CAPITOLO 14

LA COLLANA DEL MAHARAJAH

Mercoledì, 25 febbraio 1981

La guerra dei nervi che Pisani aveva intrapreso contro la contessa Aldrovandi pur non avendo dato frutti lo rendeva più sicuro di sé.

Lo aveva lasciato soddisfatto, anche se lei aveva negato la circostanza, la visita che le aveva fatto per controllare la deposizione di Cangemi, il giovane che l’aveva incontrata sul portone di Pina Accorsi mentre lei stava entrando. Aveva la sensazione, pallida e affaticata come gli era apparsa, che la donna stesse cedendo. Era sempre più certo di essere al capolinea, che ormai fosse tempo di concludere.

La mattina dopo l’incontro, Marco si presentò in ufficio con la grinta dei giorni migliori. Radunò la squadra e pianificò la strategia successiva.

«Fra una settimana circa» annunciò, «il tempo di perfezionare le altre indagini in corso, andrò a Rimini. Lì si giocherà l’ultima partita, me lo sento. Almeno lo spero» precisò. «Se non troveremo una prova decisiva nel passato dell’Aldrovandi, per il delitto Accorsi non ci sarà niente da fare. Tu, Cotunno, mi accompagnerai, così smetterai di lamentarti che non ti porto mai in giro.»

Cotunno sorrise soddisfatto.

«Intanto preparami i documenti del caso Serra. Con l’Aldrovandi nulla è certo. Raduna tutte le informazioni senza trascurare la minima traccia sospetta. Sono le ultime ricerche che possiamo fare prima di dichiararci battuti da quella donna. Cotunno!» chiamò poi l’agente che stava già galoppando verso l’archivio. «Devi procurarmi i pochi documenti che abbiamo sulla sua vita a Rimini: l’indirizzo del negozio, a chi l’ha venduto, dove abitava.»

Quando lunedì 2 marzo partirono per la cittadina romagnola, Pisani e Cotunno avevano con loro un esiguo bagaglio di informazioni. Pisani esaminò le carte mentre l’agente guidava l’auto nel traffico intenso di inizio settimana.

Del caso Serra c’era il fascicolo completo fotocopiato, e Cotunno lo aveva arricchito con alcune foto, tratte da riviste dell’epoca procurate da Mantovani, che raffiguravano l’artista adorna dei suoi gioielli. Su una copertina in particolare, la cantante indossava la famosa collana del maharajah, della quale c’era un’immagine anche tra i documenti della Polizia.

La Camera di Commercio di Rimini aveva fornito per telefono l’indirizzo della gioielleria che la Cavenaghi aveva aperto nel 1948, inoltre aveva informato Cotunno che l’esercizio era stato venduto nel ’56 a tale Pietro Longiani, che ne risultava ancora titolare.

All’anagrafe la Cavenaghi era registrata come residente a Rimini dall’agosto del ’45, prima in una vietta del centro storico poi, dal ’48, in viale Mantegazza.

Chissà dove si era rifugiata fra la strage di Desenzano e la Liberazione!

All’Associazione Industriali di Milano era iscritta col titolo di ragioniera, conseguito a Rimini nel ’48, come privatista in una scuola serale. Marco non poté impedirsi di provare un moto di ammirazione per la tenacia della donna.

«Da dove cominciamo?» gli chiese Cotunno quando verso mezzogiorno giunsero nella città romagnola.

«Naturalmente da un buon ristorante di pesce» rise Pisani. Conosceva un indirizzo fidato di un locale sul lungomare aperto tutto l’anno.

Si sedettero davanti a una vetrata da cui si potevano scorgere il mare sotto un pallido sole invernale e la spiaggia deserta con gli stabilimenti in disarmo.

«Mi piace il mare d’inverno» osservò Cotunno. «La natura si riappropria di se stessa. D’estate invece sembra di essere a Disneyland, o almeno così immagino, dato che in America non ci sono mai stato.»

«E gli studi all’università come vanno?» chiese Marco che nell’affanno del lavoro quotidiano, con suo grande rincrescimento, non aveva mai tempo per interessarsi alle questioni personali dei suoi uomini.

