CAPITOLO 4
SUL FILO DEI RICORDI
Lunedì, 20 ottobre 1980
Quando arrivò in ufficio, il lunedì seguente, Marco trovò Giorgio Mantovani ad attenderlo nella sala degli agenti, con i quali stava prendendo il caffè.
Sentì che chiedeva: «Ma davvero quando ci sarà la smilitarizzazione della Polizia vi verranno pagati anche gli straordinari?».
Pisani sorrise: l’indagine doveva avere avuto buon esito se già il giovane si vedeva nelle vesti di poliziotto.
«Allora, Giorgio» lo interpellò sedendosi in mezzo agli altri, «che notizie mi porti?»
«È stata un’esperienza incredibile» esordì il ragazzo. «Non avrei mai pensato che il vostro mestiere fosse così interessante.»
«Dopo vent’anni ti entusiasmeresti meno» borbottò Improta. Marco gli lanciò un’occhiataccia.
«Non ci credo» ribatté Mantovani. «Avvicinare le persone, parlare con loro, fa capire tante cose, allarga la mente.»
«Hai ragione» lo incoraggiò il commissario. «Racconta.»
Giorgio raccontò che il venerdì di buon’ora si era presentato nel complesso di viale Col di Lana. Era rimasto colpito dalla sua vastità e dall’aria di decadenza insolita anche per una casa di ringhiera.
Si trattava di un insieme di costruzioni fatiscenti che si snodavano attorno a cinque cortili successivi. Nel secondo si apriva una vasta autorimessa con officina meccanica; per il resto c’erano qualche artigiano e locali abbandonati che dovevano essere state fabbrichette e laboratori.
Gli edifici del primo e del secondo cortile erano di tre piani e rivelavano un certo decoro. Più avanti, nei due cortili seguenti, le costruzioni erano più basse e povere, ancora con i gabinetti in comune ben visibili sulle ringhiere di ogni piano. L’ultimo cortile sembrava l’aia di una casa di campagna, circondato com’era da una costruzione a un solo piano, con depositi di granaglie visibili nel solaio. Era come se il tempo si fosse fermato a un secolo prima, eccetto che per la selva di antenne televisive che spuntavano dai tetti.
«Ho cercato il portinaio, è un uomo corpulento sulla cinquantina» continuò Giorgio, «e gli ho recitato la mia lezione. Dapprima non capiva, poi gli ho spiegato che i romanzieri più bravi si vogliono sempre documentare dal vivo. Lui mi ha chiesto perché questo scrittore Pollini doveva documentarsi proprio lì, e io gli ho risposto che quello era uno dei caseggiati di Milano dove più facilmente si trovava gente anziana che ricordava gli anni prima della guerra. Si è fatto un po’ pregare, ha obiettato che lui era lì solo da dieci anni, poi finalmente ha confessato di sapere che due famiglie potevano fare al caso mio e mi ha tenuto una lezione sulle case di ringhiera.»
«Lasciamo stare» intervenne Balzoni, che scalpitava per arrivare al sodo.
«No, sentiamo» si intromise Pisani. «Stiamo cercando dei perché e tutto ci può aiutare.»
Mantovani spiegò che, a detta del portinaio, un milanese doc innamorato della sua città, quando nell’Ottocento venivano costruiti quei casermoni, che allora si trovavano in periferia, era come se gli architetti volessero mettere in bella vista le classi sociali più abbienti e nascondere dietro i poveri.
Quindi il primo e a volte anche il secondo cortile erano circondati da portici, avevano belle scale che conducevano ad appartamenti grandi, dotati di stanza da bagno. Qui abitavano impiegati, professori, militari, gente con una posizione sicura.
Però, man mano che ci si addentrava nelle corti più interne, gli appartamenti si facevano sempre più piccoli e miseri, col bagno in comune sul ballatoio e magazzini e depositi al pianterreno. Nei quartierini abitavano operai, artigiani poveri, gente dal lavoro precario, anche malviventi.
«Infine mi ha indicato due famiglie che di sicuro abitavano lì da prima della guerra» continuò Giorgio. «Al secondo piano, sul quarto cortile, ci sono due vecchie zitelle che hanno fatto le ricamatrici per tutta la vita, mentre nel palazzo sulla strada una certa Fernanda Zanchetti e il marito hanno comperato il grande appartamento dove la signora abitava da ragazza e ancora lo occupano, con figlia, genero e nipoti.»
Giorgio aveva deciso di sentire per prime le sorelle Ribolla, le ricamatrici, mentre il portinaio avvertiva della sua visita la signora Fernanda.
«Da loro mi sono trattenuto poco» raccontò Mantovani, «ma sono rimasto colpito dalla dignità con cui sopportano la miseria. Vivono in due stanzette dai muri scrostati ma pulite, con mobili che cadono a pezzi accuratamente lucidati. Non c’è bagno né riscaldamento, ma solo una cucina economica, e alla loro età si difendono dal freddo con maglioni e calze pesanti. La più giovane, che si chiama Adalgisa, è molto lucida; la sorella Gianna invece è quasi cieca e pare che stia tutto il giorno seduta alla finestra per cogliere quel po’ di luce che arriva da fuori. Quando sono entrato Adalgisa puliva delle verdure di scarto per il minestrone e la sorella biascicava il rosario. Eppure sono state gentilissime, non avevano nessuna paura di me, anche se ero uno sconosciuto, mi hanno perfino voluto offrire un caffè d’orzo.»
