avere alcuna esperienza. Dopo un primo istante di disorientamento, però, si era esaltato.

«Sei ancora una bambina…» le mormorava all’orecchio mentre la spogliava con voluttà, la accarezzava voglioso, le copriva il corpo di baci umidicci. «Sei la mia bambina. Oh, guarda!» aveva mormorato con un sorriso togliendole le mutandine di seta. «Hai una voglia a forma di cuore proprio qui, sopra il pube, un cuore nero. In amore sei destinata a dominare.»

Poi l’aveva penetrata senza alcun riguardo, strappandole un urlo di dolore, e si era abbandonato a un orgasmo esplosivo. Per lei, invece, era tutto finito prima ancora di cominciare.

Tutto qui? si era sorpresa a pensare mentre Giovanni Parenti le ansimava ancora sopra. Meno male che dura poco.

Aveva dovuto ricredersi amaramente dopo un paio d’ore, alla seconda ripresa, quando Giovanni, dopo avere abbondantemente brindato con lei a champagne, le era saltato di nuovo addosso.

Questa volta aveva voluto godersela in tutti i modi, senza pensare che la sua giovane compagna ne sarebbe rimasta traumatizzata. Le aveva imposto i baci più intimi da puttana esperta, si era deliziato a sentire i suoi lamenti mentre le mordeva il seno, l’aveva penetrata con violenza strappandole altre urla di dolore che lo avevano portato a un nuovo orgasmo.

La mattina dopo Olimpia era tornata alla pensione dolorante e disgustata. Per un momento aveva accarezzato il pensiero di piantare tutto e non farsi più vedere, poi si era convinta che avrebbe dovuto abituarsi, e che se le altre facevano certe cose anche lei poteva farle, considerato che era per una buona causa.

Per fortuna Giovanni usava il profilattico e non avrebbe corso il rischio di rimanere incinta.

Le riprese cominciarono nella primavera del ’39. Il film narrava la storia di una giovane segretaria, interpretata da Sara Colli, che si vedeva portare via l’innamorato dalla viziosa cantante di un locale notturno, la parte assegnata a Myra Leoni. Ma alla fine la virtù trionfava.

Olimpia ebbe il nome in cartellone e i giornali scrissero di lei come di una promessa.

Nonostante il lavoro, continuava a seguire le lezioni, ma aveva meno tempo per chiacchierare con Giulio.

L’amico era sempre più cupo. «Che ne sarà di questo Paese?» le confidava quando qualche volta riuscivano ancora a uscire insieme. «Che ne sarà di noi? La Germania sta marciando verso la guerra; dopo l’Austria mira alla Polonia, e il duce, per non essere da meno, si è annesso l’Albania. A che ci servirà mai quel Paese di pastori, che comunque aveva il diritto di vivere in pace? L’ultima trovata è il Patto d’Acciaio stipulato con la Germania, che ci lega mani e piedi a Hitler. E intanto si stanno muovendo la Francia e la Gran Bretagna. Preghiamo Dio, Olimpia, perché qui si mette male.»

Quando in agosto si seppe del patto di non aggressione firmato a sorpresa dalla Germania e dalla Russia di Stalin, e il primo settembre le truppe tedesche invasero la Polonia provocando la dichiarazione di guerra di Francia e Inghilterra, Giulio cadde in una profonda depressione.

Olimpia invece era impegnata con le prove del secondo film e non aveva voglia di interessarsi di politica.

Ormai di casa a Cinecittà, amante fissa del produttore, Olimpia si svagava in un turbine di feste e occasioni mondane.

Ora poteva percorrere liberamente i viali bordati di oleandri, passeggiare nei boschetti di pini ed entrare nei teatri di posa. Incontrava registi e attori famosi: il fascinoso Amedeo Nazzari, sempre seguito da un corteo di collaboratori, le brune ardenti Clara Calamai e Isa Pola, Osvaldo Valenti e la sua amante Luisa Ferida, di cui si conosceva la focosa passione fascista. Olimpia ammirava Alida Valli per la sua raffinatezza, e di Massimo Girotti apprezzava la bellezza virile.