«Ho già dato più di metà degli esami» lo informò l’agente. «Ma adesso, con quello che è successo a Sant’Angelo, ogni giorno di ferie vado a casa per aiutare i miei a riparare i danni, e ho poco tempo per lo studio.»

«Sei giovane, per fortuna. Non mollare e arriverai alla laurea» lo incoraggiò Marco, vergognandosi un poco della condizione di privilegio di cui aveva sempre goduto.

Presero il caffè con calma, poi ordinarono un digestivo. Sembrava che Pisani indugiasse apposta prima di mettersi al lavoro, considerò Cotunno fra sé, come se il commissario temesse e volesse allontanare nel tempo l’ennesima delusione.

«Andiamo a vedere dove abitava la nostra contessa» decise infine Marco. «Cominciamo dall’ultimo indirizzo, la casa che ha lasciato prima di sposarsi con il conte Aldrovandi.»

L’edificio di viale Mantegazza era una bella villa di inizio secolo che sorgeva su un basamento a terrazza a cui si accedeva da brevi scalinate ricurve ai lati della facciata; intorno c’era un giardino all’inglese con alberi imponenti. Doveva appartenere a villeggianti, perché era sbarrata per l’inverno.

«Una casa ricca» commentò Marco. «Ma non c’è nessuno, l’ennesimo buco nell’acqua.»

Furono più fortunati con l’appartamento che Olimpia aveva occupato per pochi anni, appena arrivata a Rimini. Il palazzo aveva una portineria, e dopo che Cotunno ebbe suonato a lungo, apparve nella guardiola, provenendo da una stanza sul retro, un donnone di mezza età con i baffi, dall’aria contrariata, infagottata sommariamente in una vestaglia a quadrettoni.

«Stavo riposando» ringhiò. «Che cosa volete?»

«Polizia!» dichiarò Marco divertito, esibendo il tesserino.

«Oh, scusate, agente» esclamò la donna cambiando tono. «Non sapevo… In che cosa posso esservi utile?»

«Commissario, signora, sono un commissario della Questura di Milano, mi chiamo Marco Pisani. Vorrei avere informazioni su una ragazza che ha abitato qui appena dopo la guerra. Si chiamava Cavenaghi.»

«Ma quanto mi dispiace, commissario! Non posso aiutarvi. Io allora non c’ero. Ho avuto questo posto solo cinque anni fa, grazie a mio cognato che era…»

«Ma lei saprà almeno chi è l’amministratore del palazzo, o il proprietario, se ce n’è uno solo» la interruppe Marco.

«Già, certo, la proprietaria. Sì, è una signora che l’ha ereditato dal padre» precisò la donna. «Anzi, abita qui: è la signora Ghidini. Se volete vado ad avvertirla.»

«Ci pensiamo noi» si impose Cotunno che aveva già individuato il campanello.

Ada Ghidini abitava all’ultimo piano, in un grande appartamento luminoso. Era una signora raffinata di circa sessant’anni, i capelli grigi tagliati corti, gli occhi di un azzurro trasparente. Li accolse gentilmente ma con una punta di stupore.

«La Questura di Milano?» esclamò. «In che cosa posso esservi utile? Ma entrate, accomodatevi. Posso offrirvi un caffè?» E fece loro strada in un vasto soggiorno dalle cui vetrate si ammirava il panorama della città e in lontananza il mare, percorso da sbuffi di spuma biancastra.

«Abbiamo saputo che subito dopo la guerra ha abitato in questo palazzo una certa Cavenaghi» attaccò Marco sorseggiando il caffè, gradevolmente aromatico. «Lei era già qui? L’ha per caso conosciuta?»

«Olimpia! Ma sicuro! Eravamo buone amiche» confermò la Ghidini. Pisani esultò alla notizia. «Ma perché me lo chiede, commissario? Cosa le è successo?»

«Stiamo svolgendo un’indagine sulla signora» ammise Marco. «Ma sono cose molto riservate e non le posso dire nulla. Però vorrei sapere da lei tutto quello che ricorda della Cavenaghi nel periodo in cui l’ha frequentata.»

«Be’, rammento molte cose… Da dove devo cominciare?»

«Cominci dall’inizio, signora. Come l’ha conosciuta?»