«E ricordavano chi altri abitava lì verso il 1937?» lo interruppe Pisani.
Giorgio confermò che, nonostante fossero passati tanti anni, Adalgisa di qualcuno si ricordava ancora. Per esempio, a quel tempo, quando avevano circa trent’anni, nella soffitta sopra la loro testa aveva casa e studio un giovane pittore, di cui non rammentavano il nome. Però sapevano che aveva fatto fortuna e ora esponeva le sue opere in un negozio d’arte in via Brera. Si mormorava che fosse antifascista, e una volta si era rifugiato in casa loro perché la Milizia lo stava cercando.
Di fianco a loro, ricordava sempre Adalgisa, stava una bambolaia, cioè una pittrice di teste di bambole di maiolica; una brava ragazza, che era morta in mezzo alla strada nel ’43 durante un bombardamento, perché non aveva fatto in tempo a raggiungere un rifugio.
Di fronte, nello stesso cortile, abitava al secondo piano un’altra famiglia, i Cavenaghi, che avevano due figlie. L’anziana donna se ne ricordava perché la più grande, Olimpia, era una vera bellezza, al punto che qualche volta andava a posare per il pittore. Però la famiglia era scomparsa negli anni della guerra e lei non sapeva dove fosse andata a finire.
Pisani si fece serio temendo che lì si esaurissero le notizie che lo interessavano.
Vicino ai Cavenaghi, continuava Giorgio, stavano alcuni studenti e, sotto di loro, al primo piano, un calzolaio, che in qualunque stagione metteva il suo banchetto sulla ringhiera e cantava a squarciagola arie d’opera. Anche lui era morto durante la guerra.
«Sarei stato a sentirle ancora di più» confessò Mantovani, «ma dovevo completare il quadro dei vecchi abitanti e da loro non potevo ricavare altro. Così ho preso appunti, poi ho fatto finta di avere fretta e me ne sono andato. Mi hanno chiesto di tornare a trovarle, perché tutti ormai si sono dimenticati di loro e la gente intorno è tanto cambiata. Ho provato una gran pena.»
Era stata ancora più fruttuosa l’intervista alla signora Fernanda, che abitava in una bella casa ristrutturata di recente, con le finestre sulla strada. Lo aveva ricevuto in salotto, mentre i nipotini guardavano i cartoni animati alla televisione, controllati dal nonno.
«Mi ha detto che nel ’37 aveva circa trent’anni e non si era ancora sposata. Viveva con i genitori, che avevano un negozio di calzature ed erano benestanti; lei però ci teneva a essere indipendente e faceva la sarta. Conosce le due sorelle Ribolla, che vivono con una misera pensione di artigiane, e molte volte avrebbe voluto aiutarle, ma le vecchiette sono orgogliose e accettano a mala pena gli abiti e qualche razione di cibo dalla parrocchia. Poi ha voluto sapere di questo scrittore Pollini, che non ha mai sentito nominare (Fernanda è una donna sveglia, che legge e si tiene aggiornata anche se ha più di settant’anni), e io dopo un momento di panico mi sono inventato che in realtà Pollini è un commissario di Polizia al suo primo romanzo…»
Tutti si misero a ridere e quando si fu ristabilito il silenzio Giorgio consultò gli appunti e continuò a raccontare che Fernanda aveva mantenuto i contatti con una vicina di quegli anni, Dora Gambini, che faceva l’ostetrica e ora abitava in via Meda 14.
Nel suo cortile vivevano allora anche un vigile urbano e i suoi familiari, che si erano trasferiti e di cui aveva perso le tracce, una ex cantante di cabaret, la famiglia di Giovanni Cambiaso, un fascista della prima ora, rompiscatole come pochi e capo fabbricato, cioè spione del Fascio rionale.
C’erano anche i Bandini, lui professore di liceo, lei casalinga, con due figlie giovani; se ne erano andati da circa quindici anni, trasferiti in via Pisacane 18, e non li aveva più visti.
«Poi anche Fernanda Zanchetti mi ha parlato dei Cavenaghi» continuò Giorgio. «Stavano nel quarto cortile. Erano molto poveri e la figlia Olimpia, una gran bella ragazza, lavorava da lei come aiutante da quando aveva terminato le elementari; era brava e intelligente ma perennemente in rivolta contro il mondo, spesso di cattivo umore. Ho chiesto dove fossero finiti, ma lei sapeva solo che Olimpia, a quindici anni, aveva trovato lavoro in una grande modisteria del centro, che ora non c’è più. Si chiamava La parigina ed era in via Larga. Da lì le pare di ricordare che Olimpia se ne sia andata da sola a Roma. Dopo la guerra non ha più saputo nulla. Fernanda mi ha detto un’altra cosa, non so se vi può interessare…»
«Tutto ci interessa» lo incoraggiò Marco.