Il suo livello non era ancora tale da permetterle di frequentare alla pari le stelle del cinema, ma si era accorta da tempo che qualche attore famoso aveva incominciato a salutarla e, se capitava, anche a scambiare due parole con lei.

A Cinecittà, si era resa conto, esisteva una gerarchia di poteri invisibile quanto immutabile. E si era resa conto anche di un’altra cosa: la sua bellezza, che nel mondo normale era un valore, lì rappresentava solo un punto di partenza. Nel cinema erano tante le bellezze come lei. Per arrivare occorreva molto di più: intelligenza, volontà, appoggi, fortuna.

Spesso a Cinecittà arrivavano delegazioni del partito fascista composte da gerarchi in divisa nera, chepì e stivaloni, che accompagnavano vari ospiti ad assistere alle riprese.

Talvolta, seguito dai suoi fedeli, si faceva vedere anche Alessandro Pavolini, ministro della Cultura, che insieme a Vittorio Mussolini, il figlio del duce, amava trafficare nel mondo del cinema. Venivano anche Bottai e il conte Ciano, un gran bell’uomo che spesso dimenticava di aver sposato la figlia prediletta di Mussolini per correre dietro a qualche attricetta. E nessuno ignorava che Pavolini stesso era l’amante della bella Doris Duranti.

In occasione delle visite si tenevano feste sui set, e Olimpia si trovava spesso cinta d’assedio da qualche insistente corteggiatore: la sua bellezza nordica, il caschetto platinato che metteva in risalto i grandi occhi verdi si notavano in ogni occasione mondana.

Era diventata molto elegante, e il suo stile cominciava a farsi notare. Portava i pantaloni come una diva americana e i suoi abiti da sera erano fatti per mettere in risalto il corpo perfetto senza scadere nella volgarità.

Non aveva voluto abbandonare la pensione Archi, dove si trovava bene. L’unico lusso era stato il cambio della sua stanza con una piccola suite di due locali comunicanti.

Rinunciando a un appartamento proprio, risparmiava denaro e otteneva il non disprezzabile risultato di evitare che Parenti si installasse per lunghi periodi in casa sua. Anzi, alla pensione il produttore non si degnava di mettere piede, e i loro incontri avvenivano in albergo o nella sua casa di vacanze a Fregene. Incontri che erano diventati meno traumatici perché Olimpia aveva imparato a respingere gli assalti più violenti.

Aveva ancora molto del denaro della Serra, anche se ogni tanto andava a prelevarne alla cassetta di sicurezza. Quando quell’estate compì i ventun anni, poté trasferire i suoi averi nel caveau di una banca e si sentì più tranquilla.

I gioielli non li toccò. Scelse solo un anello con smeraldo rettangolare e i relativi orecchini di fattura classica, che non avrebbero potuto essere riconosciuti, e li indossò ogni tanto facendoli passare per gioielli di famiglia.

Nel nuovo film, che si sarebbe intitolato La bella Margherita, toccava alla protagonista, la solita Sara Colli, la sorte di diventare una celebre cantante dopo una vita di sacrifici. Myra Leoni interpretava la parte di una collega che ne ostacolava il cammino verso la gloria.

A essere stanca di ostacoli però era Olimpia, che trovava tagliato per sé il ruolo principale. Aveva protestato con Giovanni per ottenere la parte, ma il suo amante era stato irremovibile: il nome della Colli era noto e costituiva un investimento sicuro. Per consolarla le aveva regalato un bracciale, che si aggiungeva all’anello di brillanti con cui l’aveva ricompensata per la perdita della verginità.

