CAPITOLO 15

I FANTASMI RITORNANO

Febbraio/marzo 1981

Le notti non finivano mai. Olimpia non riusciva a riposare per più di un paio d’ore. Si rigirava nel letto, spesso preda di dolori lancinanti, e pensava, pensava.

Ormai si sentiva braccata: quel giovane commissario aveva capito troppe cose, si faceva sempre più incalzante, ne sentiva il fiato sul collo. Cosa sapeva di preciso? Dove era andato a frugare? Possibile che fosse riuscito ad avvicinare qualcuno che si ricordava di lei a distanza di tanto tempo?

Pisani affermava di avere visto per caso, nello studio del professore suo amico, le fotografie scattate al Cinevillaggio di Venezia e in cui lei era ritratta con Gualtiero, ma si trattava senza dubbio di un’invenzione. Olimpia era troppo intelligente per non intuire che il commissario aveva trovato le foto grazie a un’accurata indagine.

Ma questa indagine dove lo aveva portato? Quanto vicino era andato alla verità? Aveva parlato con il comandante Aquila?

Ed era vero che un testimone l’aveva vista mentre entrava nell’edificio della Accorsi la sera del delitto? Lei non ricordava di aver incontrato qualcuno, ma la memoria, dato il frangente, poteva giocarle brutti scherzi. Era stata molto attenta nell’uscire, ma quando era entrata pensava ad altro. Come poteva immaginare ciò che sarebbe successo?

Se ci fosse stato ancora Riccardo avrebbe saputo proteggerla. Ma le ripugnava confidarsi con un avvocato e raccontargli il proprio passato.

La notte era anche il momento dei ricordi e della nostalgia di suo marito, che l’aveva lasciata troppo presto. Con lui era stata felice.

Il giorno in cui lo aveva conosciuto restava impresso vivissimo nella sua memoria.

Nell’estate del ’58 si trovava in un momento sereno della sua vita. In dieci anni, grazie alla gioielleria e alle gemme della Serra, si era costruita un invidiabile benessere. Ed era una fortuna solida, che non aveva la precarietà e non esigeva i compromessi del mondo del cinema.

Ormai si era gettata il passato alle spalle, alla sua famiglia non pensava mai. Non sapeva neppure se i suoi fossero vivi o morti. Anita Serra era una vaga immagine ormai scolorita e quando le veniva in mente Gualtiero ne ricacciava il ricordo o si consolava immaginando che nel mondo del dopoguerra lui, con i suoi ideali, sarebbe stato infelice. Men che meno voleva rievocare l’avventura di Desenzano, tutti quei morti di sua mano, tutto quel sangue.

Il pensiero però rimaneva, ed era inquietante.

Un pomeriggio dei primi di luglio era sola in negozio e stava leggendo un libro.

Suonò il campanello e allo scatto della serratura entrò un uomo di mezza età alto e distinto, con un viso irregolare ma piacevole, appena brizzolato. Indossava una camicia di lino di ottima fattura e un paio di calzoncini da cui uscivano gambe lunghe e abbronzate.

Ormai Olimpia sapeva giudicare i clienti con un’occhiata, e quello poteva essere un ottimo acquirente. Gli si fece incontro con uno dei suoi sorrisi irresistibili. «Posso esserle utile?» chiese mentre lo valutava meglio: non era certo una persona qualunque.

«Sto cercando un girocollo d’oro per mia figlia; ha solo otto anni e vorrei qualcosa di giovane» specificò l’uomo.

Lei gli dispiegò davanti vari modelli. L’uomo sembrava indeciso, ogni tanto la guardava con intensità, domandava consiglio.

«Potrebbe indossare questa per farmi vedere l’effetto sulla pelle?» chiese infine indicando uno dei modelli più costosi.

«Molto volentieri» sorrise Olimpia, «anche se io ho qualcosa di più di otto anni.»

«Ma è talmente bella!» si sentì rispondere. «Mi deve scusare: non mi sono nemmeno presentato. Mi chiamo Riccardo Aldrovandi.»

«E io Olimpia Cavenaghi» replicò lei allacciando la collana.

«Cavenaghi… un cognome lombardo…»

«Sì, sono di Milano.»

«E cosa ci fa una milanese a Rimini?» domandò Riccardo incuriosito.

