CAPITOLO 5

VITA DI RINGHIERA

Domenica, 27 febbraio 1938

Avvolta in un elegante cappotto nero, la bella chioma castana sciolta sulle spalle, Olimpia scese di corsa le scale e si fermò nel quarto cortile del complesso di viale Col di Lana ad aspettare sua sorella Liliana che stava ancora srotolando i bigodini di carta con cui si era arricciata i capelli.

Erano le tre del pomeriggio di domenica 27 febbraio 1938, una giornata speciale per Milano, la Giornata della Neve.

L’Opera Nazionale Dopolavoro aveva organizzato numerosi treni popolari che la mattina avevano portato centinaia di operai e impiegati in gita in varie località turistiche. Sarebbero tornati in città in tempo per assistere a una colossale sfilata dei carri allegorici che, dal Castello al Duomo, aprivano tra lanci di coriandoli e stelle filanti il tardivo carnevale ambrosiano.

Olimpia non amava le gite dopolavoristiche a prezzo politico, troppo dozzinali per i suoi gusti, e aveva deciso con sua sorella e una compagna di lavoro, Lucia Poli, di visitare la fiera di Porta Genova e andare verso sera a vedere i carri. Si sapeva dai giornali che avrebbero avuto come tema l’autarchia, argomento di moda dopo il bando che la Società delle Nazioni aveva posto all’Italia fascista, rea di avere aggredito l’Etiopia, unico stato libero dell’Africa.

La ragazza aveva dato appuntamento a Lucia davanti al portone perché si vergognava della propria casa, dove suo padre dormicchiava avvolto in una coperta accanto alla stufa, su cui arrostivano bucce di mandarini, la tavola era coperta da una malandata incerata e circondata da sedie spagliate.

Non c’era nemmeno la radio perché i Cavenaghi non potevano permettersela, e lei e sua sorella dormivano in un bugigattolo talmente angusto che il cassettone dove tenevano i loro abiti era infilato per metà nel vano di un vecchio caminetto in disuso.

Fino a nove anni prima le cose andavano meglio. Poi suo padre, operaio alla Breda, aveva cominciato ad ammalarsi di frequente: era debole di petto e facile alle bronchiti ed era finito tra i licenziati quando le industrie avevano stabilito di limitare il numero dei dipendenti.

Non aveva fatto nulla per evitare il disastro, eppure, come gli predicava la moglie, sarebbe bastato che prendesse la tessera del Fascio e si facesse raccomandare da qualche dirigente rionale. Ma lui, caparbio, aveva insistito a non volersi immischiare con la politica ed era rimasto senza lavoro.

Non era nemmeno un sovversivo, pensava Olimpia, solo un poveraccio che aveva paura anche della sua ombra. Ora l’unico suo contributo all’economia della famiglia consisteva in qualche riparazione di pentole, giocattoli, soprammobili dei vicini in cambio di pochi centesimi.

E lei aveva dovuto smettere di studiare per imparare un mestiere, prima quello di sarta, poi, seguendo i sogni di sua madre che la vedeva proprietaria di negozio, quello di modista in un elegante atelier del centro. Sua sorella, meno dotata di lei, lavorava come operaia in una fabbrica di scatole e sua madre faceva la domestica.

Come per molti altri, il loro era un futuro senza speranze.

«A che pensi, Olimpia? Sei così seria…» la apostrofò una voce dall’alto.

Olimpia alzò la testa e sorrise a Evandro Lulli, che era uscito sulla ringhiera del secondo piano a fumare una sigaretta. Era un giovane esile, dai lineamenti delicati, avvolto in un vecchio cappotto sporco di colore che indossava quando dipingeva.

«Beato te, Evandro» rispose, «che un giorno sarai un artista celebre e milionario!»

«E tu una diva famosa» scherzò il pittore. «Mi vanterò di averti ritratta. Oggi sei bellissima; da dove viene quel cappotto?»

«È un regalo di quella cliente della modisteria, Anita Serra, lei sì che è una diva. Figurati che me lo ha regalato perché lei non lo mette più…»

«Di sicuro ti sta meglio che a lei» osservò Evandro. «Ecco che arriva tua sorella.»

Liliana era graziosa secondo il metro popolare ma ben lontana dall’eleganza naturale della sorella. Salutò il pittore, prese Olimpia sottobraccio e le due ragazze si avviarono verso il portone che dava su viale Col di Lana.