Una sera dei primi di settembre, giusto i giorni in cui l’Europa entrava in guerra, Olimpia si trovava a passare per via del Portico d’Ottavia, in pieno ghetto ebraico. Scorse davanti a sé una sagoma nota. Sara Colli indossava un cappello che le copriva in parte il viso, gli occhi celati da un paio di occhiali scuri. La vide aprire furtivamente un portoncino con la chiave e infilarsi in un palazzetto.

Olimpia trovò strana la cosa, perché sapeva che l’attrice aveva una villa ai Parioli, e si avvicinò d’istinto per leggere i nomi sui campanelli. Le targhette riportavano due cognomi, Levi e Cohen.

La fulminò un’intuizione: Sara era un nome ebraico, e Colli poteva essere la trasformazione di Cohen. L’attrice era ebrea, circostanza che ovviamente teneva ben nascosta, specie da quando le leggi razziali avevano cacciato i suoi correligionari da tutti gli incarichi di prestigio. Forse in quella strada abitava la sua famiglia. Bisognava accertarsene.

Aspettò le dieci di sera, supponendo che a quell’ora Sara avesse già lasciato la casa, e dal telefono nel corridoio della pensione compose il numero della famiglia Cohen in via Portico d’Ottavia. Le rispose la voce di una donna anziana.

«Sono Ruth Piacenza» si presentò, inventando per l’occasione un nome ebraico che non destasse sospetti. «Vorrei parlare con Sara.»

«Mia figlia se ne è già andata» rispose la donna cadendo nel tranello. «Devo dirle qualcosa? Vuole lasciare il suo numero perché la richiami?» aggiunse con tardiva prudenza.

«Non si disturbi» replicò Olimpia. «La troverò a casa.» E chiuse la conversazione lasciando l’altra tranquilla.

A Cinecittà Olimpia conosceva di vista l’ispettore per la Vigilanza e la Disciplina, un losco figuro che doveva essere stato un membro delle Squadre d’Azione della prima ora; nel mondo del cinema era in pratica la spia del regime.

Chiusa in camera, si mise allo scrittoio e gli indirizzò una letterina vergata in stampatello, nella quale rivelava come la nota attrice Sara Colli altro non era che un’ebrea di nome Sara Cohen, la cui famiglia viveva nel ghetto. Aggiungeva che qualora la cosa si fosse risaputa ne sarebbe andato di mezzo il responsabile della Vigilanza, dato che al partito non era gradito proiettare film interpretati da nemici dell’Italia. Si firmava “un amico”.

La reazione non si fece attendere. Tre giorni dopo la troupe aspettò invano la Colli sul set, per il primo giro di manovella. Arrivò invece la convocazione alla Casa del Fascio per il regista e Giovanni Parenti. Tornarono dopo qualche ora, abbattuti e litigiosi.

«Come facevi a non saperlo, visto che ci andavi a letto?» accusava Parenti.

«Le donne non sono circoncise» si difendeva Ganci. «Di brune come lei qui a Roma se ne contano a dozzine. Come facevo a immaginarlo?»

E si diressero verso l’ufficio del produttore.

Olimpia si defilò dal set, dove regnava la più grande confusione, e si appiattì nel corridoio per origliare. Sentì che Ganci sosteneva che bisognava rinunciare al film. Parenti ribatteva che ci aveva già investito milioni e si doveva andare avanti.

«E chi mettiamo al posto di Sara?» obiettava il regista. «Dove troviamo una che conosca già la parte e sia capace di cantare e ballare? Con gli studi prenotati per i prossimi mesi non c’è tempo per preparare un’altra attrice.»

Olimpia a quel punto bussò e aprì la porta. «Ho sentito che siete in difficoltà» esordì. «Volevo dirvi che io ho seguito tutte le prove e conosco le canzoni e i balli del film. Potrei sostituire la Colli anche da subito.»

Fu accolta quasi a braccia aperte, dato che i due sapevano che, oltre a non far perdere tempo, Myra Leoni era brava. Non stettero a interrogarsi troppo su quella strana combinazione.