La Ghidini tacque qualche minuto per raccogliere i ricordi, poi iniziò a raccontare.

Olimpia si era presentata a suo padre, che all’epoca era il proprietario dell’immobile, un giorno dell’estate del ’45 (Milano era stata da poco liberata). Aveva sentito dire in un negozio vicino che in quell’edificio c’era un appartamentino da affittare. Il palazzo per fortuna aveva subito solo danni superficiali e gli alloggi erano abitabili. Lei aveva visitato le due stanze con servizi disponibili al secondo piano e aveva dichiarato subito che andavano bene. Aveva firmato il contratto e pagato in dollari; questo la Ghidini lo ricordava perché suo padre ne era rimasto soddisfatto. La sera stessa aveva preso possesso dell’appartamento, che poi aveva arredato alla meglio.

«Aveva l’aria di una che si nasconde?» chiese Marco. «Disponeva di molto denaro?»

«Denaro ne aveva» rispose la donna. «Ma spendeva con molta oculatezza. Non direi che si nascondesse. Vede, commissario, avevamo la stessa età e non ci mettemmo molto a diventare amiche. Olimpia mi confidò che veniva da Milano, che suo padre era un orafo, ma lei con la guerra era rimasta sola al mondo e per trasferirsi aveva venduto tutti i beni di famiglia tranne i gioielli del negozio, che aveva già provveduto a mettere al sicuro in una cassetta in banca. Non voleva più stare a Milano, era troppo piena di ricordi tristi. Voleva rifarsi una vita qui, in un ambiente completamente diverso.»

«Le disse perché aveva scelto Rimini?»

«No, ma io credo che avesse voglia di un luogo di villeggiatura per dimenticare la guerra, per vivere in un clima di vacanza. Quella prima estate, lo ricordo bene, era torrida, riarsa da un sole implacabile, e noi passavamo in spiaggia lunghi pomeriggi facendo il bagno e chiacchierando. Talvolta si univano a noi i miei amici, la sera si organizzavano festicciole nei cortili delle case rimaste in piedi. Olimpia però non intendeva starsene con le mani in mano, anzi, si diede subito da fare. In autunno era già iscritta a una scuola serale di ragioneria.»

«Come mai?»

«Mi disse che nel dopoguerra ci sarebbero state opportunità per tutti, e per diventare ricchi bisognava saper fare bene i propri conti. “Mai fidarsi degli altri” era il suo motto. Ed era in gamba, perché in tre anni prese il diploma.»

«E come impostò la sua vita? Lo ricorda ancora?» Marco beveva le parole della Ghidini mentre Cotunno prendeva appunti su un taccuino.

«Ricordo tutto di quegli anni. Per noi, usciti dalla guerra, era un periodo eroico, e quando mi trovo con gli amici di quel tempo rievochiamo ancora le nostre avventure, a volte parliamo anche di Olimpia. Lei allora chiacchierava volentieri con noi ragazzi per farsi un quadro della città e delle sue prospettive. Alcuni di noi, come Gianni Fabbri, che allora era un bel giovane, biondo come uno svedese, e Lauro Cantoni, dinamico e sempre in movimento, erano albergatori e, come molti altri, stavano recuperando e ingrandendo l’albergo di famiglia in vista delle ondate di villeggianti che nel giro di pochi anni sarebbero arrivati. Altri erano insegnanti miei colleghi. Nella compagnia c’era anche un avvocato, Luca Danteschi, che era stato partigiano, e due medici, Bruno Cambiani e Giancarlo Cobelli, che avevano combattuto in Africa, oltre alle figlie delle famiglie benestanti della città, che avrebbero volentieri sparlato della “straniera” se solo Olimpia avesse dato loro il minimo pretesto.»

«Sappiamo che aveva aperto una gioielleria…» la sollecitò Marco.

«Sì, ma anche quella non fu una decisione avventata. Come le ho detto aveva conservato i gioielli di famiglia, che furono la sua base di partenza.»

Marco sorrise al ricordo della casa di ringhiera in cui Olimpia era nata; i gioielli confermavano la sua responsabilità nel delitto della cantante Anita Serra. Il commissario cominciava a sperare di essere sulla giusta strada.

