CAPITOLO 1
MORTE AL TICINESE
Martedì, 14 ottobre 1980
A lunghe falcate, i capelli scuri al vento, stretto nell’impermeabile per proteggersi dall’insolito gelo di quella mattina di primo autunno, il commissario Marco Pisani varcò il portone del vasto complesso sull’alzaia del Naviglio Pavese e percorse il primo cortile guardandosi intorno con attenzione.
Un edificio popolare, osservò, abitato da una miscellanea di operai, anziani, studenti, forse anche da qualche simpatizzante di opposti estremismi, che sarebbero stati piuttosto riottosi a parlare con la Polizia.
Nel secondo cortile, dove erano parcheggiate alcune auto fra le quali l’Alfetta della sua squadra, era radunata una piccola folla di vicini, curiosi, bottegai dei dintorni, che guardavano in alto, scrutando con avido interesse il ballatoio del secondo piano, dove una porta aperta, piantonata dall’appuntato Balzoni, indicava il luogo del delitto.
Le voci si intrecciavano.
«Pina? La sarta?» chiedeva una ragazza bionda, forse una studentessa.
«Morta ammazzata!» la informò un uomo di mezza età con un grembiule da barista. «E pensare che la mattina veniva sempre da me a prendere il caffè… Una donna gentile…»
«Chi può essere stato?» mormorò una vecchietta quasi parlando a se stessa. «Vivere da sola per una donna, di questi tempi, è proprio pericoloso. Ma io sto sempre attenta a chiudere bene la porta, con la gentaglia che c’è in giro!»
«I soliti drogati, chi vuole che sia stato?» le rispose il portinaio, un omone dal naso arrossato in modo sospetto, che batteva i piedi per il freddo, insaccato in un vecchio pastrano scuro, e che parlava a ruota libera. «E proprio a me è toccato scoprire la poveretta in un lago di sangue! Una scena… per poco non mi sono sentito male; ho dovuto bere due bicchieri di vino per riprendermi. Anche questo mi doveva capitare! Non basta vigilare tutto il giorno come faccio io e chiudere il portone tutte le sere. Bisognerebbe chiedere i documenti, a chi entra. Qualche volta vedo in giro certe facce! Lo so io chi vanno a trovare, ma che ci posso fare? Dovrei avere una pistola… e poi cosa me ne farei?»
«Macché drogati!» ribatté un uomo anziano, decorosamente vestito, con una gran testa di capelli candidi e un giornale sotto il braccio. «Glielo dico io chi sono i responsabili: i soliti terroristi di Avanguardia Operaia o Prima Linea, che fanno i soldi per gli attentati rapinando la povera gente.»
Marco Pisani sorrise all’idea che bastassero i risparmi di persone come la signora Pina a finanziare il terrorismo.
«Commissario Pisani!» si sentì chiamare in quel momento.
Il gruppetto nel cortile si voltò come un sol uomo a scrutare la sua alta figura, mentre due giovani cronisti gli si avvicinavano.
«Commissario» lo interpellò Giorgio Guidi, un giovane sveglio che scriveva per il Corriere della Sera. «Cosa può dirci? Quando è stata uccisa? È un delitto passionale?»
«Ne so meno di voi, ragazzi. Ero impegnato da un’altra parte e sono appena arrivato. Lasciatemi un giorno di tempo e mi farò un’idea.»
«E noi cosa pubblichiamo, intanto?» protestò l’inviato de La Notte, un piccoletto dai capelli rossi imbacuccato in una sciarpa grigia.
«Se volete un consiglio» rispose Pisani, «evitate le chiacchiere di cortile.» E tra mormorii di disapprovazione prese a salire le scale.
Sul ballatoio gli si fece incontro il maresciallo Improta, un siciliano piccolo e magro dagli occhi neri mobilissimi nel viso profondamente solcato; lo seguiva l’appuntato Cotunno.
«Dentro sono tutti al lavoro, dottore» lo salutò Improta. «Si tratta di un delitto feroce: la carotide tagliata di netto. La vittima è una donna di mezza età che faceva la sarta, tale Giuseppina Accorsi. Il suo cadavere è stato scoperto alle otto dal portinaio, avvertito da un’amica della vittima che da ieri sera non riusciva a farsi aprire. Siccome la Accorsi era una persona molto tranquilla e abitudinaria, l’amica ha temuto un malore ed è entrata con il portinaio che ha copia delle chiavi; quindi ci hanno telefonato.»