Fu così che Olimpia interpretò il suo primo film da protagonista. I suoi sogni più arditi si erano avverati, anche se le costavano regolari, sgradevoli incontri col produttore.

Di Sara Colli non si seppe più nulla.

Il 31 dicembre 1939, nonostante la guerra in Europa, il bel mondo romano era in festa.

Olimpia era stata invitata a un veglione nella villa sull’Appia Antica di un importante produttore che da un po’ di tempo la corteggiava. C’era il meglio del mondo del cinema, a cui si mescolavano gerarchi fascisti in vena di divertirsi e ufficiali dell’esercito e dell’aviazione.

Ormai conosceva parecchia gente del giro, non si perdeva un ballo, ma teneva tutti a distanza, non tanto per fedeltà a Giovanni ma perché di natura non era una donna facile e il sesso non la attirava.

Stava riposando su un divano nello studio del padrone di casa, davanti al caminetto scoppiettante, lontana per qualche minuto dalla baraonda, quando la porta si aprì ed entrò un uomo alto piuttosto avvenente con la divisa da sera di colonnello dell’esercito.

«Mi scusi» esclamò scorgendola al riverbero delle fiamme. «Credevo che la stanza fosse vuota, non intendevo disturbarla.» Poi, dopo qualche istante di silenzio, aggiunse: «Lei è Myra Leoni, non è vero?». Al sorriso di assenso della ragazza continuò: «Lasci che mi presenti. Sono il colonnello Gualtiero Morlacchi».

Olimpia si trovò a pensare che era davvero un bell’uomo, con quegli occhi scuri così espressivi.

«Dovrei usare il “voi” ma non riesco ad abituarmi. Io vengo spesso a Cinecittà, sono il sottosegretario alla Cultura Popolare. L’ho ammirata sul set e ci siamo incontrati a qualche ricevimento, ma lei è sempre circondata da ammiratori e non ha mai fatto caso a me.»

«Si sieda» mormorò Olimpia con un sorriso. «Possiamo prenderci un momento di pausa dal frastuono del ricevimento.» Cominciava a sospettare che l’irruzione dell’ufficiale nella stanza non fosse stata casuale, e la cosa non le dispiaceva.

Fumarono insieme una sigaretta, chiacchierando del mondo del cinema. Risero un poco dei divi più pomposi, elencarono le fissazioni di alcuni registi.

«E ora» proruppe dopo qualche tempo Gualtiero, con decisione, «torniamo a ballare.»

L’attrice e il sottosegretario fecero coppia fissa per diversi balli, sotto lo sguardo torvo di Giovanni Parenti. Allo scoccare della mezzanotte brindarono insieme guardandosi negli occhi. La serie di balli lenti che seguì i brindisi fu tutta per loro.

Gualtiero la teneva fra le braccia delicatamente, stringendola sempre di più a sé; Olimpia non si era mai sentita tanto attratta da un uomo e si abbandonò con naturalezza.

A poco a poco non sentirono più il bisogno di parlare, le lievi carezze di Gualtiero dicevano molto di più di qualunque discorso. Le guance si avvicinarono, le bocche si cercarono. Un lungo bacio li unì nel semibuio della pista.

Alle quattro del mattino, quando da tempo Parenti se n’era andato, Olimpia e Gualtiero erano innamorati cotti.

L’ufficiale la accompagnò con la sua auto alla pensione, e nel buio dell’abitacolo i loro corpi si avvinghiarono, le bocche si cercarono affamate. Era la prima volta che Olimpia si sentiva eccitata.

Gualtiero scese a carezzarla sul collo, liberò il seno dalla seta dell’abito, lo baciò con una dolcezza estrema che portò Olimpia alla resa totale. La mano di lui si insinuò sotto la lunga gonna, scostò le mutandine, la accarezzò. Lei gemeva piano, come una bambina.