«Già sul finire di quella prima estate capì che non era il caso di aspettare a fare investimenti» continuò la signora Ada. Si era alzata e dalla vetrata guardava il mare, come per concentrarsi meglio. «I prezzi degli immobili e dei terreni andavano aumentando rapidamente, e lei voleva una casa sua. Dopo qualche mese trovò una villa abbandonata e cadente di inizio secolo su viale Mantegazza, tra la città e il mare. Allora la gente riparava la propria casa o prenotava appartamenti nei condomini che andavano sorgendo. Molti comperavano immobili che si prestassero a diventare pensioncine. Quella casa, bombardata e senza infissi, aperta al vento, col tetto sfondato, non faceva gola a nessuno. Gli amici tentarono di dissuaderla, le magnificarono i vantaggi degli appartamenti moderni, le fecero notare che quel vecchiume non era più di moda. Ma lei fu irremovibile. Tramite l’avvocato Danteschi rintracciò i proprietari, una famiglia di Bologna che non aveva il denaro per ristrutturare ed era ben felice di disfarsi dell’immobile. Olimpia ne entrò in possesso a un prezzo bassissimo e nel giro di un paio d’anni di lavori ne fece una dimora elegante.»

«E la gioielleria?» insistette Marco.

La Ghidini ricordava che Olimpia aveva dovuto spendere buona parte del suo denaro per acquistare il negozio in viale Vespucci. Aveva capito che sarebbe stata quella strada parallela al lungomare il cuore elegante della zona turistica.

Il negozio era grande e disponeva di due vetrine. A quell’epoca era occupato da una boutique, e Olimpia aveva rinnovato agli esercenti il contratto di affitto: non era ancora pronta per il suo commercio.

«Rimpiangeva di non avere appreso la professione dal padre» continuò Ada. «Ma dopo poco tempo che era qui riuscì a farsi assumere come commessa in una gioielleria del centro e lì imparò il mestiere.»

«Si dava da fare» commentò Cotunno.

«Non stava ferma un momento, diceva che era vicina ai trenta e doveva pensare a sistemarsi. Seguirono tre anni frenetici: Olimpia si divideva tra il negozio e la scuola serale e assorbiva come una spugna le nozioni che le sarebbero state utili. Mi raccontava che stava imparando a riconoscere i vari stili dei gioielli, a valutare la perfezione della manifattura e a controllare il valore delle pietre usando gli strumenti idonei. Ogni tanto si lamentava con me che il proprietario, un uomo anziano, le faceva la corte anche davanti a sua moglie. Ma lei lo respingeva e teneva duro perché le faceva comodo imparare tutto. Rimase in quel negozio finché non prese il diploma, poi aprì la sua gioielleria e fece fortuna, perché a quel tempo d’estate venivano i nuovi ricchi pieni di denaro e di amanti.»

Che donna incredibile! si trovò a pensare Marco. Peccato che tutto quello che le andava raccontando la Ghidini servisse a completare l’immagine di Olimpia ma non a comprovare i suoi crimini. «E nella vita privata, come si comportava?» volle sapere.

La Ghidini sorrise. «Come dicevo, commissario» continuò, «abbiamo la stessa età. La guerra ci aveva portato via una fetta di gioventù e avevamo tutti voglia di rifarci. Allora si andava spesso a ballare, specie d’estate, si organizzavano cene e gite. Io avevo una bella compagnia di gente per bene. Olimpia veniva con noi e si divertiva, ma non dava confidenza a nessuno, e sì che di corteggiatori ne aveva a bizzeffe. Forse ha avuto qualche storia, ma su questo argomento era molto riservata perfino con me, che ero la sua migliore amica…»

«Però alla fine si è sposata…»

«Sì, e ha scelto bene, il conte… Non ricordo il nome.»

«Aldrovandi» la aiutò Marco.

«Già, Aldrovandi. Un uomo interessante e ricco sfondato. Se l’è portata a Milano a fare la contessa, e lei ha venduto tutto e l’ha seguito. Si era innamorata e forse il matrimonio era quello che cercava.»

«Ne ha più saputo nulla?»