«Nel ’37, dunque» continuò Giorgio, «pare che nei locali del secondo cortile che oggi ospitano l’autorimessa ci fosse un meccanico e venditore di bici usate, che abitava con la famiglia al piano di sopra. Si mormorava che facesse affari poco puliti, che vendesse biciclette e pezzi di ricambio rubati. Aveva tre figli giovanotti, tali…» E qui Giorgio dovette riguardare il taccuino. «Gianni, Gigi e Antonio, molto amici di Olimpia Cavenaghi. Di Gigi la signora Fernanda non sa nulla; ma sapete chi sono Gianni e Antonio?»
«Difficile, se non ci illumini sul cognome» osservò Cotunno con la sua logica implacabile.
«Già, ha ragione» annuì Giorgio. «Sono i fratelli Novelli, i capi della banda del Gratosoglio, che fino a cinque anni fa, se non mi sbaglio, vi ha dato molto filo da torcere. La signora ha seguito le loro gesta sui giornali.»
Il commissario e i suoi uomini si guardarono in silenzio, non sapendo come collocare la notizia nel quadro delle indagini. Però almeno il domicilio dei fratelli Novelli a San Vittore era fisso e conosciuto.
«Bravo, Giorgio» lo lodò Pisani. «Hai fatto un ottimo lavoro.»
«Ma non ho finito» replicò Mantovani. «Il mio compito era procurarle il maggior numero possibile di indirizzi di persone che abitavano in viale Col di Lana nel ’37. Le sorelle Ribolla e la signora Fernanda le potete trovare quando volete. Ma io sono andato in via Brera, e il pittore credo sia quello che ha la bottega al numero 48. Si chiama Evandro Lulli. Quindi ho fatto un salto in via Meda e ho visto dai nomi sul citofono che la famiglia Gambini abita ancora lì, al numero 14. Più difficile trovare la famiglia del professor Bandini, che non sta più in via Pisacane. Però mentre mi trovavo davanti al portone ho incontrato un signore anziano che ne usciva e gli ho chiesto se conoscesse i Bandini, inventandomi che ero stato allievo del professore.»
«E bravo il nostro Giorgio» lo interruppe Balzoni. «Stai diventando un professionista.»
«Sono stato fortunato, perché il signore mi ha dato il nuovo indirizzo, in via Botta 51. Mi ha detto che lì abita la figlia più grande: il professore è morto qualche anno fa. E con questo ho proprio finito.»
«I soldi per le mance ti sono serviti?» gli chiese il commissario.
Giorgio si fece rosso in viso. «Ecco, a dire il vero no, ma quando ho visto che mi avanzavano li ho messi in una busta e sono tornato dalle sorelle Ribolla. Ho lasciato loro la busta dicendo che era la ricompensa del mio principale per le informazioni. Spero di non aver fatto male.»
Pisani gli scarruffò i capelli con simpatia. «Ma no, Giorgio, hai fatto benissimo. Ora lasciaci il tuo taccuino. Improta ti darà il tuo compenso.»
Mantovani sarebbe stato ancora in sala agenti, ma capì di doversi congedare.
Se ne andò tutto sorridente. «E mi raccomando, quando avete bisogno sono sempre a disposizione.»
Dopo l’uscita di Giorgio in ufficio si era diffuso un certo ottimismo: risultava evidente che l’Aldrovandi aveva fatto di tutto per cancellare il suo passato nel casermone di viale Col di Lana e chissà cos’altro, ma Mantovani, con ammirevole spirito di iniziativa, era riuscito, senza saperlo, a riacchiappare il filo della sua vita; spettava ora ai poliziotti dipanarlo.
Olimpia non aveva tenuto il minimo rapporto con i vicini della sua gioventù, e gli agenti potevano interrogarli per scavare più a fondo nelle sue vicende.
Pisani divise i compiti: Cotunno avrebbe cercato le tracce della modisteria La parigina e di chi ci lavorava ai tempi di Olimpia, quindi sarebbe andato dalla figlia del professor Bandini, che aveva circa l’età dell’Aldrovandi e forse le era stata amica.
Improta avrebbe interrogato Dora Gambini, che forse era molto anziana: meglio mandare il maresciallo, dotato di pazienza e capace di aiutare la gente a ricordare.
Balzoni, con la sua aria da bravo ragazzo, doveva far chiacchierare le Ribolla, mentre a lui sarebbe toccata Fernanda, che aveva conosciuto meglio Olimpia.
Il pittore, che poteva essere in rapporti con qualche membro dell’alta società di Milano, sarebbe stato invitato in Questura per dare ufficialità alla chiacchierata e chiudergli la bocca.
Se il movente dell’omicidio di Pina era nascosto nel passato di Olimpia, di questo passato bisognava sollevare il velo.
Evandro Lulli, convocato per telefono, si presentò di primo pomeriggio nell’ufficio di Pisani. Era un ometto distinto, con baffi e barbetta candidi, vestito di un elegante completo grigio; solo il cravattino rosa a farfalla tradiva una certa eccentricità. Era un poco ansimante e preoccupato.