«E ora chi c’è dentro?» chiese Pisani.
«Noi siamo stati i primi ad arrivare appena giunta la chiamata al centralino, ma naturalmente non abbiamo toccato niente. Aspettando che lei si liberasse, abbiamo avvertito la Scientifica e la procura. Adesso sono tutti lì.»
«Bravo, Improta; aspettiamo che l’appartamento si vuoti e vediamo di capirci qualcosa. Chi è il sostituto procuratore di turno?»
«Carminati» si intromise Cotunno. «Arrivato impettito come al solito e rigido come un baccalà.» L’appuntato era un bel ragazzo bruno di Sant’Angelo dei Lombardi, che portava il suo spirito napoletano nel grigiore della Questura centrale di via Fatebenefratelli.
«Oddio, Carminati!» mormorò sottovoce Pisani alzando gli occhi al cielo. «Quel trombone. Speriamo che si tratti di un caso semplice, altrimenti chi lo schioda dalle sue fisse…» E a voce alta: «Cotunno! Risparmiaci il tuo spirito e rispetta la magistratura!». Quindi varcò la porta superando una fila di gerani che rosseggiavano allegramente sulla ringhiera.
All’interno gli uomini della Scientifica, in tuta e guanti, erano al lavoro nel soggiorno. Un giovane tecnico era intento a disegnare la mappa del locale, mentre un collega, armato di polvere e pennello, rilevava le impronte digitali su mobili e maniglie. Il fotografo stava estraendo i suoi attrezzi dalla borsa.
«’giorno, commissario» lo salutarono. «Abbiamo già esaminato gli altri locali. Il cadavere non è stato rimosso: aspettavamo che arrivasse lei. Si trova qui dietro, in un salottino. A destra ci sono la camera da letto e la sala da pranzo, e lì troverà anche il medico legale e il procuratore Carminati.»
Pisani entrò a passo spedito nella stanza, dopo avere allungato uno sguardo obliquo nel piccolo locale dove si scorgeva la forma raggomitolata in terra, contornata di gesso bianco, che fino a poche ore prima era stata una creatura vivente.
«Alla buon’ora, commissario, la stavamo aspettando» lo investì il saluto sarcastico del procuratore.
«Buongiorno» rispose seccamente Pisani lanciandogli un’occhiata tagliente degli occhi blu ed evitando con cura di giustificarsi. «Allora, dottor Giuliani» continuò rivolgendosi con ostentazione al medico legale, un ometto azzimato dall’espressione grave, «cosa è successo?»
«Per ora l’unica cosa certa è che si tratta di omicidio. La vittima, Giuseppina Accorsi, è stata uccisa con un oggetto tagliente, direi un paio di forbici; si notano infatti due fori d’entrata. Le forbici sono state piantate nel collo e hanno tranciato di netto una carotide: la donna è deceduta in pochi minuti. Dell’arma del delitto non c’è traccia, forse l’ha portata via l’assassino. Dalla rigidità del cadavere direi che la morte risale a ieri sera, tra le sei e le dieci; dopo l’autopsia potrò essere più preciso. Non ci sono segni di colluttazione, pare che la donna non abbia neppure tentato di difendersi, e questo è strano.»
«Bisogna aggiungere» si intromise Carminati, «che ci sono ovunque segni di effrazione; sono stati sottratti denaro e gioielli. Di certo si tratta del solito ladro sorpreso a rubare, che ha perso la testa. Poiché pare che non abbia lasciato tracce, sarà impossibile individuarlo.»
«La porta quindi è stata forzata, oppure l’assassino è entrato da una finestra che dà sulla ringhiera» ironizzò Pisani, che aveva fatto in tempo a dare un’occhiata alla serratura intatta e alle robuste inferriate.