«Ci siamo scritte per qualche anno, poi basta, sa come succede. A quei tempi io, che mi ero sposata nel ’50, avevo due figlie da crescere. Ma dalle lettere mi pareva che fosse felice, e anche orgogliosa di svolgere un lavoro da dirigente nell’azienda del marito. Si era molto affezionata alla figliastra.»

Marco sospirò: la Ghidini era una donna acuta e simpatica, ma non ne aveva ricavato molto. «Lei sa, signora, se a Rimini c’è ancora qualche persona che l’ha conosciuta bene?» le chiese con poca speranza.

«Ma certo» rispose la donna. «Il proprietario del negozio dove faceva la commessa è morto, ma c’è ancora Pietro Longiani, che ha rilevato da lei la gioielleria e prima l’aveva frequentata per anni perché era il suo orafo.»

«Come posso incontrarlo?» chiese Marco, di nuovo ottimista.

«Lo conosco: ora gli telefono e le prendo un appuntamento. Lo vedrà a casa sua, perché in questa stagione la gioielleria è chiusa.»

Ada Ghidini si allontanò per telefonare e ritornò con la notizia che quel giorno Longiani era a Bologna per affari e sarebbe rincasato tardi. Il giorno dopo, invece, a detta di sua moglie, avrebbero potuto incontrarlo a qualunque ora.

Pisani e Cotunno presero commiato dalla donna disponendosi a cercare un albergo per la notte. Il giorno dopo, incontrando Longiani, avrebbero capito qualcosa di più dello strano commercio di gioielli di Olimpia.

Dopo la cena, Marco suggerì una passeggiata in viale Vespucci alla ricerca della gioielleria che, pur chiusa com’era, si rivelò subito molto elegante.

Passarono la sera al cinema e la mattina dopo suonarono alla porta di Pietro Longiani, che abitava in un condominio sul lungomare.

«Ricevere la Polizia in una mattina d’inverno è proprio una cosa insolita» osservò l’uomo con curiosità facendoli accomodare.

Era un signore sulla cinquantina, distinto e rotondetto, con un paio di baffetti brizzolati e mani delicate, quasi femminili.

Mentre la moglie serviva il caffè spiegò: «Ieri ero a Bologna per fare acquisti per la prossima stagione. Tengo il negozio chiuso da gennaio a marzo e ne approfitto per organizzare il resto dell’anno. Sono i mesi in cui sto a contemplare il mare deserto e, quando mi stanco, con mia moglie facciamo lunghi viaggi. Ma non voglio farvi perdere tempo. Cosa porta da me un commissario di Milano?».

«Una storia lontana nel tempo» ammise Marco. «Stiamo indagando su Olimpia Cavenaghi che, se non sbaglio, le ha venduto il negozio.»

Longiani rimase stupito. «La signora Olimpia? Le è capitata una disgrazia?»

«No, no, sta bene» lo rassicurò Pisani. «Ma dobbiamo sapere alcune cose…»

«Sulla signora Olimpia? Non può aver fatto nulla di male. Con me e mio nonno è stata sempre così generosa…»

«Racconti come l’ha conosciuta» lo invitò Marco sorridendo.

Longiani raccontò di essere nato e cresciuto a Bologna. Nel primo dopoguerra, quando era ancora un ragazzo (era nato nel 1930), aveva lasciato la scuola per aiutare il nonno che era un orafo abilissimo e per imparare il mestiere.

Era stata la Cavenaghi a scoprirli nel loro laboratorio in via Nosadella. Aveva cominciato con l’ordinare un bracciale ed era rimasta molto soddisfatta del risultato. Non c’era da meravigliarsi, perché il nonno, anche se non faceva pubblicità, lavorava per i migliori negozi di Bologna e aveva mestiere e fantasia.

Era il 1948: se lo ricordava perché in quel periodo lui compiva i diciotto anni, che è un’età che non si dimentica. La Cavenaghi aveva raccontato di avere appena aperto una gioielleria a Rimini e di avere bisogno di un orafo provetto che le smontasse vecchi gioielli rifacendoli secondo la moda.

Il nonno si era dichiarato disponibile, ma le aveva chiesto come mai andasse a cercare un orafo fino a Bologna. La signora Cavenaghi aveva risposto che gli artigiani di Rimini non la accontentavano. «E qui cominciò una strana avventura…»

«Cioè?» chiesero a una voce Pisani e Cotunno.