Nei cortili c’era poco movimento: gli studenti vicini di ringhiera dei Cavenaghi erano andati in gita con i treni della Neve, i depositi del robivecchi del terzo cortile, enormi stanzoni a volta che probabilmente erano stati un ospizio della Milano dei Visconti prima di essere inglobati nell’edificio ottocentesco, erano sbarrati. Chiusi anche il laboratorio di guanti, la latteria e l’officina di biciclette del secondo cortile, dove abitavano i Novelli.

«Dov’è andato oggi Tonino?» chiese Liliana. «Come mai non è qui a farti il cascamorto intorno?»

«Si vede che ha capito che non ha speranze» la troncò Olimpia. «Solo perché è un bel ragazzo, chissà cosa si crede. Oh, guarda guarda, è uno spettacolo» sogghignò facendo fermare la sorella e indicando la ringhiera del primo piano.

Da un portoncino stava uscendo una famiglia: il padre in testa, un ometto magro come un chiodo avvolto in uno striminzito cappotto militare, seguito da sette figli tra maschi e femmine in ordine di altezza. Chiudeva la fila l’orgogliosa fattrice, un donnone due volte il marito con un enorme, materno seno sul quale il cappotto non riusciva ad abbottonarsi.

«Ecco i Cantoni al completo» continuò Olimpia. «Orgogliosi dei premi del partito per le famiglie numerose. Bel destino, quello della mucca da riproduzione. Eppure guarda come sono fieri di loro stessi.»

«Sei sempre così acida» osservò Liliana. «Piuttosto fermati: le sorelle Bandini stanno uscendo, e so che tra te e l’Antonietta non corre buon sangue.»

Due ragazze ben vestite stavano infatti percorrendo il portico del primo cortile avviandosi all’uscita; avevano un’aria sbarazzina. Da un appartamento del primo piano una radio a tutto volume trasmetteva musica sincopata.

«L’Antonietta non mi può vedere da quando le ho soffiato il giovane Gambini» rise Olimpia.

«Ma perché lo fai?» la rimproverò Liliana. «Visto che di quel ragazzo non ti importa niente.»

«Perché l’Antonietta Bandini è figlia di un professore di liceo e si dà un sacco di arie, ecco perché.»

Sospirando Liliana guidò la sorella al portone, dove le attendeva l’amica Lucia.

La fiera di Porta Genova era già discretamente affollata. Le tre ragazze si aggirarono tra i banchi di torroni e canditi, i calderoni in cui le frittelle di carnevale cuocevano tra nuvole di grasso, i branchi di mocciosi con nasi finti o maschere di cartone, armati di bastoni di zucchero filato, che si dirigevano alle giostre soffiando nelle trombette colorate.

Urla scomposte arrivavano dal padiglione delle montagne russe, dove le ragazze fingevano di sentirsi male dallo spavento per farsi stringere dai loro innamorati.

C’erano famiglie intere che procedevano compatte, gruppetti di soldati in libera uscita, qualche giovane che ostentava la divisa fascista ai banchi del tiro a segno, servette ansiose di godersi quelle poche ore di libertà. Le bancarelle di vestiti usati presentavano il meglio dei loro tesori: abiti adorni di lustrini che erano appartenuti a chissà quale attrice di avanspettacolo, scialli tzigani, mantelle ricamate, costumi di carnevale provenienti da qualche magazzino teatrale.

Liliana e Lucia si erano fermate davanti a un banco di scarpe quando Olimpia adocchiò tra gli oggetti di un rigattiere uno specchio antico con la cornice dorata. Ci si rimirò un poco, pensando che la luce azzurrina del cristallo la faceva sembrare più bella, le dava un’aria magica. Chiese il prezzo: cinquanta lire, uno sproposito, l’equivalente di due settimane di lavoro. Ma perché doveva sempre rinunciare?

«Lei quanti soldi ha, signorina?» sentì che le chiedeva il venditore, un vecchietto con l’aria di un nonno.

«Posso spendere solo le mance» rispose Olimpia. «Ho venti lire.»

«E venti lire siano» ribatté il vecchietto. «Se lo prenda e lo porti via; lei è talmente bella che ha tutto il diritto di specchiarsi.»

Olimpia, felice, lo ringraziò con il più luminoso dei suoi sorrisi e strinse al petto il suo acquisto. «Ci vediamo qui tra un’ora» gridò alle compagne. «Devo portare questo specchio a casa.»

E corse via col tesoro, sicura che sarebbe stato il suo portafortuna.

Alle sette di sera il terzetto si era ricomposto dietro le transenne di piazza Duomo, dove sfilavano i carri allegorici della Giornata della Neve.