«No, pare di no» ammise di malavoglia Carminati. «Ma non vuol dire nulla: gli avrà aperto la vittima…»
Pisani sospirò contemplando il procuratore: elegantissimo come sempre, in un doppio petto su misura, con cravatta firmata e mocassini di Gucci. Alto e magro, capelli corti brizzolati e piglio militaresco, Carminati amava compiacersi del suo acume ed evitava con cura di farsi turbare dai dubbi. Per lui il caso era risolto e il colpevole introvabile.
«Bene, procuratore, la ringrazio dei suggerimenti» replicò Marco. «La terrò informata delle indagini.» E se ne andò senza voltarsi.
Quindi fece un rapido giro dell’appartamento e diede disposizioni al fotografo. Con tutta quella gente intorno sapeva che non sarebbe riuscito a concentrarsi. I luoghi, ne era convinto, serbano memoria degli avvenimenti drammatici di cui sono stati testimoni e parlano a chi sa ascoltarli, ma ci vuole silenzio e raccoglimento.
Si soffermò davanti al cadavere, evitando la pozza di sangue, e nonostante avesse visto tante altre vittime di morte violenta, provò un’istintiva pietà per quella donna modesta, che nella morte aveva conservato una certa aria di ingenuità e quasi un’espressione di stupore.
Tutto in lei rivelava una vita ordinata, che non meritava di finire in un lago di sangue. Una rapina? pensò istintivamente. Un’aggressione? Ma perché non si è difesa? Qui non c’è alcun segno di lotta. Se ha gridato, come mai nessuno l’ha sentita?
Si riscosse dai suoi pensieri e andò a cercare Improta. «Tra poco tutti leveranno le tende» lo informò. «Nel frattempo lei si divida il lavoro con Cotunno e Balzoni e andate a interrogare i vicini e i negozianti dei dintorni per appurare se qualcuno ha visto qualcosa, chi era la vittima, eccetera eccetera; sapete meglio di me cosa chiedere. Ci troviamo qui fra un paio d’ore per confrontare gli indizi e decidere chi convocare in Questura nel pomeriggio.»
Stava seguendo il lavoro del fotografo quando arrivò il carro mortuario e il cadavere fu rimosso; coperta da un telone grigio, la barella fu caricata in cortile tra la folla dei vicini. Gli uomini si scoprirono il capo, due donne si fecero il segno della croce.
Di lì a poco scesero anche il medico e il procuratore, e Pisani con la scusa di fumare una sigaretta uscì sulla ringhiera e si appostò per godersi la scena.
Mentre il medico se ne andava in fretta stringendo in mano la borsa, Carminati si fermò a parlare con i giornalisti tra la rispettosa attenzione del vicinato.
Salivano brandelli delle sue dichiarazioni: «Sì, Giuseppina Accorsi, cinquantasette anni, romana… faceva la sarta… una rapina, è quasi certo… ieri sera, non si sa a che ora… sorpresa… i soliti balordi… no, non hanno lasciato la firma… un delitto feroce… chissà che cosa speravano di trovare… la Polizia brancola nel buio».
Figlio di buona donna! pensò Pisani rientrando nella casa del delitto.
Finalmente solo, percorse lentamente le stanze lasciandosi impregnare dalla loro atmosfera: una donna modesta, la povera Pina, ma di un certo gusto e benestante. Bei mobili, alcuni libri, vestiti sobri di stoffe pregiate nell’armadio, anche una pelliccia. Pochi cosmetici in bagno, ma di buone marche, una cucina attrezzata. Ovunque un ordine perfetto ma non maniacale.
Un costoso televisore in sala suggeriva lunghe serate solitarie. Sui mobili, molte foto in cornici d’argento che i presunti ladri non avevano toccato: lei da giovane con un ragazzo, forse il fidanzato, ed entrambi, con qualche anno in più, sullo sfondo dei boschi in estate, durante una gita. Un gruppo di famiglia, e un vaso di fiori freschi accanto a un primo piano del marito.
Difficile pensare a un delitto passionale, tutto parlava di una vita tranquilla.
Il locale dove era stata uccisa era il suo luogo di lavoro; un armadio racchiudeva alcuni abiti ancora da terminare, aperta sul divanetto una scatola di latta era piena di spolette di filo di diversi colori, aghi, ditali, metri bene arrotolati, tutto l’armamentario di una sarta. Appoggiata a un tavolino d’angolo, una moderna macchina da cucire e, accanto, un manichino su cui erano piantati alcuni spilli.