Quando sentì che le dita dell’uomo si insinuavano lentamente dentro di lei, fu scossa da un potente brivido, un lampo le attraversò il corpo, e con un lungo grido che si perse nella notte provò il primo orgasmo della sua vita.

«E tu?» mormorò abbandonandosi stremata contro il sedile dell’auto.

«Per me non così.» Gualtiero sorrise nel buio. «Vengo a prenderti qui domani pomeriggio alle quattro.»

Cominciò così, il primo gennaio 1940, la loro grande storia d’amore.

Il giorno seguente lui arrivò puntuale davanti alla pensione a bordo della sua Lancia. La portò nella villa di famiglia nella campagna romana. In salotto, ben disposta sul tavolo, era pronta la cena ordinata in un vicino ristorante.

Ma loro avevano fame d’altro: appena la porta fu chiusa si abbracciarono con foga, si strapparono a vicenda gli abiti e Gualtiero sollevò Olimpia facendola volare per le scale fino alla grande camera da letto.

Si saziarono a vicenda, poi ebbero fame e scesero a mangiare. Il vino li inebriò e li spinse di nuovo ad amarsi.

«Che strano…» osservò lui mentre la ammirava ancora ansante. «Hai una voglia scura a forma di cuore proprio qui, sul basso ventre.»

«Sarà il nostro portafortuna» sorrise lei.

Si addormentarono abbracciati stretti. La mattina li trovò ancora avvinghiati e di nuovo si amarono.

«Ma cosa ci sta capitando?» mormorò Olimpia, più a se stessa che a lui.

«È l’amore, bellezza» ironizzò Gualtiero.

«E dopo, cosa succede?» chiese lei, di nuovo più a se stessa che al suo amante.

«Al cinema si proietta la parola “fine” sullo sfondo di un tramonto, e i due protagonisti vivranno per sempre felici e contenti.»

«E nella vita vera?»

«Qui è più complicato» ammise lui. «Ma ora non pensiamoci.»

Fu soltanto dopo una settimana, quando Olimpia aveva già dato il benservito a Parenti, sicura di non perdere il lavoro e certa che il produttore non avrebbe diffuso la notizia del suo nuovo legame, che Gualtiero le confessò di essere sposato.

«Dovremo stare molto attenti» ammise mortificato, «perché mia moglie Lucilla, che appartiene a una famiglia di antica nobiltà, è assai gelosa, e se sapesse di noi mi lascerebbe. Questo mi rovinerebbe la carriera e la posizione sociale, sarei messo al bando. Lo sai che per il duce l’unione della famiglia è sacra.»

«Come facciamo a vederci?» chiese Olimpia subito rabbuiata, perché con Gualtiero non voleva consumare l’amore in stanze d’albergo.

«Ci ho pensato e non c’è problema. Ti affitterò un appartamento e verrò a trovarti a casa tua.»

Mentre le riprese de La bella Margherita procedevano, per l’attrice cominciò un gioco nuovo.

Prima venne la ricerca della casa. Olimpia portava Gualtiero a vedere modesti quartierini in periferia, finché questi non la pregò di cercare qualcosa di elegante, senza timore di fargli spendere denaro, che non gli mancava.

Decisero infine per un bell’appartamento centrale, in via del Governo Vecchio, in un antico palazzo. Olimpia ebbe un grande salone con terrazza sui tetti di Roma, una cucina attrezzata e moderna, il telefono e la prima stanza da bagno personale della sua vita, una meraviglia in marmo verde.

«È come i tuoi occhi» osservò Gualtiero.

Poi le mandò a casa un architetto che l’aiutò nell’arredamento: la ragazza volle la casa moderna e di colori chiari.

Da ultimo trovarono una domestica che si occupava di cucina e pulizie ma la sera se ne andava lasciando Olimpia libera di ricevere il suo amore.