La folla era, con un’espressione cara al duce, oceanica, e nel corridoio in mezzo alla piazza, tenuto libero a fatica dai soldati, la parata si aprì con la sfilata dei vigili motociclisti in sella ai loro cavalli di acciaio. Seguivano i pompieri in uniforme che reggevano il gonfalone di Sant’Ambrogio e i rappresentanti dei gruppi dopolavoristi, un lungo serpente di labari ondeggianti.

Le tre ragazze guardavano con interesse quella bella gioventù, fra battimani e lanci di coriandoli.

A un tratto Olimpia avvertì un violento strattone ai capelli e si voltò infuriata. Si trovò davanti la faccia contrita di un ragazzo grassoccio che si profuse in scuse.

«Mi perdoni, signorina, sono stato urtato anch’io; le ho fatto male?»

Era così visibilmente avvilito che lei sorrise. «Ma no, non è stato nulla.»

«La colpa è del fascismo» scherzò il giovane. «È tutto talmente entusiasmante che si perde la testa. Guardi, ecco i carri dei combattenti e dei reduci di Spagna e d’Africa! Loro sì che possono dire di avere dei meriti. Io invece finora ho solo studiato.»

«Lei è uno studente?» chiese Olimpia con una punta di interesse.

«Sì, di Architettura; mio padre ha un’impresa di costruzioni. Insieme a lui oggi ho passato la giornata in gita a Bellagio, dove c’era anche il ministro Starace, per il quale mio padre sta preparando dei progetti. Ma anche se mi sono stancato, questa sfilata non volevo perderla. A proposito, mi chiamo Sandro Piccardi.»

«E io Olimpia Cavenaghi.»

Passavano intanto i carri inneggianti all’autarchia, adornati di enormi fasci di cartapesta, e Sandro continuò: «Guardi come il duce ha fatto di noi un grande popolo! Non abbiamo bisogno di importare nulla dalle demoplutocrazie occidentali: siamo completamente autonomi».

Olimpia lo stava a sentire nascondendo il proprio disaccordo. Come fascista era piuttosto tiepida e come donna detestava il cuoio rigenerato, il lanital con cui si facevano vestiti dalla consistenza della carta, il raion e il caffè d’orzo.

Il cappotto di Sandro invece aveva tutta l’aria di essere di ottima stoffa inglese, ma anche il suo, del resto, a pensarci bene, la faceva sembrare una ragazza di buona famiglia.

Dagli ultimi carri, dell’Elettricità, dell’Agricoltura, dell’Industria, del Commercio, cadeva una pioggia di fiori. Sandro afferrò al volo un mazzolino di violette e lo porse con un buffo inchino a Olimpia. «Per farmi perdonare, posso invitarla a bere qualcosa in Galleria?»

Olimpia decise di stare al gioco. «Se non mi fa arrivare tardi a casa…»

E salutò le compagne avviandosi al fianco del giovane.

Si accorse che era di una spanna più basso di lei e assai sovrappeso, ma era la prima volta che veniva corteggiata da un ragazzo ricco.

Sandro la pilotò al Gambrinus, all’angolo con piazza della Scala, un locale elegante dove suonava una famosa orchestra di dame viennesi.

Al solo entrare Olimpia si sentì stordita, intimidita dagli stucchi e dalle dorature alle pareti, dal profumo di dolci raffinati, dal sommesso chiacchiericcio, dalle toilette eleganti, perfino dal passo felpato dei camerieri in giacca bianca.

Nel locale bene illuminato Sandro si accorse subito che quella bella ragazza non era della sua classe sociale e si incuriosì. «Tu che lavoro fai?» le chiese in tono confidenziale appena furono seduti.

Olimpia raccontò del laboratorio, della clientela altolocata e dei suoi progetti di aprire un negozio.

«Ma tu ce l’hai il fidanzato?» si informò Sandro sorridendo.

«Nemmeno per idea. Mica voglio fare la fine di tante ragazze ancora giovani costrette a fare sacrifici appena sposate» si lasciò sfuggire. Si rese subito conto di avere rivelato anche troppo delle sue condizioni. «Ma oramai si è fatto tardi» proseguì. «È meglio che vada a casa.»

Senza protestare, Sandro la guidò per i vicoli dietro la Scala fino a una fiammante Balilla nera, sulla quale la fece accomodare.

«Ma è tutta tua?» esclamò Olimpia, che non era mai salita su un’auto nuova. Aveva fatto qualche giretto con Tonino Novelli quando era riuscito a farsi prestare da qualcuno un ferrovecchio da riparare.

«Certo, è un regalo di papà per il mio ventunesimo compleanno» spiegò Sandro. Poi mise in moto con disinvoltura e si diresse verso il Ticinese evitando le strade più affollate.