«Commissario, perché sono stato chiamato? Al telefono non mi hanno voluto spiegare niente. Cosa è successo?»
Chissà perché, considerò Pisani, per qualunque cittadino una chiamata in Questura era sempre sinonimo di disgrazia. Forse, in quei maledetti “anni di piombo” che si stavano vivendo, un impensabile cataclisma poteva travolgere da un momento all’altro anche la vita più ordinata, o forse la gente aveva stampata nel codice genetico una paura atavica delle forze dell’Ordine, retaggio, chissà, delle dominazioni degli spagnoli e degli austriaci, o dei più vicini tempi del fascismo.
«Si accomodi, signor Lulli» lo accolse cordialmente Marco. «Mi dispiace che si sia preoccupato, ma si tratta solo di chiederle qualche informazione su fatti che risalgono agli anni prima della guerra, quando lei abitava in viale Col di Lana.»
Il pittore tirò un visibile sospiro di sollievo e Pisani fu certo che la scossa emotiva gli avrebbe rinfrescato la memoria e fortificato la disposizione a raccontare.
«Premetto» cominciò, «che tutto quanto ci diremo deve rimanere strettamente confidenziale. Riguarda una persona che è necessario che resti all’oscuro delle nostre indagini.»
«Di chi si tratta?» si incuriosì Lulli, che passata la prima paura ora si sentiva protagonista di qualcosa di misterioso e interessante.
«Si tratta di Olimpia Cavenaghi che lei frequentava in quegli anni. Se la ricorda ancora?»
«La piccola Olimpia!» Lulli sorrise nostalgico. «Come dimenticarla? Bella come un angelo e pericolosa come una tigre.»
«In che senso?»
«Era astuta come un felino, non faceva mai niente per niente, pensava solo a come scappare lontano dalla miseria. Le amiche sognavano un fidanzato, il matrimonio… Lei no, lei cercava una via d’uscita. Era povera, e aveva studiato poco, il suo unico capitale era la bellezza. Così sognava di fare del cinema e diventare una diva.»
«Avete avuto una storia?»
«Eh, magari!» sospirò Lulli. «Eravamo buoni amici, questo sì, perché in quell’ambiente forse era solo a me che confidava le sue aspirazioni. Ma non era tipo da amori facili, anzi aveva il terrore di rimanere incinta e di fare la fine di sua madre: a pulire le case altrui perché suo padre, sempre malaticcio, aveva finito per essere licenziato dallo stabilimento dove lavorava, mi pare che fosse la Breda. La vedo come fosse ora: a diciotto, vent’anni aveva un portamento da modella; bastava che indossasse uno straccetto e lo faceva sembrare un capo elegante. Sa che l’ho dipinta molte volte?»
«Lei ha idea di che fine abbia fatto?»
«Sì, o almeno lo so fino a un certo punto. Mi ricordo che nell’inverno fra il ’37 e il ’38, all’epoca in cui era stato creato il Ministero della Cultura Popolare per controllare stampa, cinema, radio, teatro, e io ero ormai un artista sospetto e sempre con i nervi a fior di pelle, anche Olimpia era diventata più irrequieta del solito, sembrava che qualcosa la rodesse. Verso la fine della primavera annunciò che aveva trovato un lavoro da commessa a Roma. Sua madre ci credette, o finse di crederci, povera donna. D’altronde era certa che Olimpia avrebbe sempre saputo difendersi e la lasciò andare. Io credo che abbia tentato la strada del cinema, ma non so altro. Dopo qualche mese che era partita mi arrivò una cartolina, poi più nulla.»
«E in seguito, dopo la guerra, non ha mai avuto notizie, anche indirettamente?» si informò Pisani.
«No, nulla.» Era chiaro che non conosceva la contessa Aldrovandi. «La cosa più probabile è che si sia sposata, magari con un benestante, e sia rimasta a Roma. Sa com’è la vita, commissario: da giovani si sogna di fare grandi cose, ma poi ci si accontenta. Anch’io, in quella soffitta, senza un soldo, sperimentavo nuove forme d’arte, quelle che i fascisti chiamavano “degenerate”, e ho avuto delle noie. Ma poi ho visto che si vendevano meglio i ritratti e i paesaggi e ho deciso di vivere decorosamente abdicando ai miei ideali. So benissimo che quella che espongo nel mio negozio a Brera non è grande arte, ma mi fa vivere bene. E a casa continuo a sperimentare. Ma se lei mi interroga su Olimpia, ciò significa che è immischiata in qualche cosa…»
«Ma non siamo autorizzati a raccontarlo» concluse Pisani congedandolo con un sorriso.
In quel momento aveva intravisto Cotunno che, sulla soglia dell’ufficio, sventolava alcuni fogli con aria vittoriosa.
«La parigina non esiste più» esordì il giovane. «Per fortuna gli archivi della Camera di Commercio conservano i nomi delle maestranze, e ho potuto rintracciare la direttrice del laboratorio, tale Giovanna Turini, che nel ’37 era trentacinquenne. Ho saputo che nel dopoguerra la donna ha aperto un negozio di mode. Non si è mai sposata ma ha fatto una discreta fortuna, come risulta all’Ufficio Imposte, e ora vive in una bella casa di riposo a Bordighera.»