C’era una cosa strana: gli schizzi di sangue lasciavano libero un tratto del pavimento, come se sotto la vittima ci fosse stato qualcosa che era poi stato rimosso dall’assassino. Perché? Se la poveretta si fosse aggrappata a un indumento, per esempio alla giacca dell’assalitore, questa avrebbe dovuto caderle addosso senza finire sotto il suo corpo.
E quel modo di uccidere, con un paio di forbici, chissà perché faceva pensare a una donna. A distanza ravvicinata, un uomo senza armi più facilmente usa un corpo contundente e colpisce alla testa, oppure si avventa alla gola per strangolare.
Anche il disordine nei cassetti non sembrava naturale, aveva piuttosto l’aria di una messa in scena, con tutti gli elementi che un poliziotto si aspetta sul luogo di una rapina.
Quando tornarono, Improta, Cotunno e Balzoni trovarono il commissario seduto al tavolo della cucina che meditava osservando le volute di fumo della sigaretta.
L’appuntato Oreste Balzoni, un giovanottone piemontese di corporatura atletica abilissimo negli inseguimenti in auto, assegnato al primo cortile, aveva interrogato il portinaio, che la sera prima non aveva notato nulla di insolito. «Ma» aggiunse il poliziotto, «probabilmente all’ora del delitto aveva fatto come al solito il pieno di alcol. Basta guardargli il colore del naso.»
Gli altri inquilini comprendevano un paio di famiglie con bambini dalla televisione perpetuamente accesa, una vecchietta piuttosto sorda, alcuni studenti e un pensionato, tale ragionier Gerardo Campanini, che invece intorno all’ora di cena era alla finestra e aveva notato alcune persone che entravano e uscivano.
Nel terzo cortile Cotunno aveva suonato a una porta del secondo piano da cui era pervenuto un febbrile trapestio e il grido d’allarme: “Gli sbirri!”.
Dopo una lunga attesa era stato ammesso in una stanza dove tre capelloni e una ragazza avevano fatto sparire in fretta dei volantini, uno dei quali, con la sigla di Autonomia Operaia, era caduto accidentalmente per terra; sulla parete di fondo della stanza campeggiava il classico poster di Che Guevara.
I quattro non gli erano sembrati dei duri. Prima ancora che lui aprisse bocca si erano profusi in alibi fumosi dai quali si evinceva che il giorno prima non si erano mossi di casa per tutto il pomeriggio, che avevano una gran simpatia per Pina, la quale si informava sempre dei loro esami all’università, e che avrebbero volentieri preso a botte chi le aveva fatto del male.
Cotunno andandosene aveva ricordato loro che per far giustizia erano pagati gli sbirri, anche se molto poco.
A Improta invece era toccato sentire la testimonianza più importante, quella di Luciana Lavezzi, l’amica che aveva scoperto il cadavere. Abitava di fronte a Pina, dall’altra parte del secondo cortile, ed era a letto in stato di shock, ma si era sforzata di rispondere.
Aveva raccontato tra le lacrime che verso le otto di sera, quando era andata da lei per chiederle un favore, Pina non aveva risposto al campanello, cosa strana perché a quell’ora era sempre in casa. E non aveva risposto nemmeno alle dieci, quando, un po’ preoccupata dopo alcune telefonate a vuoto, la Lavezzi era tornata.
Finché quella mattina alle sette, dopo l’ennesimo tentativo, temendo che Pina si fosse sentita male, si era confidata col portinaio che aveva il doppione delle chiavi e insieme avevano deciso di aprire la porta.
E qui Luciana era scoppiata in singhiozzi e Improta non se l’era sentita di infierire ancora, sapendo che comunque sarebbe stata convocata in Questura.
Nessuno degli altri abitanti del cortile aveva visto filtrare luce dall’appartamento per tutta la sera.
«Ma» aggiunse Improta, «c’è qualcosa che non mi convince… C’è un’altra pista da approfondire. Non tutte la famiglie qui dentro sono gente a posto…» E i suoi nerissimi occhietti, appesantiti da profonde borse, ammiccarono guardando verso il basso.