Giunti in viale Col di Lana, da vero gentiluomo scese dall’auto, aprì la portiera a Olimpia e le chiese con una punta di timidezza se poteva andare ad attenderla il giorno dopo all’uscita dall’atelier.

«Se ti fa piacere…» rispose lei rimanendo sul vago, e si salutarono, entrambi soddisfatti della serata.

Sua sorella dormiva già quando Olimpia entrò in camera, si tolse il cappotto e, nella luce incerta che penetrava dalla finestrella, si rimirò nello specchio appena comperato che aveva appoggiato sul cassettone. Pensò che le aveva davvero portato fortuna.

Quel che intravide la lasciò soddisfatta: la massa dei capelli incorniciava un viso dai lineamenti classici illuminato da due enormi occhi verdi, la figura era flessuosa, le spalle diritte. E Olimpia andava fiera delle sue lunghissime gambe, così insolite tra le ragazze italiane e più simili a quelle delle acclamate dive americane.

Sorrise pensando che era pur nata povera, ma non avrebbe fatto sfigurare un marito dell’alta società. Poi si fece seria considerando che Sandro era proprio bruttino e scosse la testa ricordando che stava cadendo nell’errore tipico delle ragazze: costruirsi la vita aggrappate a un marito.

No, no, lei non sapeva ancora né come né dove, ma voleva andare via, diventare qualcuno da sola. Sogni… si contraddisse subito. Cosa poteva fare da sola una ragazza bella e sveglia, ma terribilmente povera e senza conoscenze? Sospirò.

«Come è andata la serata?» Dal buio la raggiunse la voce di Liliana. «Hai trovato un ammiratore? Te ne ho visto intorno di più belli.»

«Sì, ma questo è vergognosamente ricco» le chiuse la bocca Olimpia. E si sistemò per la notte.

Cominciava la settimana di carnevale: il lunedì mattina Olimpia uscì di casa di buon’ora per andare al lavoro, dopo avere indossato sotto il cappotto il suo abito migliore ed essersi infilata in tasca il suo prezioso unico bastoncino di rossetto. Aveva perfino messo le calze di seta, scartate da Anita Serra perché sfilate, che lei aveva provveduto con pazienza a rimagliare con l’uncinetto.

Il caseggiato era già animato. Dietro le tende delle sorelle Ribolla, intente a rovinarsi gli occhi sui meravigliosi ricami che costituivano il corredo delle ragazze ricche e che a loro bastavano appena per mangiare, la luce era già accesa. Lo straccivendolo stava uscendo dal magazzino col suo carretto per andare al mercato, e nel cortile erano aperte la rivendita di carbone e l’officina di riparazione delle bici.

Olimpia affrettò il passo per non incontrare Tonino.

Gli inquilini del primo cortile invece dormivano ancora. Chiuse le finestre della Chicca, che stava in un elegante appartamentino e diceva di essere benestante di suo, mentre ogni tanto suonava alla sua porta un anziano signore distintissimo, che si tratteneva qualche ora. Un destino che Olimpia non le invidiava. Ancora buie le finestre dei Bandini, che avevano la scuola vicino e potevano alzarsi all’ultimo momento. Spenta la luce in casa di Fernanda Zanchetti. Da lei Olimpia aveva imparato a cucire da bambinetta appena uscita dalla scuola, e con lei era rimasta in buoni rapporti. Forse la sera prima Fernanda era uscita col fidanzato.

Di buon passo raggiunse via Larga, evitando gli spazzini che raccoglievano i coriandoli impolverati della grande festa cittadina del giorno prima. Le sarebbe piaciuto, specie quando faceva freddo, andare al lavoro in tram, ma la sua paga non le permetteva di spendere nemmeno quei pochi centesimi.

A La parigina le colleghe, una ventina, stavano prendendo posto in laboratorio intorno al tavolone dove davanti a ciascuna ragazza una forma cilindrica teneva ritto il cappello in lavorazione.

C’era il meglio della moda parigina, dato che la direttrice, Giovanna Turini, non si lasciava sfuggire una sfilata, andava spesso in Francia e acquistava le riviste più esclusive.

Alcune lavoravano a capricciosi feltri da passeggio da inclinare su un occhio, altre a calottine fiorite o a campane di petali di velluto in colori sfumati nei toni del viola o del rosa. Ma c’era già in fabbricazione qualche paglietta decorata di nastri colorati o di piume destinata alla primavera, e spiccava sul tavolo un enorme cappello di organza color malva che una lavorante esperta andava adornando di fiori di seta.

Una radio, concessione della proprietaria, trasmetteva in sottofondo canzoni d’amore.