I mesi che precedettero lo scoppio della guerra furono per lei i più felici. Il film era uscito a febbraio e i critici avevano parlato di lei come di una promessa. L’amore la rendeva luminosa. Talvolta vedeva Gualtiero pensieroso, ma poi la passione sembrava fargli dimenticare i suoi problemi.

Si permisero qualche fine settimana insieme in località fuori mano, qualche volta lui passava la notte da lei, ma a Cinecittà i due fingevano di conoscersi appena, e in effetti la storia non diventò di pubblico dominio.

Parenti, la parte lesa, si guardò bene dal divulgarla: Gualtiero era potente e non conveniva inimicarselo. Se voleva godersi una puttanella come Olimpia, che facesse pure.

Era il tardo pomeriggio del 10 giugno 1940. Olimpia era a Cinecittà dove avevano luogo le prove del trucco per un nuovo film in costume che avrebbe interpretato da protagonista.

Fu distratta da un insolito movimento per i viali e si affacciò alla finestra: alcuni torpedoni stavano caricando gli operai degli stabilimenti.

«Che succede?» chiese dall’alto a uno di loro.

«Stiamo andando in piazza Venezia a fare da pubblico al duce che sta per pronunciare un discorso» rispose questi. «Poi ritorniamo.»

Olimpia intuì che stava per capitare qualcosa di grosso e, sospese le prove, si avviò verso il ristorante che era dotato di una radio potente.

Attori, registi e tecnici stavano raggiungendo come lei il locale. Vide Blasetti, in maglione e stivaloni, Assia Noris, Osvaldo Valenti, Alida Valli, il regista Camerini, Elsa De Giorgi, che si facevano largo tra la folla che si era radunata davanti al ristorante.

Olimpia trovò a stento un posto e sedette mentre rimbombavano le prime parole del duce.

«Combattenti di terra, di mare, dell’aria; camicie nere della rivoluzione e delle legioni» esordì la voce ben nota; «uomini e donne d’Italia, dell’Impero e del regno d’Albania, ascoltate. Un’ora segnata dal destino batte… scendiamo in guerra contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’Occidente che in ogni tempo hanno ostacolato e spesso insidiato l’esistenza stessa del popolo italiano…»

Un mormorio indistinto seguì le ultime parole del duce, poi qualcuno si mise a piangere, molti si alzarono in fretta e si dispersero per i viali.

Olimpia raggiunse il suo camerino e dovette ammettere che Giulio aveva sempre avuto ragione.

Ma cosa voleva dire essere in guerra? Gualtiero doveva forse partire per qualche fronte lontano? Come mai non lo vedeva da alcuni giorni? Che ne sarebbe stato di lei?

Si avviò pensosa all’uscita e quasi si imbatté nell’auto di Morlacchi che stava arrivando in quel momento.

«Vieni» la invitò lui, «ti porto a casa io.»

Era stravolto, col volto segnato dalla stanchezza.

In auto sbottò: «È una pazzia, non siamo pronti per la guerra. Nemmeno Hitler pretendeva il nostro intervento, e il conte Ciano ha fatto di tutto per dissuadere il duce… Ma lui ha paura di essere tagliato fuori dai frutti della vittoria imminente del Reich. Stanno tutti sottovalutando la potenza dell’Inghilterra e non pensano che gli Stati Uniti potrebbero intervenire».

«E tu cosa farai?» chiese Olimpia.

«Per ora non parto per il fronte; così è stato deciso, visto che ho già fatto la guerra d’Etiopia e quella di Spagna e ho la carica di sottosegretario. Cinecittà continuerà a produrre pellicole, perché gli italiani vanno distratti. Ma tra poco non ci saranno film che tengano: gli effetti della guerra si faranno sentire anche a Roma.»

Rassicurata dalla circostanza che per lei e Gualtiero nulla sarebbe cambiato, Olimpia si predispose a sopportare con pazienza quelli che considerava gli inevitabili, seccanti fastidi della guerra in arrivo.