«Dannazione!» si lasciò scappare Marco. «Mi toccherà andare in Riviera a interrogarla! E non è nemmeno la bella stagione…»
Nel frattempo non gli restava altro che fare visita a Fernanda Zanchetti, che aveva conosciuto Olimpia bambina e abitava ancora in viale Col di Lana.
Si prese il gusto di visitare i famosi cinque cortili attorno ai quali si ergevano le vecchie costruzioni; sembrava davvero di essere in un altro mondo, dove il progresso non era entrato. Ma, si trovò a considerare, se era questa la vita serena che si faceva una volta e che alcuni pseudofilosofi rimpiangevano amaramente, forse quello attuale, con tutte le sue violenze e brutture, era fino a quel momento il migliore dei mondi possibili.
Si poteva essere felici abitando stanzette buie e umide, sovraffollate, senza servizi igienici, senza intimità, con la continua minaccia di malattie incurabili come tubercolosi, polmonite, artrite, con un’altissima mortalità di neonati e puerpere e senza alcuna protezione sociale in vecchiaia?
La Zanchetti quel giorno era sola e Pisani si qualificò subito come commissario.
Facendolo accomodare in soggiorno la donna confessò di aver creduto poco alla storia dello scrittore che le aveva propinato Giorgio Mantovani. Ma, interrogata su Olimpia Cavenaghi, non aggiunse molto rispetto a quello che Pisani sapeva già.
La ragazza era sveglia e negli anni che era stata con lei aveva appreso bene il mestiere di sarta. Quando era passata a lavorare in modisteria erano rimaste buone amiche. La sua partenza per Roma le era sembrata quasi una fuga: gli ultimi mesi Olimpia pareva distratta, preoccupata, come non vedesse l’ora di andarsene. A sua madre aveva raccontato di aver trovato un lavoro da commessa, ma con lei si era confidata e aveva ammesso di voler tentare nel cinema.
Indietro non era tornata, ma la Zanchetti non riusciva a immaginare con quali mezzi si fosse mantenuta a Roma, perché Olimpia non era il tipo di ragazza da battere il marciapiede.
Verso sera, quando si ritrovarono tutti, risultò chiaro che la gita in Riviera era l’ultima speranza che spuntasse qualche fatto capace di dare una svolta alle indagini.
Ciò che era emerso fino a quel momento completava il quadro psicologico della contessa Aldrovandi, ma non serviva a rivelare il movente dell’assassinio della sarta Pina Accorsi.
La figlia del professor Bandini, riferì Cotunno, si ricordava di Olimpia come di una giovane altezzosa che non aveva nessun motivo per esserlo. Salutava quando ne aveva voglia, si divertiva a fare dispetti alle ragazze del caseggiato, e una volta che l’aveva vista appartata in un angolo a conversare con il figlio dell’ostetrica, il giovane Gambini, studente di liceo come lei, tanto aveva fatto con sorrisetti, moine, inviti a fare passeggiate, che costui c’era cascato e se ne era innamorato, salvo poi essere liquidato quasi subito e a bocca asciutta.
Quando andavano tutti a ballare al Circolo rionale del Fascio, Olimpia aveva sempre intorno una corte di giovanotti, riusciva perfino a prendere in giro i fascisti più scalmanati senza mai subirne le conseguenze. Il giorno in cui se ne era andata era stata una liberazione.
Le sorelle Ribolla, come raccontò Balzoni, erano state più generose. Adalgisa pensava che una ragazza bella e intelligente come Olimpia non dovesse sacrificarsi in quella vita senza speranze. Se aveva cercato fortuna altrove aveva fatto bene. Del resto lì che prospettive aveva? Di ridursi, a forza di lavorare, mezza cieca e povera come loro, o di sposarsi come sognavano tutte le ragazze, ignorando ostinatamente che sarebbero andate incontro alla vita delle loro madri: sfasciate dalle gravidanze, spossate dal lavoro, rose dai rimpianti.
Olimpia poi, a detta della Ribolla, non rivelava cattive inclinazioni. Il giovane Antonio Novelli, per esempio, il figlio del proprietario dell’officina, che già allora si esercitava in traffici illeciti, era innamorato cotto di lei, ma lei lo teneva a distanza come gli altri.
Dora Gambini, l’ostetrica, era molto anziana, ma di Olimpia ricordava con chiarezza un episodio che raccontò a Improta.
Un giorno era andato a trovarla Giovanni Cambiaso, il capofabbricato fascista. Tra un discorso e l’altro, confondendo forse il mestiere di ostetrica con quello di mezzana (e pensare che lei non aveva mai fatto nemmeno un aborto clandestino!), le aveva chiesto di invitare con una scusa Olimpia in casa sua, dove lui si sarebbe trovato per incontrarla. La donna lo aveva congedato in malo modo, ma poi aveva pensato bene di avvertire Olimpia e di metterla in guardia.