Le ragazze erano irrequiete, tutte si preparavano alle feste di carnevale. Lucia, che sedeva vicino a Olimpia, senza smettere di modellare il feltro a cui lavorava le chiese sottovoce: «Davvero ieri sera quel ragazzo ti ha portato a un caffè in Galleria?».

«Sì, da Gambrinus» rispose Olimpia riluttante.

«Chissà quanto ha speso! Ma che lavoro fa?»

«Non lavora, è uno studente. Ma tu a che festa vai questa settimana?» chiese per cambiare discorso.

A Lucia brillarono gli occhi. «Per venerdì Lillo mi ha invitato al Miralago, la pagoda del laghetto Malaspina: ci saranno gente in maschera, spumante, cotillon. Mia madre non mi lascia andare sola, perché non mi accompagni?»

«Se sarò libera, vedremo…» rispose Olimpia.

Arrivavano dalla radio le note di Violino tzigano. La bella voce di Carla, intenta a cucire un nastro intorno a un cappello di feltro, si levò ad accompagnare quella del cantante: «Se un segreto dolor fa tremar la tua mano, questo tango d’amor fa tremare il mio cuor, o violino tzigano».

«Cantaci Sposi» si misero a reclamare in coro le ragazze.

Spenta la radio, Carla intonò: «Sposi, oggi si avvera il sogno, siamo sposi». Poi fu la volta dell’ultimo successo: «Se potessi avere mille lire al mese, senza esagerare sarei certo di trovare tutta la felicità! Un modesto impiego, io non ho pretese, voglio lavorare per poter alfin trovare tutta la tranquillità».

Le ragazze lavoravano alacremente, commosse dalle parole della canzone che esprimevano tutti i loro sogni: una casettina, in periferia, una mogliettina giovane e carina, tale e quale come te.

Poveri sogni, pensava Olimpia cucendo i fiori sul cappello di paglia che aveva davanti; ma lei, in definitiva, aveva prospettive migliori? Si avvicinava ai vent’anni senza avere ancora fatto nulla per cambiare la sua sorte.

«Adesso basta, ragazze!» La voce della direttrice interruppe i suoi pensieri. «Vi si sente di sotto in negozio, dove ci sono le clienti.»

Vanna, una bella bionda che sedeva vicino a Olimpia ed era figlia di un impiegato, ci tenne a farle sapere sottovoce che sua madre le stava cucendo un bellissimo abito di raion blu, proprio simile a raso di seta, per la festa di sabato grasso in casa dei genitori del suo fidanzato, che avevano un negozio di alimentari e offrivano la cena ai loro ospiti.

«Di’ a tua madre di non fartelo troppo stretto, il vestito, perché corri il rischio che si spacchi in due se balli uno swing» commentò acidamente Olimpia.

«Parli sempre per invidia» commentò l’altra. «Ma chi ti credi di essere?»

E fino alla chiusura tra le due scese un freddo silenzio.

La sera, all’uscita dal laboratorio, toccò alla bella Vanna un sussulto di invidia, quando scorse Olimpia dirigersi a passo sicuro verso una Balilla nera parcheggiata a poca distanza, il cui proprietario le apriva cavallerescamente la portiera.

Sandro questa volta condusse la sua compagna al Camparino, per l’aperitivo. Olimpia si guardava intorno con curiosità, si trovava di nuovo in mezzo alla bella gente.

I signori eleganti dovevano essere avvocati, medici, banchieri, c’era qualcuno in divisa da ufficiale, le signore portavano modelli di sartoria, sfarzose pellicce di visone, cappotti con colli di volpe. Si rallegrò per avere indossato anche lei calze di seta: con quelle di cotone che portava abitualmente avrebbe fatto la figura dell’orfanella.

Un gruppetto di giovanotti si fermò a salutare Sandro, e Olimpia si sentì scrutata e valutata.

«Non ci presenti questa bella signorina, Piccardi?» chiese il più ardito della compagnia.

«Si chiama Olimpia Cavenaghi» informò sbrigativamente Sandro, poco contento dell’attenzione.

«Dove studia, signorina?» insistette l’altro, che si era fatto qualche progetto in mente.

«Adesso basta, ragazzi» li liquidò Sandro togliendo Olimpia dall’imbarazzo. «Ci avete interrotti mentre stavamo conversando. Ci vediamo i prossimi giorni all’Università.»

«Che egoista» commentarono gli altri andandosene tra le risate. «Hai trovato una fata e la vuoi tenere tutta per te.»

Olimpia considerò che era nata nell’ambiente sbagliato; solo fra la gente di alto livello si trovava gratificata e compresa.