«Sa, i casi della vita. A Milano non ho più nessuno… Sono sola al mondo…»

«Mi scusi ancora una volta» disse l’uomo. «Non volevo essere indiscreto.»

E quasi confuso compilò l’assegno per il gioiello, girellò per il negozio mentre Olimpia confezionava il pacchetto e infine salutò pensieroso andandosene.

Persona deliziosa, ragionò Olimpia, peccato che sia sposato. Lo dimostravano l’esistenza della figlia e la fede all’anulare.

Il giorno seguente, alla stessa ora, a suonare fu un fattorino che recava un enorme mazzo di rose. Sul biglietto Olimpia lesse: Può un uomo solo invitare a cena una donna sola questa sera alle otto al Granchio d’Oro?

Olimpia capì subito da dove veniva l’invito e ammirò la delicatezza con cui Riccardo le aveva fatto sapere di non avere moglie, forse era vedovo.

Si sentiva attratta, felice di avere stabilito un rapporto con quell’uomo interessante. Chissà chi era; dai modi e dall’aspetto doveva essere una persona importante. Capì e apprezzò che l’appuntamento, fissato davanti al locale, la lasciasse libera di andare o meno.

La sera Aldrovandi la aspettava al ristorante, tra i più eleganti della costa. La corteggiò con stile per tutta la sera, quasi timidamente le accennò che sua moglie era morta l’anno prima lasciandolo con la figlioletta Claudia e confessò che da allora era vissuto in solitudine. Le confidò che invece il giorno prima, al solo vederla, si era sentito di nuovo vivo e perfino giovane, anche se, ammise, aveva già superato i cinquant’anni.

Olimpia per la prima volta sentì il bisogno di raccontare a quell’uomo appena conosciuto almeno la parte presentabile della sua vita. Confessò di essere di famiglia modesta, di aver studiato alle scuole serali, di aver fatto da sola la sua fortuna, di non essersi mai sposata.

Riccardo la fissò a lungo, con uno sguardo che lei non avrebbe più dimenticato, in cui si leggevano ammirazione e desiderio.

Cominciò così la loro storia d’amore. Per Olimpia non era la passione che l’aveva unita a Gualtiero i primi tempi, ma con che nome definire la gioia che le riempiva il cuore quando era con Riccardo e il desiderio di farlo felice?

In quella prima estate lui la portò spesso sulla barca che teneva ormeggiata a Marina di Ravenna, la conduceva a cena a San Leo e sulla collina di Gabicce, insieme andavano alla scoperta delle chiese di Ravenna e dei mosaici, passavano le sere nei night eleganti.

Fu proprio sulla barca che fecero l’amore la prima volta. Erano al largo, sdraiati in coperta mentre il sole stava tramontando, quando Riccardo prese ad accarezzarla, a percorrere il suo corpo con mani trepide. Olimpia sospirò, gli offrì la bocca. Si trovarono abbracciati, pieni di desiderio. Lui la seppe condurre con lentezza al culmine del piacere, e lei si liberò con un lungo grido.

«Povera piccola» esclamò lui mentre erano ancora ansanti, «era tanto tempo che non facevi l’amore!»

«Anni» ammise Olimpia. «Forse aspettavo te.»

«Vorresti farlo con me tutta la vita?» E allo sguardo meravigliato di Olimpia aggiunse: «Vuoi diventare mia moglie?».

Olimpia aveva quarant’anni ed era la prima proposta di matrimonio che riceveva.

Riccardo la attraeva, si sarebbe occupato di lei, non l’avrebbe mai delusa, era solido ed equilibrato, sapeva ciò che voleva e aveva grande sensibilità. Non avrebbe più dovuto combattere da sola, sarebbe stata finalmente protetta. Accettò.

Solo in un secondo tempo scoprì che Riccardo Aldrovandi apparteneva a una nobile e ricca famiglia e che non era solo il fondatore e proprietario della Rilman, una delle aziende più note nel campo degli elettrodomestici.

Le nozze ebbero luogo in forma discreta nella cappella della villa di famiglia in Brianza. E dopo un lungo viaggio in America che la lasciò eccitata perché non era mai uscita dall’Italia, Olimpia si stabilì nel grande appartamento di corso Venezia.