«Improta, basta con gli indovinelli» sbottò Pisani. «Qui non siamo nella sua Sicilia. Se ha notato qualcosa, lo dica chiaramente.»
«Ecco» ammise con riluttanza il maresciallo, «proprio sotto l’appartamento della vittima abita una vedova con due figli grandi. Quando sono arrivato la donna si stava preparando per andare al lavoro: fa la domestica presso una famiglia. I figli invece erano ancora a letto. Mi ha detto che, poveretti, sono ragazzi tanto bravi ma non riescono a trovare lavoro; però in casa c’è un televisore costoso e nella vetrinetta una raccolta di liquori di marca. Ho intravisto un ragazzo che si infilava in bagno: una faccia, mi sia permesso dirlo, da delinquente. L’altro, più giovane, è venuto in cucina, si è seduto davanti a me con aria strafottente e mi ha raccontato che ieri pomeriggio, mentre era solo, per un bel po’ di tempo ha sentito al piano di sopra un rumore di tacchi femminili. Ci ha fatto caso perché Pina in casa portava le pantofole e i suoi passi non si sentivano mai. Ho pensato che volesse depistarmi.»
Pisani, messo in allerta per la notizia di quei tacchi femminili che corrispondevano alla sua intuizione, dispose senz’altro la convocazione del ragazzo.
«E adesso» concluse, «raccogliete tutti i dati anagrafici della vittima, mentre io vado in centrale a studiare i reperti. E, a proposito, si dovranno avvertire eventuali familiari.»
«C’è una sorella a Roma, dottore» rispose Improta. «Mi ha dato il numero di telefono la Lavezzi e mi sono permesso di avvertirla; dovrebbe arrivare a Milano in serata.»
Con Improta Marco lavorava bene fin da quando, cinque anni prima, ventisettenne vicecommissario appena uscito dalla scuola di Polizia, era arrivato alla Questura centrale di via Fatebenefratelli per essere assegnato alla Squadra Mobile, sezione Omicidi. Una volta commissario, lo aveva voluto nel suo gruppo.
Palermitano, quarantacinque anni, Improta aveva davvero la prontezza di mente che un luogo comune attribuisce ai siciliani; in più ai suoi occhietti neri non sfuggiva quasi nulla ed era leggendaria la sua memoria per fisionomie e fatti. Se da ragazzo avesse potuto proseguire gli studi sarebbe stato un ottimo commissario, perché aveva un notevole spirito di iniziativa. Invece, al massimo della carriera, manteneva a fatica, con l’aiuto della moglie impiegata alle Poste, una famiglia di tre figli, il maggiore dei quali, dodicenne, era particolarmente sveglio e a costo di qualunque sacrificio economico avrebbe dovuto studiare.
Il maresciallo aspettava con ansia l’imminente riforma e smilitarizzazione della Polizia che, oltre a trasformarlo in un ispettore, titolo più aderente ai suoi compiti, avrebbe significato un sostanzioso aumento di stipendio e il pagamento degli straordinari.
L’unico lato del suo carattere che urtava l’impazienza innata di Pisani era la reticenza: Improta era sempre restio, nemmeno si trattasse di testimoniare a un processo, nel confessargli le sue intuizioni, che spesso erano acute e illuminanti.
Ma la stima e l’amicizia per il suo collaboratore erano tali che Marco, nonostante la sua inclinazione alla solitudine e il carattere spigoloso, accettava volentieri gli inviti a cena della signora Concetta, e con la famiglia Improta passava piacevoli serate di chiacchiere e di ottima cucina isolana. Arrivava perfino a raccontare episodi della sua famiglia, sicuro che non sarebbero stati riportati in ufficio.
A parte il vicequestore Calisti, che lo conosceva dalla nascita perché vecchio amico di suo padre, alla centrale quello delle origini del commissario Pisani era un mistero irrisolto. Non che ci fossero segreti vergognosi da proteggere, ma Marco teneva gelosamente nascosto il fatto di appartenere a un’illustre e ricca casata veneziana: celebre avvocato il padre, con studio importante a Mestre, nobildonna la madre, nota a Venezia per il suo spirito e gli ambiti ricevimenti nel palazzo gotico di famiglia in campo Santa Margherita.