Osservò Sandro che stava accennando davanti a lei un buffo inchino. «Signorina fata, vuoi essere mia ospite venerdì sera al veglione dei giornalisti al teatro Odeon

Il veglione dei giornalisti! Era il culmine del carnevale milanese; tutti i quotidiani ne parlavano ogni anno per giorni ed era un appuntamento obbligato per la gioventù più scanzonata e facoltosa della città. Per lei era un sogno.

«Verrei molto volentieri» rispose abbassando gli occhi. «Ma non so cosa mettermi.»

«Ma tesoro» ribatté Sandro, «tu puoi anche avvolgerti in un lenzuolo e sarai sempre la più bella. Inventati una maschera con un vestito vecchio, metti qualcosa di tua madre!»

Sua madre! pensava Olimpia. Aveva solo qualche straccetto per andare a lavorare, e i suoi vestiti vecchi erano quelli da bambina: chi si poteva permettere di cambiare il guardaroba a seconda della moda? Comunque ci avrebbe pensato, rinunciare non voleva.

Si diedero appuntamento per il venerdì, all’ora di inizio del veglione, davanti al teatro. Olimpia non voleva dare pubblicità alla cosa facendosi vedere vestita da sera nei paraggi di casa sua. Finirono la bibita e Sandro la accompagnò in viale Col di Lana.

Scendendo dall’auto, Olimpia scorse Tonino che usciva dal portone in bicicletta e fece finta di non vederlo.

Sotto il portico del primo cortile incontrò la Gilda che andava a lavorare. Era una matura prostituta che abitava nel quinto cortile, in un localino a pianterreno che aveva un’uscita anche sui prati, dietro il deposito dell’Azienda Tranviaria. Nessuno l’aveva mai vista portarsi uomini a casa, e in effetti lei esercitava sui viali della circonvallazione, ma quell’uscita nascosta le permetteva ogni tanto di fare entrare i clienti di maggiore riguardo. Per il resto non dava fastidio a nessuno, anzi godeva di una certa simpatia da parte dei suoi vicini. Quella sera era avvolta in scialli multicolori, il trucco eccessivo le appesantiva i lineamenti.

Salutò la ragazza mettendola in guardia. «Hai trovato un innamorato ricco, con la macchina? Stai attenta, perché sono i peggiori!»

«Se lo dici tu» ribatté Olimpia, ma si trovò a pensare che era strano che Sandro non avesse nemmeno tentato di baciarla. O era di una timidezza patologica o aveva in testa un piano. Lei comunque non correva rischi, perché uscire con Sandro, che la portava nei locali eleganti, la lusingava, ma non avrebbe mai perso la testa per quel ragazzo goffo e poco attraente.

Prima di raggiungere casa sua salì un attimo da Fernanda Zanchetti nella speranza che la potesse aiutare a risolvere il problema dell’abito.

Fernanda non possedeva nulla di adatto a una festa così elegante. Per quel che ne sapeva lei, a quel veglione ci si doveva presentare in abito da sera lungo o in maschera, ma con costumi di pregio; e c’era da pensare anche alle scarpe e alla borsa. Mancavano solo tre giorni alla festa e Olimpia, che di giorno doveva andare a lavorare, non avrebbe avuto nemmeno il tempo per cucirsi un vestito da sola.

La ragazza raggiunse mortificata casa sua e consumò in silenzio la cena a base di polenta e baccalà, infastidita da quei poveri cibi.

Il suo specchio, dove aveva preso l’abitudine di contemplarsi, le rimandò un’immagine avvilita, ben lontana da quella delle ragazze sicure di sé e trionfanti che in quei giorni aveva incrociato nei locali in cui Sandro la conduceva.

Il giorno dopo era il primo marzo e la temperatura era incredibilmente salita. Alitava su Milano uno strano vento di scirocco che toglieva il fiato, e anziché preannunciare la primavera ricordava l’afa estiva. A mezzogiorno i termometri segnavano venti gradi.

All’uscita dal lavoro Olimpia si affrettò alla vicina Rinascente per curiosare. Le piaceva il grande magazzino, con la balaustra del primo piano sorretta da esili colonnine e tutta la merce elegante esposta, da toccare.

Non si illudeva di poter comperare un abito confezionato, e infatti erano tutti di prezzo irraggiungibile. Il suo umore peggiorò ancora.

La sera per svagarsi accettò di accompagnare la sorella alla festa del Dopolavoro rionale di via Arena. Quando entrò nella sala da ballo le coppie erano già scatenate in pista al suono di un’orchestrina. In quel posto per essere eleganti bastavano una gonna e una camicetta, un fiore nei capelli e una cinturetta di strass.