Olimpia a sentire la storia si era messa a ridere. «Già» aveva esclamato, «gli è andata male, l’altro giorno, quando ha cercato di bloccarmi per le scale e di farmi entrare a forza in un bugigattolo. Si è preso un manrovescio da ricordarsene per un pezzo.»
Allora la Gambini, sapendo bene come Olimpia fosse di continuo al centro dei desideri di giovani e meno giovani, le aveva chiesto se, con un ragazzo che le piacesse, sapeva come fare per evitare le gravidanze. Ed era rimasta di stucco sentendosi rispondere: «Certo, signora, si fa come ho fatto finora: sono ancora vergine come mamma mi ha fatto!».
Mai se lo sarebbe aspettato, e da quel momento aveva preso a considerare la ragazza come una con la testa a posto e di cui non era necessario preoccuparsi.
La casa di riposo Cedri del Libano di Bordighera sorgeva sulla collina in faccia al mare; la struttura patrizia, il parco verdeggiante nonostante la stagione, l’eleganza degli ospiti e l’abbondanza del personale rivelavano un ambiente di lusso.
Marco Pisani aveva aspettato il mercoledì per recarvisi con Laura, che aveva il suo giorno libero in ospedale.
Giovanna Turini, avvertita per telefono del motivo della visita, aspettava il commissario a un tavolo del bar, davanti a una grande vetrata che dava sul parco. Nonostante i settantotto anni era una bella signora, dai candidi capelli trattenuti morbidamente sulla nuca. Un completo di maglia blu scuro sottolineava la sua distinzione. I due giovani la raggiunsero e sedettero davanti a lei dopo le presentazioni.
«Ha fatto bene, dottore, ad anticiparmi il motivo della sua venuta; mi ha lasciato il tempo di raccogliere le idee. Alla mia età i ricordi arrivano frammentati, e ho dovuto sforzarmi di riordinarli. Mi dica» lo invitò con un sorriso.
«Sappiamo» esordì Pisani, «che fino alla primavera del 1938 ha lavorato da lei una ragazza di nome Olimpia Cavenaghi. Ci servirebbe sapere di lei tutto quello che ricorda, e specialmente le circostanze per le quali se ne è andata.»
«E naturalmente lei non mi può dire a cosa le servono queste informazioni» considerò la Turini.
«Esattamente, mi deve capire.»
«Sì, certo. È strano, ma ho sempre pensato che Olimpia fosse destinata a qualcosa di speciale nella vita, ma non avrei mai detto che sarebbe finita oggetto delle attenzioni della Polizia. Del resto sono passati tanti anni.»
«Perché dice che era destinata a una sorte speciale?»
«Perché, commissario, era diversa dalle altre lavoranti. Più bella, certo; non sembrava nemmeno una figlia del popolo. Con quella corporatura slanciata, quel viso dai lineamenti classici, quegli occhi verdi, la si sarebbe detta un’aristocratica. Ma soprattutto era più intelligente, anche se aveva studiato poco. Capiva al volo il lavoro, imparava in fretta, parlava il necessario e mai a sproposito e di sé non rivelava nulla. Le altre, quando erano sedute attorno al tavolo comune, e ciascuna aveva un cappello da completare, si confidavano gli incontri con gli ammiratori, progettavano i vestiti che si sarebbero cucite per andare a ballare, sognavano di sposarsi presto. Lei ascoltava in silenzio, con aria di superiorità; non era simpatica, ecco, era poco incline a comprendere il prossimo. Una volta una ragazza del laboratorio piangeva come una fontana perché si era accorta di essere rimasta incinta e non sapeva come dirlo ai genitori e al fidanzato. Ricordo che Olimpia esclamò: “Te la sei cercata, adesso è inutile che ci tormenti. Faresti meglio a decidere in fretta se vuoi abortire, ammesso che tu abbia i soldi, oppure rassegnati, se ti va bene, a cominciare trionfalmente una vita di pappe e pannolini”. Il fatto è che Olimpia si inacidiva a lavorare a La parigina perché guadagnava poco; gli stipendi di allora erano di venticinque o trenta lire a settimana, appena sufficienti per comperare un chilo di pane al giorno.»
«E come mai la sua famiglia aveva scelto per lei un lavoro così poco remunerativo?»
«Era stata sua madre. Vede, commissario, a quei tempi lavorare in una grande sartoria o modisteria era un privilegio per una ragazza: si guadagnava poco ma si imparava un mestiere col quale ci si poteva mettere in proprio. La sorella, che appena quattordicenne era entrata in fabbrica, portava a casa più soldi, ma per Olimpia la madre sognava qualcosa di meglio e, povera donna, era riuscita a farsi raccomandare da una signora nostra cliente dalla quale andava a fare le pulizie. Era convinta che una volta divenuta modista finita, Olimpia, sveglia com’era, avrebbe potuto aprire un negozio.»
«E Olimpia era d’accordo?»
«Nemmeno per sogno» rispose la Turini. «Lei diceva che sua madre era un’illusa, che per aprire un negozio elegante ci volevano soldi. Al massimo avrebbe potuto fare come una sua conoscente, che aveva un bugigattolo in corso San Gottardo e campava più che altro rimodernando vecchi cappellini di operaie e impiegate, che trasformava per poche lire finché il feltro stava insieme.»