L’inizio della nuova vita non fu facile. C’era la piccola Claudia, innanzitutto, rimasta senza mamma. Olimpia sapeva che non avrebbe potuto sostituirla, ma si propose di essere per lei come una sorella maggiore, di colmare in parte la sua grande perdita. Claudia del resto era una bimba affettuosa, a cui non era difficile volere bene.

C’era poi la scommessa di farsi accettare dall’alta società per amore di Riccardo, e qui Olimpia ce la mise tutta. In pochi anni riuscì a diventare una delle donne più raffinate di Milano, nonostante all’inizio, non avrebbe mai potuto dimenticarlo, parenti e amici fossero rimasti a bocca aperta davanti a quella sconosciuta senza pedigree che il conte aveva scelto come seconda moglie.

Dotata com’era di una naturale, discreta eleganza, imparò a ricevere, si fece portare nei musei, lesse i libri giusti, si sacrificò a frequentare vecchie e noiose nobildonne, che dovettero ammettere che la nuova moglie del conte Aldrovandi era una persona piacevole.

Ma soprattutto trovò un forte motivo di interesse nell’azienda di famiglia e volle essere per suo marito una buona collaboratrice. Riccardo la fece entrare in società alla Rilman e le affidò il settore Design per il quale lei rivelò presto di avere un ottimo fiuto.

In quegli anni felici Olimpia pensava sempre meno al suo passato.

Una volta per strada aveva riconosciuto da lontano sua sorella, ma le era mancato il coraggio di farsi avanti. Di Tonino Novelli, il suo amico di gioventù, sapeva dai giornali che era diventato un boss della mala milanese, l’inafferrabile capo della banda del Gratosoglio, la Primula Rossa, come lo avevano soprannominato i giornalisti.

In quelle dolorose notti di ricordi, quando non riusciva più a stare a letto, Olimpia si trasferiva in poltrona, ma anche lì il sonno non la soccorreva, e nelle ore che precedevano l’alba l’immagine del commissario le appariva come quella di un angelo vendicatore. Allora accendeva una sigaretta (che male poteva farle ormai il fumo?) e rievocava il momento in cui l’incanto si era spezzato.

Claudia a vent’anni era una bella ragazza, bionda come la madre, con gli stessi lineamenti raffinati di lei e il naso aristocratico di Riccardo. Frequentava la facoltà di Giurisprudenza.

Nell’estate del 1970, durante una gita in montagna, conobbe Giorgio Franchi, un avvocato nativo di Iseo che esercitava a Milano. Nonostante la differenza di età (Giorgio aveva trentacinque anni), pochi mesi dopo erano fidanzati e a Natale annunciarono, davanti alle famiglie riunite a tavola in casa Aldrovandi, che si sarebbero sposati a fine maggio.

Per il viaggio di nozze i due giovani volevano passare un paio di settimane nella grande baita che la famiglia Franchi possedeva a Morterone, in Valsassina, sotto il Resegone. Era una zona solitaria e impervia di rara bellezza, con panorami stupendi; in maggio sarebbe stata un giardino fiorito.

Cominciò la marcia forzata dei preparativi nuziali, nei quali Olimpia si immerse con entusiasmo, trascurando perfino il lavoro. Prima ci fu la festa di fidanzamento nella villa in Brianza, quindi insieme a Claudia la contessa visitò diversi appartamenti del centro finché ne trovarono uno grande e luminoso in corso Italia che Riccardo si affrettò ad acquistare per la figlia.

Olimpia mise al lavoro i negozi più eleganti per gli abiti e il corredo personale della sposa. Riccardo voleva che non si badasse a spese. Tutto marzo fu dedicato all’organizzazione della cerimonia e del ricevimento, che avrebbe avuto luogo in un grande albergo milanese.

Fu la sera del 4 aprile che finì la serenità.

Compilando la lista degli invitati insieme alla fidanzata e ai futuri suoceri, Giorgio annunciò: «Oggi ho avuto una grande gioia: ho telefonato a Roma al mio padrino, che ha acconsentito a farmi da testimone».

«Bene. Di chi si tratta?» chiese Riccardo distrattamente, osservando il giovane da sopra gli occhiali che metteva per leggere.