Marco adorava i genitori e la sorella, maggiore di lui di un paio d’anni, che aveva seguito le orme paterne ed era a sua volta un ottimo avvocato, ma nell’ambiente della Squadra Mobile preferiva non essere scambiato per un figlio di papà e si ingegnava a vivere del suo stipendio per non essere diverso dagli altri.
Alle tredici Pisani era nel suo ufficio insieme alla squadra, per visionare i reperti accuratamente custoditi in buste di plastica.
L’esame della scena del delitto effettuato dalla Scientifica aveva dato risultati sconcertanti: tutte le maniglie dell’appartamento, i piani dei tavoli, i rubinetti del bagno, perfino i mobili della cucina erano privi di impronte, accuratamente ripuliti. Le poche rilevate, sui pulsanti della luce e sul piano di qualche mobile, appartenevano a Pina e ad altre due persone che, Pisani ne era certo, una volta controllate si sarebbero rivelate di insospettabili amiche. L’assassino quindi aveva avuto il tempo di cancellare meticolosamente ogni traccia che poteva aver lasciato.
«O si tratta di un delinquente già schedato» ipotizzò Cotunno pensando ad alta voce, «o è qualcuno che frequentava abitualmente la casa, un vicino per esempio, che temeva di essere identificato.»
«È molto improbabile che un ladro abituale perda la testa se sorpreso da una donna di mezza età» intervenne Improta. «Avrebbe potuto stordirla, legarla e imbavagliarla. Che bisogno c’era di ucciderla, rischiando l’ergastolo, per rubare pochi soldi?»
«A meno che non si tratti di un drogato in astinenza che cercava denaro per la dose» suppose Cotunno.
«Ma ve lo immaginate un drogato che, già scosso per l’omicidio, e per giunta in crisi di astinenza, ha il sangue freddo di pulire porte, mobili, rubinetti e chissà cos’altro?» osservò Pisani.
No, nessuno lo immaginava.
«In casa, oltre ai soldi e ai gioielli, mancava altro?» continuò il commissario.
«Pare proprio di no» rispose Improta. «Sono riuscito a trascinare la Lavezzi con me per un rapido sopralluogo e lei non ha notato nulla di mancante. Inoltre» continuò sviluppando un suo pensiero, «nessun ladro abituale e nemmeno l’ultimo balordo si metterebbe in bella vista su una ringhiera, più o meno a metà pomeriggio, a tentare di entrare in un appartamento con le luci accese, dato che la vittima è stata sorpresa in casa, mentre lavorava.»
«La porta infatti non è stata forzata e le finestre hanno solide inferriate; questo dimostra che la vittima ha aperto di sua volontà all’assassino» confermò Pisani. «Dovremo informarci se Pina lasciasse talvolta la porta aperta per distrazione. In compenso l’assassino, per ritardare la scoperta del cadavere, uscendo ha chiuso e si è portato via la chiave, e questo rivela intelligenza e sangue freddo. Impossibile che si tratti di un balordo. Altro che caso semplice come dice il procuratore…»
Arrivò in quel momento il referto dell’autopsia che il medico legale, consapevole che per identificare l’autore di un omicidio sono determinanti i primi due giorni, si era affrettato a eseguire.
La vittima era morta per emorragia acuta causata da un’arma da taglio, di sicuro un paio di forbici lunghe e affilate, semiaperte, come testimoniava la presenza di un secondo foro a cinque centimetri di distanza da quello fatale. Le forbici avevano tranciato la carotide sinistra penetrando fin nell’esofago; il sangue era in parte fuoriuscito a fiotti e in parte era defluito dall’esofago nello stomaco. La donna era morta in poco più di un minuto.
L’analisi dello stomaco aveva rivelato una digestione completa; quindi la morte, considerata la temperatura dell’alloggio, la rigidità del cadavere non ancora completa e le macchie ipostatiche già fissate, doveva risalire a un arco di tempo tra le sette e le otto di sera. Poco prima di essere uccisa la vittima aveva bevuto un caffè.
Nel cartone che conteneva i reperti Pisani osservò la busta di plastica con i documenti della donna, Giuseppina Allotta, nata a Roma il 15 luglio 1923. Accorsi era dunque il cognome del marito, che donne come Pina portavano orgogliose fino alla morte.