Laura, che aveva ascoltato fino a quel momento, chiese: «Ma Olimpia non aveva sogni, progetti? Non aveva in testa un futuro per sé?».
«Sì, certo» riprese la Turini. «Ma mirava talmente alto che non osava parlarne con nessuno. Solo con me qualche volta si confidava, quando dividevo tra le ragazze le mance delle clienti e vedevo che lei metteva tutto da parte. Il suo sogno era andare a Roma e sfondare nel cinema. Da quando sui settimanali illustrati che leggeva al Circolo rionale aveva saputo che erano stati inaugurati nuovi grandi stabilimenti cinematografici a Cinecittà, non stava più nella pelle dal desiderio di partire all’avventura. Io la sconsigliavo, le dicevo che poteva essere una strada molto pericolosa, ma più io cercavo di farla ragionare, più lei dava ascolto ad Anita Serra, che le riempiva la testa di sogni.»
«Anita Serra?» chiesero a una voce Marco e Laura.
«Fin da quando aveva cominciato a lavorare da noi, Olimpia, col suo bell’aspetto, era stata scelta per fare, come si diceva allora, la piscinina, cioè faceva le consegne dei cappelli a casa delle clienti, con quelle scatole rotonde che ormai si vedono solo nei negozi di qualche antiquario. E questo per lei era stato un guaio, perché vedeva belle case, ornate di oggetti d’arte, e le confrontava inevitabilmente con la sua miseria. In particolare era entrata nelle grazie di Anita Serra, che a partire dagli anni Venti era stata una celebre cantante di Operetta e in seguito di rivista musicale. Ricca e famosa, aveva girato a suo tempo tutta l’Europa e aveva fatto tournée anche in America, aveva spezzato molti cuori. Benché fosse alla soglia dei cinquant’anni, si diceva che avesse ancora numerosi ammiratori. Ormai si esibiva poco, ma sempre con grande successo.»
«E Olimpia la frequentava?»
«La Serra l’aveva presa in simpatia; siccome era un’ottima cliente, io chiudevo un occhio se la ragazza si fermava da lei più tempo del dovuto. Quando tornava mi raccontava che la Serra le aveva fatto vedere le foto dei suoi spettacoli, le aveva predetto che lei aveva i numeri per sfondare, ma ormai bisognava pensare al cinema, la nuova arte, bisognava andare a Roma.»
Nella testa di Marco cominciava a formarsi un quadro della gioventù della contessa Aldrovandi. «E alla fine ha vinto la Serra e Olimpia si è trasferita a Roma…» concluse.
«Non è andata proprio così» lo corresse Giovanna Turini. «Di mezzo c’è stata una tragedia.»
«Cioè?» la sollecitò Pisani.
«Anita Serra è morta all’improvviso. Per essere esatti è stata uccisa.»
Marco e Laura si guardarono.
«Racconti» la invitò Marco, accendendo una sigaretta per concentrarsi meglio.
La Turini non si fece pregare. «È una storia di cui si è parlato molto ma si è saputo poco. Quel poco, però, lo ricordo come fosse ora, perché in laboratorio rimanemmo tutte molto colpite. Era appena finito il carnevale del ’38; i giornali pubblicarono la notizia il lunedì. Dedicarono ampio spazio all’argomento e raccontarono che la notte di sabato 5 marzo, appunto l’ultimo sabato del carnevale ambrosiano, la famosa artista Anita Serra era morta all’improvviso nella sua villa di via Vivaio. C’erano articoli sulla carriera e sui trionfi della Serra e necrologi a non finire, e si annunciavano funerali solenni per il giorno dopo, ma non una parola sulle cause della morte. Lei sa com’era allora la censura: nell’Italia fascista non dovevano esserci né ladri né assassini. Ma noi ci mettemmo poco a sapere la verità. Ce la raccontò la proprietaria del laboratorio, che era stata informata da diverse clienti. Pare che la povera Serra fosse stata sorpresa in casa da uno o più ladri, mentre era sola. Forse aveva reagito e le avevano sparato. La cassaforte era aperta ed erano spariti il denaro e quasi tutti i suoi gioielli favolosi, che non sono più stati ritrovati.»
«E perché lei ha messo in relazione la morte della Serra con la partenza di Olimpia?» volle sapere Laura.
«Perché, dopo questo fatto, Olimpia non sembrava più lei. Tutte noi eravamo addolorate, ma lei era più sconvolta delle altre perché la conosceva bene. Non so quando abbia saputo della tragedia, perché era tornata a lavorare qualche giorno dopo a causa di una brutta influenza. Era già venuta a conoscenza del fatto, qualche collega era stata a trovarla, non ricordo. Ogni tanto scoppiava a piangere, come avesse perso una persona di famiglia. Poi a poco a poco si calmò, ma era sempre distratta, a volte quasi spaventata, dimagrì parecchio. Finché, forse era giugno, o comunque all’inizio dell’estate, mi comunicò che si licenziava per andare a Roma dove aveva trovato lavoro come commessa; avrebbe abitato presso una cugina. Non ne ho saputo più nulla. Ma ora come sta? Dovrebbe avere più o meno sessant’anni. Che destino ha avuto? Se siete qui e vi interessate a lei significa che vive a Milano» osservò la Turini.