«Ecco, col nonno ne abbiamo parlato tante volte senza capirci nulla. I gioielli da smontare, che la signora Olimpia ci ha portato per vari anni, erano delle meraviglie degli anni Venti e Trenta, che avrebbero spuntato prezzi altissimi sul mercato antiquario. Eppure lei voleva che ne ricavassimo le pietre per fare altre cose, belle, sì, ma senza il fascino dei gioielli antichi; e l’oro veniva fuso per essere recuperato.»

Marco sentì il cuore battergli all’impazzata: i gioielli della Serra! Finalmente!

«Col nonno facevamo diverse ipotesi. Pensavamo che la signora si fosse procurata i gioielli durante la guerra con la borsa nera, oppure che fosse venuta in possesso chissà in che modo dell’oro degli ebrei che volevano fuggire. Ma sembrava così per bene… E del resto non erano affari nostri» concluse Longiani.

«Lei ricorda qualcuno di questi gioielli antichi?» chiese Pisani. «Non ha fatto per caso qualche fotografia?»

«Ho qualcosa di meglio.» Longiani sorrise, misterioso.

Si avvicinò a una parete del soggiorno e staccò un quadro rivelando una cassaforte a muro.

«Quando il negozio è chiuso» spiegò, «per sicurezza tengo alcuni gioielli in casa.» E si mise ad armeggiare sul disco della combinazione fino ad aprire il pesante sportello.

Marco e Cotunno trattennero il fiato mentre il gioielliere estraeva dalla cassaforte un astuccio di velluto blu e tenendolo chiuso in mano tornava a sedersi di fronte a loro.

«Questo gioiello era un capolavoro» esordì. «Il nonno non ebbe il coraggio di disfarsene. Non poteva comperarlo così com’era. Allora, senza dire nulla alla signora Olimpia, staccò le pietre preziose, le sostituì con pietre sintetiche e restituì alla signora le pietre vere e un lingottino d’oro del peso giusto, fingendo di avere fuso il gioiello. Tutto servì poi come al solito per creare altre gioie che furono vendute. Io non potrò mai rimettere al loro posto diamanti e smeraldi veri, ma la manifattura è talmente squisita che guardare questa collana è come prendere ogni volta una lezione di alta oreficeria.»

«Lo apra» mormorò Marco indicando l’astuccio.

Con uno scatto Longiani fece sollevare il coperchio e, adagiata sul raso candido, apparve la più bella collana che i poliziotti avessero mai visto.

Quattro fili di grossi diamanti a baguette erano intrecciati ad altrettanti fili di smeraldi, che ricadevano sul davanti con un cascata irregolare di gemme. Era la collana del maharajah.

Marco aprì in silenzio la sua cartella, ne estrasse il fascicolo del caso Serra, trovò rapidamente le foto e le mise a confronto: non c’erano dubbi. C’erano voluti quarant’anni, ma un gioiello di Anita Serra era finalmente ricomparso.

La bella contessa Aldrovandi era stata inchiodata.

«Che significa?» chiese Longiani, che non aveva la minima idea di ciò che quella collana rappresentasse per il commissario. Appariva un po’ spaventato.

«Stia tranquillo» lo rassicurò Pisani. «Lei non c’entra nulla. La Questura di Milano, nell’ambito di un’inchiesta aperta su un crimine di cui non posso parlare, stava cercando una collezione di gioielli, rubati prima della guerra, di cui questa collana faceva parte.»

«Vuol dire che la signora Olimpia era una ladra?»

«Può darsi» confermò Pisani, «ma la prego di non farne parola con nessuno, nemmeno con sua moglie, prima che l’inchiesta sia conclusa. Ma come si può provare che questo gioiello apparteneva proprio a quella collezione?»

«È facilissimo» spiegò Longiani un po’ rassicurato. «La collana ha il contrassegno di Van Cleef & Arpels e ha anche un numero di riconoscimento. La casa produttrice conserva senz’altro nei suoi archivi il nome del primo acquirente.»