Olimpia stava entrando in sala in quel momento reggendo il vassoio del caffè. Provò un senso inesplicabile di pericolo imminente.

«Si chiama Guido Alfieri, è un commerciante all’ingrosso di calzature che sta a Roma. È il più grande amico di papà, mi ha visto nascere e mi è molto affezionato. Io lo chiamo zio, anche se non siamo parenti.»

«Bella cosa queste amicizie che durano una vita» commentò Riccardo.

Olimpia aveva appoggiato il vassoio su un tavolo e si accingeva a versare il caffè.

«La loro amicizia» continuò il giovane, «risale agli anni della guerra. Erano insieme sui monti del Bresciano, entrambi partigiani delle Fiamme Verdi. Guido, che è più giovane di papà, ha compiuto prodigi di valore, è stato anche decorato. Era conosciuto come il comandante Aquila.»

La mano di Olimpia ondeggiò e il caffè si rovesciò sul tavolo. «Oh che sbadata!» riuscì a mormorare correndo via per non far notare il suo turbamento.

Il comandante Aquila! pensava mentre armeggiava alla ricerca di uno strofinaccio, ma sarà proprio lui? E ora come faccio?

Tornò in sala sforzandosi di apparire calma. «Che strani questi soprannomi di battaglia» esclamò per sondare il terreno. «Non si faceva confusione se due partigiani sceglievano lo stesso nome?»

«Non poteva capitare» spiegò Giorgio. «Erano piccole formazioni, di cinquanta persone al massimo, e si conoscevano tutti. Ogni gruppo operava in una determinata zona. Quello di Alfieri e di papà a Gardone e nei paesi intorno infiltrava spie in casa di fascisti e nazisti, per conoscere in anticipo le spedizioni punitive e mettere in salvo la gente. Ma facevano anche sabotaggi alle forniture tedesche.»

Era proprio lui! Olimpia appena poté accusò un forte mal di testa e si ritirò a dormire nella stanza degli ospiti con la scusa di non disturbare Riccardo.

La assalì un turbine di pensieri. Aquila testimone dello sposo! Si sarebbero incontrati, sarebbero stati vicini per ore, avrebbero dovuto conversare. Non poteva sperare di non essere riconosciuta.

Le parole di Aquila erano ancora stampate nella sua mente: “Se a Linda capita qualcosa troverò il modo di rovinarti, qualunque cosa tu sarai diventata, anche fra trent’anni. E te ne farò pentire”. E Linda era morta.

L’avrebbe rovinata, ne era sicura. Avrebbe raccontato a tutti, forse addirittura in pieno ricevimento, chi era lei, come fosse stata l’amante di un gerarca e perché avesse denunciato Linda causando la sua morte, e come poi avesse ucciso sette persone con una sventagliata di mitra.

No, al ricevimento Aquila forse avrebbe taciuto, ma poi avrebbe parlato con Riccardo, con Giorgio, con suo padre. E tutto ciò per cui da anni aveva lottato sarebbe svanito nel nulla. Finito il suo matrimonio, finita la sua posizione sociale, il lavoro, l’agiatezza, la tranquillità conquistata così a fatica.

Si affacciò alla finestra: era ormai notte e corso Venezia era attraversato solo da rare automobili. In casa tutti dormivano.

Si avvolse nella vestaglia e andò sulla terrazza a fumare. La notte di aprile era tiepida, il profumo della primavera nell’aria le ridiede coraggio. Mai lascerò tutto questo, pensò. Doveva esserci un rimedio.

E poi… Ma sì, era semplicissimo: si sarebbe finta preda di un grave malore e non avrebbe partecipato alla cerimonia. Avrebbe potuto prendere qualche farmaco che le causasse un febbrone. Si sarebbe salvata.

Non ce ne fu bisogno: la sera del 28 aprile la macchina di Giorgio Franchi, che stava recandosi alla baita per portare i rifornimenti in vista del viaggio di nozze, si sfracellò in un burrone sui tornanti di una strada secondaria della Valsassina, sopra Ballabio.

La notizia, che aveva raggiunto gli Aldrovandi durante la notte, lasciò la povera Claudia in uno stato di prostrazione dal quale non si riprese più. Decise di partire per Torino e si stabilì nella casa della sua vecchia balia.

Non si sposò mai più. Non tornò mai più a Milano.