Nel portafogli, anche quello privo di impronte, un libretto di assegni su cui era annotato un deposito di quindici milioni, un’immaginetta sacra consunta, la foto di due anziani di altra epoca, forse i genitori, quella del marito, due scontrini di un supermercato, un cornetto portafortuna.
Tra i reperti, una bustina conteneva uno spillo trovato in bocca al cadavere, un’altra due paillettes d’argento che brillavano con irriverenza in quella macabra compagnia.
C’erano anche un’agenda, che Pisani si propose di esaminare più tardi, un libro letto a metà, alcune lettere della banca. Gli abiti del cadavere erano ancora all’esame della Scientifica.
Dopo un rapido spuntino Marco si accinse a interrogare i testimoni, in attesa in sala d’aspetto sotto la guardia di Balzoni.
«Cosa sappiamo della Lavezzi?» chiese a Improta bevendo un caffè.
«Milanese, quarantotto anni, vedova, ha una figlia sposata con un tranviere. Vive della pensione del marito e fa le pulizie in qualche ufficio. Ha una casa di due stanze, molto più modesta di quella della Accorsi, ma pulita e ordinata. Erano amiche da vent’anni e anche i mariti si frequentavano…»
«E poi?» sollecitò Pisani che aveva intuito la solita reticenza.
«Ecco, non vorrei insinuare, non è che la Lavezzi mi abbia detto qualcosa…»
«Ma insomma!» ruggì Pisani perdendo la pazienza.
«Scusi, dottore, sono piccoli dettagli: una certa cura nel vestire e una telefonata arrivata mentre ero lì. Sì, insomma, ho avuto l’impressione che la Lavezzi abbia, per così dire, un fidanzato.»
Il solito puritano. Cosa c’entrava con l’indagine un eventuale amante della Lavezzi?
«La faccia entrare, Improta, e mandi Cotunno a dattilografare.»
La Lavezzi era una bella bruna formosa, col viso ancora arrossato dal pianto. Si sedette composta davanti al commissario, desiderosa di collaborare.
«Non riesco a crederci, dottore. Chi può averle fatto del male? Una donna così a posto e generosa. Si figuri che quando mio marito è morto e mia figlia ancora studiava, lei ci invitava spesso a cena con la scusa della compagnia, ma io capivo che lo faceva per aiutarmi; e cuciva qualche vestitino per mia figlia, le faceva regali.»
«Eravate molto intime?»
«Oh sì, fin da quando c’erano i nostri mariti. Allora andavamo tutti insieme in pizzeria al sabato, facevamo delle gite; loro non avevano avuto figli e si erano affezionati alla mia Rosanna. Stavano meglio di noi economicamente, perché Aldo, suo marito, lavorava in proprio come elettricista e aveva anche due o tre aiutanti, così si erano ingranditi la casa e avevano comperato anche un altro appartamento. Il mio povero marito invece era infermiere, e prima che venisse a mancare abbiamo fatto appena in tempo a comperare il nostro bilocale. Ma io me la cavo: ho la sua pensione, faccio qualche pulizia e Pina quando aveva molto lavoro mi dava qualcosa da cucire. Eravamo come due sorelle.»
Si interruppe per una crisi di pianto.
Marco le fece portare un caffè e aspettò che si calmasse. «Che lei sappia» riprese poi, «aveva un legame sentimentale?»
Un lieve rossore colorì il viso della Lavezzi. «Pina? Oh no, dottore; dopo suo marito non ha voluto altri uomini. Sa, il loro era stato un grande amore… Se avesse avuto qualcuno io l’avrei saputo: ci confidavamo tutto.»
«Era attenta a chiudere la porta o qualche volta la dimenticava aperta, come si usava un tempo negli edifici di ringhiera?»
«La povera Pina?» esclamò la Lavezzi. «Era attenta, quasi maniacale. Non solo chiudeva sempre a chiave, ma avrà notato che c’era una catenella. Prima di aprire guardava sempre dalla fessura e toglieva la catena solo se era qualcuno che conosceva.»
«Quindi è impossibile che abbia aperto a uno sconosciuto che, per esempio, si spacciasse per un impiegato della sua banca o del gas» incalzò Pisani.