Si sedette in un angolo, visibilmente imbronciata, poco desiderosa di mescolarsi alla folla di operai sudati e imbrillantinati.

«Cosa c’è che non va, principessa?» si sentì apostrofare. «Non è arrivato il tuo principe azzurro?»

Prima che potesse protestare, Olimpia trovò seduto al suo fianco quel rompiscatole di Giovanni Cambiaso, che esibiva una fiammante camicia nera.

«Quando ti deciderai a far l’amore con me?» continuò l’uomo afferrandola per un braccio.

«Neanche in punto di morte, brutto porco» esclamò lei divincolandosi. «E se non la smetti vado a dirlo a tua moglie!»

«Cosa le vai a dire?» la rimbeccò Cambiaso. «Che una puttanella mi sta dietro perché vuole diventare l’amante di un dirigente del partito?»

Olimpia scoppiò a ridere. «Dirigente tu? Non mi risulta che oltre a importunare il nostro fabbricato tu abbia altre cariche al gruppo rionale.»

Mentre parlava vide che l’uomo veniva letteralmente sollevato dalla sedia da due forti braccia. Era il suo amico Antonio Novelli, detto Tonino, che scaraventò di lato Cambiaso, lo addossò alla parete e lo minacciò: «Non sognarti più di dar fastidio alla signorina, o ti lascio tanti lividi da farti confondere con un abissino!».

«Bada a come parli!» replicò l’altro, spaventato dalla forza del ragazzo. «E ricordati che con una parola posso rovinarti, te e i loschi traffici della tua famiglia!»

«Accomodati pure» replicò Tonino con arroganza. «Ma tieni presente che siamo in tre fratelli…» Quindi prese il suo posto vicino a Olimpia. «Ti ho vista ieri sera» attaccò. «Chi è quella palla di lardo con la Balilla?»

Olimpia lo guardò: Tonino era proprio un bel ragazzo, con la mascella volitiva, gli occhi d’acciaio, il fisico da sportivo. Peccato che fosse un poveraccio come lei. «È solo un amico» rispose. «E a te non devo render conto, perché non sei il mio fidanzato.»

«Però quest’estate ci venivi con me in bicicletta al lago Malaspina, e non ti tiravi indietro quando ti baciavo» osservò Tonino.

«Ma non abbiamo mai fatto l’amore, e non ti ho mai promesso niente.»

«Però puoi promettere di venire con me venerdì al veglione del Malaspina.»

«E invece non posso, perché sono già impegnata.»

«Con la palla di lardo? Cosa vuole da te quel bellimbusto?»

«La cosa non ti riguarda e, se lo vuoi sapere, mi porta al veglione dei giornalisti!»

Tonino la guardò amareggiato. «Ma lo sai che quel veglione costa cento lire a testa? Aspettati che dopo ti chieda la tua parte!»

E se ne andò furibondo.

Il mercoledì Olimpia non aveva ancora risolto il problema del vestito e cominciava a rassegnarsi a comperare qualcosa di usato alla fiera di Porta Genova, quando la Turini le annunciò che nel pomeriggio avrebbe dovuto consegnare un cappello alla signora Serra.

Le si aprì il cuore al pensiero che un vestito in prestito avrebbe potuto chiederlo a lei, che era sempre così buona e più di una volta le aveva regalato i capi smessi.

Quando a metà pomeriggio uscì dal laboratorio con la scatola c’era ancora un’afa insopportabile, e tutta la città era imbandierata a lutto per la morte di D’Annunzio.

Anche se andava sempre volentieri dalla Serra, Olimpia avvertì nel cuore un triste presagio: quelle bandiere nere che tappezzavano la città in pieno carnevale le sembrarono di cattivo auspicio.

La villa della Serra in via Vivaio era protetta da una solida cancellata e circondata da un bel giardino. Olimpia percorse il vialetto, salì i gradini della capricciosa costruzione liberty e fu introdotta da una domestica nel salottino della signora.

Anita Serra, quando era in casa, passava sempre a salutarla e a ringraziarla con una lauta mancia. Anche quel giorno fece il suo ingresso pomposo nella stanza dove Olimpia aveva estratto il cappello dalla scatola.

Era alta, bionda naturale, con forme piene che da più di vent’anni facevano impazzire le platee e in luoghi riservati costituivano la delizia segreta di qualche fortunato aristocratico, industriale, grande proprietario.

«Come sta la piccola Olimpia?» la salutò mettendole in mano una banconota.