Il maharajah, pensò Marco, o il suo ministro del Tesoro. Non c’erano dubbi. «Lei non ha commesso alcun reato» continuò, «ma sono costretto a sequestrarle la collana per qualche tempo, fino al processo, dove sarà sentito come testimone contro Olimpia Cavenaghi.»

«Quanto mi dispiace» esclamò Longiani. «Con noi è sempre stata così generosa! Pensi che quando si è sposata ha venduto la gioielleria a me (il nonno era ormai anziano), a un prezzo di favore e con una lunga rateazione… È per questo che da Bologna mi sono trasferito a vivere qui.»

Pisani stilò rapidamente la ricevuta della collana e con Cotunno si accomiatò da Longiani che appariva molto abbattuto.

Era tempo di tornare a Milano.

La riunione ebbe luogo nell’ufficio del vicequestore Calisti la mattina di lunedì 9 marzo. Oltre al capo della Mobile Luigi Gagliani era presente anche il maresciallo Improta. Finalmente Marco aveva materiale decisivo da sottoporre ai superiori.

Il procuratore Carminati era ancora all’oscuro dello sviluppo delle indagini e Calisti aveva deciso di metterlo al corrente dell’intera vicenda solo quando fosse stata chiarita in tutti i suoi aspetti.

«Questa volta ci siamo» esordì Marco prendendo posto davanti alla scrivania del superiore.

Gagliani sorrise ricordando la delusione del giovane commissario quando la scoperta della strage di Desenzano era stata ritenuta insufficiente per incriminare l’Aldrovandi. «Come ha fatto in così poco tempo?» gli chiese.

«Io lo conosco bene» si intromise Calisti. «Pisani è uno che non molla, e se è convinto di essere nel giusto niente riesce a fermarlo.»

«Veramente dopo cinque mesi di indagini a vuoto in questi ultimi giorni ho avuto fortuna» osservò Marco.

«Non può dire di avere indagato a vuoto. Era un’indagine complicatissima. Per quanto ne so io, c’era una vita intera da ricostruire.»

«Sì, e più con la mia squadra ci addentravamo nelle vicende dell’Aldrovandi, più incontravamo episodi sospetti.»

«Ma ora raccontaci tutto» lo esortò Calisti.

Marco cominciò dal delitto Serra, compiuto da Olimpia, all’epoca Cavenaghi, all’età di vent’anni.

«Naturalmente non sappiamo come si siano svolti i fatti, ma è certo che i gioielli della Serra sono finiti in mano sua. L’Aldrovandi li ha fatti smontare e trasformare quando aveva una gioielleria a Rimini. Però ho con me la famosa collana del maharajah, che si è salvata perché il suo orafo non ha avuto il coraggio di fonderla e l’ha tenuta per sé, senza dirlo all’Aldrovandi, dopo averle restituito le pietre. La casa produttrice ha confermato che si tratta proprio del gioiello originale. Per noi è stato un inaspettato colpo di fortuna. Sappiamo che la Serra è stata uccisa mentre cercava di telefonare, si può pensare che avesse scoperto la ragazza mentre rubava. Infatti la cassaforte è stata svuotata di denaro e gioielli, e Olimpia è arrivata a Roma con denaro in abbondanza.»

«E qui ci siamo» osservò Gagliani. «La collana è una prova inconfutabile.»

«Quindi Olimpia è andata a Roma ed è entrata nel mondo del cinema» continuò Marco. «È stato allora che può aver avuto contatti con Pina Accorsi, che all’epoca faceva l’aiutante in una sartoria che lavorava per i film della Cineparenti, la casa di produzione di Olimpia Cavenaghi, che aveva preso il nome d’arte di Myra Leoni.»

«Chi ti ha parlato di questi possibili contatti?» si incuriosì Calisti.

Marco raccontò come aveva ricostruito la vita romana di Myra Leoni e come la sorella di Pina Accorsi, vedendo il registro di un film, in cui erano annotati tutti i nomi delle maestranze, aveva riconosciuto quello della sartoria per la quale lavorava la vittima.

Proseguì rievocando l’ascesa cinematografica di Myra Leoni e come la donna fosse stata l’amante di Gualtiero Morlacchi, sottosegretario alla Cultura Popolare del regime fascista. Nel ’44, infatti, le sue tracce comparivano a Desenzano, nel territorio della Repubblica di Salò.