«Impossibile» replicò la Lavezzi. «Pina non era una stupida e tra noi parlavamo spesso di questi pericoli per una donna sola.»
«Secondo lei, chi può essere stato?»
«Dicono un ladro, ma adesso che mi ci fa pensare, se la porta non è stata forzata, non ci credo più. Non so cosa dirle, commissario, so solo che Pina non se lo meritava» sospirò la Lavezzi.
«Veniamo a ieri sera» riprese Marco. «A che ora è andata a suonare alla Accorsi?»
«È stata una cosa strana, avrei dovuto insospettirmi subito… Saranno state le otto, stava per cominciare il telegiornale. Pina non mi aspettava, io ero andata a chiederle un dado per il brodo, perché mi ero accorta di non averne e volevo fare una minestrina. A quell’ora lei era sempre in casa. Ho suonato a lungo, era tutto buio. Oggi ci ho pensato tanto… perché mi è venuto in mente… mi era parso di vedere un’ombra dietro il vetro… Sul momento non ci ho fatto caso, ma forse era l’assassino e Pina era già morta, o forse potevo ancora aiutarla, se avessi sfondato il vetro o chiesto subito le chiavi al portinaio. Non riesco a perdonarmelo…» E qui ruppe di nuovo in pianto.
«Si calmi, signora» intervenne Marco. «Per come è avvenuto il delitto non avrebbe potuto fare nulla, avrebbe solo rischiato di fare una brutta fine anche lei.» I singhiozzi della Lavezzi si fecero più convulsi. «E dopo?»
«Dopo sono tornata a casa, inquieta; ogni tanto guardavo le sue finestre, ed erano sempre buie. Ho pensato che fosse andata da Giovanna Fusi, l’altra amica che abita in via Meda, ma era strano, perché Pina non esce, cioè… non usciva mai di sera, specie col buio. Ho suonato di nuovo alle dieci, ma niente. Poi stamattina, visto che alle sette non rispondeva ancora, ho capito che doveva essere successo qualcosa.»
«Lei sa se in casa teneva soldi o gioielli?»
«Ma no! Di soldi poteva avere cento, duecentomila lire, giusto per la spesa e le necessità improvvise; il resto lo teneva in banca. Conosco bene i suoi gioielli: un paio di anelli, uno con un brillantino, un bracciale, due collane d’oro, un paio di spille e gli orecchini antichi della nonna; non era una donna che amasse il lusso. I bei vestiti sì, ma era il suo mestiere, ed era molto brava come sarta. Pensi che tra le sue clienti c’era anche la contessa Aldrovandi, una delle più conosciute a Milano, una che fa parte dell’alta società. Stava per farle un vestito per la prima della Scala, tutto d’argento.»
«Ah, l’Aldrovandi, quella degli elettrodomestici!» si meravigliò Pisani. «E perché Pina lavorava se non aveva bisogno di soldi?» continuò.
«Cosa vuole, dottore, il lavoro era la sua vita: le piaceva creare cose belle, le piaceva ricevere le clienti, aveva la scusa per andare ogni tanto in centro a comperare i bottoni o le fodere. E in quelle occasioni si vestiva elegante. Ogni tanto mi portava con lei e finivamo sedute in un bar della Galleria a guardare il passeggio. Erano i nostri colpi di vita.» E riprese a piangere sommessamente.
Pisani la liquidò facendole firmare il verbale e raccomandandole di tenersi a disposizione.
Il barista, convocato subito dopo la Lavezzi, aveva fretta di tornare al lavoro. Raccontò, senza farsi pregare, la routine della Accorsi, che la mattina andava a fare colazione da lui con caffè e brioche, un’abitudine, gli diceva, che si era portata dietro da quando viveva a Roma. Scambiava due parole con sua moglie o con qualche avventore abituale, come il ragioniere del primo piano; chiacchiere così, sul tempo, sui programmi televisivi.
A volte si trovava con Giovanna Fusi, una signora anziana che era anche sua cliente, bevevano il caffè e poi andavano al mercato. Non l’aveva mai vista con estranei, sembrava serena, a volte un po’ malinconica. Il suo dispiacere, come confidava qualche volta a sua moglie, era non aver avuto figli.