«Sono sempre felice di vederla, signora» sorrise Olimpia con sincerità. «E a dire il vero» continuò, «mi spiace se la disturbo ma ho un favore da chiederle.»

«Che cosa sarà mai, che non resisti neanche un minuto dalla voglia di parlarne? Hai finalmente deciso di piantarla con l’artigianato e vuoi entrare in una compagnia di avanspettacolo? Vuoi andare a lezione di canto? Dimmi.»

«No, signora, molto meno: sono stata invitata al veglione dei giornalisti e non ho nulla da mettermi…» confessò Olimpia mortificata.

«E hai pensato di chiedermi un abito in prestito» concluse la Serra. «Avrei preferito aiutarti in qualcosa di più importante, ma quel che mi chiedi non è un problema. Seguimi.»

La Serra uscì dal salottino, infilò la scala elicoidale dal corrimano decorato da tralci di fiori in bronzo e fece strada a Olimpia al secondo piano, nella stanza guardaroba.

Tutte le pareti del vasto locale erano rivestite di armadi laccati. Tra due finestre, un grande specchio, e in un angolo una poltrona accanto a un tavolino.

La cantante aprì due ante che celavano una quarantina di abiti da sera ordinatamente appesi alle grucce. C’erano tuniche di chiffon di colori pallidi con bordi di cigno, larghe gonne di raso ricamato, modelli in pizzo sensualmente scollati. E sotto ogni abito, Olimpia rimase a bocca aperta, un paio di scarpe accordate. Dal guardaroba emanava un delicato profumo francese.

«Vediamo un po’» esordì la Serra, che si divertiva. «Sei alta come me ma più magra. E sei giovanissima, con una carnagione perfetta. Ti vedo bene in nero.» E staccò dalla gruccia una lunga tunica sbieca di raso di quel colore, con mezze maniche e scollatura profonda.

Olimpia lo indossò; era un incanto. «Che meraviglia, signora!» balbettò commossa. «Glielo restituirò intatto! Come posso ringraziarla?»

«Divertendoti, mia cara. Me lo puoi rendere sabato sera. Mi trovi sola perché tutti i miei amici portano al veglione la famiglia, e ho dato la serata libera ai domestici, che vanno in Brianza dai parenti. Quindi se vieni mi fai compagnia. Ma non ho ancora finito…»

Olimpia fu invitata a indossare i sandali, che per fortuna erano giusti di misura, quindi la signora le allacciò una collana di strass e le mise in mano una borsetta di raso nero.

«Ricordati di acconciarti i capelli raccolti sulla nuca e di sottolineare gli occhi con la matita verde. Il rossetto deve essere chiaro.» Poi, vedendo che Olimpia si rabbuiava, andò nel bagno attiguo e tornò con i cosmetici. «Anche questi me li rendi sabato» concluse.

A quel punto si trattenne qualche minuto ad ammirare la sua opera, fumando una sigaretta con un lungo bocchino d’avorio.

«Sei bellissima» considerò, «e sei anche intelligente. Oggi la strada giusta per le ragazze come te è il cinema. Se avessi qualche anno di meno, io sceglierei di andare a Roma. Lo sai che da qualche mese hanno aperto nuovi enormi stabilimenti di posa? Cinecittà, si chiamano.»

Aspirò dalla sigaretta e si contemplò nel grande specchio, vicino alla ragazza più giovane.

«Trent’anni fa si faceva carriera con l’Operetta, e io ho imparato a cantare e a ballare meglio di tutte le altre. Poi sono passata al Varietà perché per fortuna ho la presenza giusta, ma adesso è il momento del cinema.»

«Ma lei è bellissima, signora, può fare cinema quando vuole» osservò Olimpia.

«No, mia cara, è un modo di stare in scena diverso dal mio, e poi io ho già fatto fortuna» sorrise la Serra. «Ma tu, piuttosto, con chi ci vai a quel veglione, che è molto costoso?» si incuriosì.

«Ho conosciuto uno studente, uno ricco» ammise Olimpia un po’ riluttante.

«È anche bello?» si informò la signora.

«Oh no! Anzi, è basso e grassoccio.»

«Meno male, così non corri il rischio di innamorarti. Perché vedi» spiegò la Serra, «se ti innamori di un giovane povero puoi sempre trovare la forza per staccarti, ma con uno ricco rischi di imboccare la strada della mantenuta, e allora sei rovinata, perché se prendi abitudine alla vita comoda non riesci più a fare sacrifici per diventare qualcuno.»

Che strano! pensò Olimpia: la Serra era la terza persona, dopo una prostituta e un giovane ladruncolo, a metterla in guardia da Sandro Piccardi.