Non si era invece riusciti a sapere cosa le fosse successo dal momento della strage fino a quando era riapparsa a Rimini dotata del suo vecchio nome Cavenaghi, dell’immagine di ragazza di buona famiglia che la guerra aveva lasciato sola al mondo e di una notevole quantità di dollari americani che si era procurata chissà come.

Marco era propenso a credere che gli ultimi mesi di guerra Olimpia avesse vissuto nascosta da qualche parte a Milano, tenendo con sé i gioielli della Serra.

Aggiunse quindi che a Rimini si era ricostruita una vita e un’ottima reputazione, oltre a un solido benessere, finché non aveva conosciuto Riccardo Aldrovandi ed era divenuta una contessa rispettata e riverita a Milano.

«Resta il mistero del delitto Accorsi» osservò Gagliani. «A questo punto possiamo essere sicuri che è stata lei, ma non si riesce a immaginare il movente.»

«Magari sarà lei stessa a dircelo» osservò Improta, che era rimasto silenzioso fino a quel momento.

«Difficile» pensò a voce alta Calisti. «E senza la sua confessione non possiamo procedere.»

«È quello che temo anch’io» considerò Pisani, che questa volta, senza farsi trascinare dall’entusiasmo, aveva considerato tutti i risvolti del codice penale di cui l’Aldrovandi poteva giovarsi.

«Per la strage di Desenzano abbiamo già capito che ricorrendo all’amnistia Togliatti e confondendo un po’ le acque un buon avvocato la scagionerebbe…»

«Vero» intervenne Gagliani. «Diversa è la questione del delitto Serra. Qui ci troviamo di fronte, se ho ben capito, a uno di quelli che il codice chiama “delitti dolosi aggravati”, per di più compiuto per motivi “abietti” come il furto. Questi delitti non vanno mai in prescrizione.»

«Purtroppo» completò Calisti, «è passato un mucchio di tempo, l’unica testimone della morte della Serra è stata proprio l’Androvandi, che può raccontare quello che vuole. Forse abbiamo materiale sufficiente per arrestarla e istruire il processo (la collana è una prova schiacciante), ma al momento utile un buon avvocato potrebbe insinuare nella mente dei giudici la tesi che l’assassina avesse agito in stato d’ira (era stata scoperta mentre rubava), che fosse in una situazione particolare, che temesse di essere rovinata se la Serra l’avesse denunciata e via scovando attenuanti. Se la caverebbe.»

«Rimane il fatto che ha rubato una fortuna» obiettò Marco. «Se questa non è un’aggravante…»

«E allora come si procede?» proruppe Improta, che aveva seguito con attenzione la discussione dei superiori.

«Ci aiuta il nuovo codice di procedura penale» rispose Calisti.

Pisani ragionò che quella poteva essere la strada. In base al vecchio codice, in vigore fino a due anni prima, la Polizia avrebbe dovuto rimettere tutta l’indagine nelle mani della magistratura, cioè di Carminati, che avrebbe convocato l’indagata per interrogarla alla presenza del suo avvocato. Ne sarebbe venuta fuori una tale confusione da non raccapezzarsi più. Ora invece, dato che si trattava di reati gravi, con la scusa dell’urgenza di proseguire le indagini avrebbero potuto convocare la contessa come persona informata dei fatti e interrogarla in maniera informale senza la presenza dell’avvocato. Il magistrato sarebbe stato eventualmente aggiornato in seguito.

«Non ti aspetterai che confessi» osservò tuttavia Marco, ancora cauto.

«Non chiedo tanto» replicò il superiore. «Però si può sperare che, presa alla sprovvista, ammetta qualcosa, ci dia qualche informazione in più, insomma si tradisca sul delitto Accorsi. Toccherà a te, Marco, e dovrai essere particolarmente abile, dovrai sconvolgerla saltando da un’accusa all’altra, citando persone che ha voluto dimenticare, frammenti del passato che si è lasciata alle spalle. Devi sconcertarla, traumatizzarla, farla sentire in trappola.»

«E tutto questo quando?» chiese Marco.

«Il più presto possibile. Non lasciamole tregua.»