«Purtroppo, signora» rispose Marco con rammarico, «non possiamo dirle nulla, se non che sta bene di salute. Anzi la pregherei di non far parola con nessuno di questo colloquio perché stiamo conducendo un’indagine molto riservata.»
Appena in auto Marco e Laura si guardarono.
«Pensi anche tu quel che penso io?» chiese lei.
«Non vedo l’ora di gettare un’occhiata sul faldone del delitto Serra» ammise Pisani. «Ma prima ci concediamo una pausa.»
Scelsero un ristorantino sul mare e in attesa del risotto di pesce riepilogarono le loro scoperte.
«Doveva avere un carattere forte anche da ragazza, la nostra Olimpia» osservò Marco.
«Capisco i suoi tormenti» assentì Laura. «Sono stati anche i miei. È terribile sapersi capaci di cose grandi ed essere costretti dalla nascita a segnare il passo. Un temperamento forte ne risulta temprato, ma può anche esserne destabilizzato.»
Laura era di famiglia poverissima e aveva frequentato il liceo in un collegio grazie alla carità delle suore, mentre all’università aveva potuto studiare con borse di studio, e alla sera si era adattata a fare la cameriera in un bar. La specializzazione in Psichiatria era stata il coronamento dei suoi sogni più audaci.
«Non mi risulta però che tu abbia imboccato la strada del crimine.»
«È presto per dirlo» osservò Laura ridacchiando.
«Mica tanto» obiettò Marco. «Se è stata lei a uccidere la Serra, non aveva nemmeno vent’anni.»
«Piano, commissario. Che prove abbiamo?»
«Per ora solo impressioni, hai ragione.»
Alle sei del pomeriggio Marco e Laura erano in Questura; la giovane aspettò in ufficio mentre Pisani si infilava nell’archivio. Grazie all’inquietante abitudine della Polizia di conservare tutto, non fu difficile trovare, coperto da un velo di polvere, il faldone del delitto Serra. L’archivista lo ripulì e Pisani se lo portò via.
Appena soli, i due aprirono il fascicolo con trepidazione. Non c’erano molti documenti. In una busta trovarono le foto ingiallite del cadavere: una bella bionda stesa a terra bocconi, la testa voltata di lato, gli occhi sbarrati, la vestaglia insanguinata aperta, due fori nella schiena.
Il referto dell’autopsia attestava che la morte era dovuta a due colpi d’arma da fuoco, sparati quasi a bruciapelo alle spalle, uno dei quali aveva trapassato il cuore. Il delitto doveva essere avvenuto nel tardo pomeriggio di sabato 5 marzo.
La perizia balistica identificava la pistola omicida con la Beretta calibro 9 che la Serra custodiva in cassaforte e per la quale aveva regolare porto d’armi. L’arma era in terra, vicino al cadavere, ripulita da ogni impronta.
L’escussione dei testimoni rivelava poco: la coppia di domestici della villa aveva da tempo chiesto quella serata libera e si trovava fuori Milano da parenti. Erano stati i due a scoprire il cadavere rientrando il giorno seguente. I vicini non avevano visto né sentito nulla, ma gli spari potevano essere stati confusi con i fuochi artificiali o con i mortaretti della sera di carnevale.
Impressionante l’elenco della refurtiva: secondo i domestici pareva che la vittima in quel momento avesse in casa una somma consistente, circa due milioni di lire, dovuti alla vendita di un fondo poderale per il quale aveva ricevuto un pagamento in contanti.
I gioielli erano favolosi: anelli, bracciali, collane di perle, spille, tutto con pietre della migliore qualità, e in mezzo c’era una famosa collana, tempestata di smeraldi e brillanti, che le era stata regalata anni prima da un maharajah indiano, e una altrettanto celebre spilla di Cartier in cui un enorme rubino fungeva da corpo di uno scintillante pappagallo; di questi ultimi due gioielli c’erano alcune foto.
Tutto era sparito e nel faldone non esistevano documenti che rivelassero la ricomparsa di qualche pezzo presso ricettatori o aste.
Sotto il fascio dei documenti si trovava un’altra busta, anch’essa ingiallita. Marco la aprì e scorse sogghignando la missiva. Veniva dall’ufficio del podestà e conteneva un invito al commissario responsabile delle indagini sul delitto Serra a chiudere il caso al più presto, dato che si trattava evidentemente di delitto a scopo di rapina. Soprattutto era inutile procedere agli interrogatori dei conoscenti della vittima, col rischio di mettere in giro per la città, dove nessuno sapeva della morte violenta della Serra, i nomi di alcune persone degne del massimo rispetto. Se in seguito i gioielli fossero apparsi sul mercato clandestino, si sarebbe sempre potuto riaprire il caso indagando nella giusta direzione.
«La Serra aveva amicizie altolocate» commentò Marco, «tra personaggi che non dovevano essere coinvolti in uno scandalo. La circostanza non l’ha salvata dal fare una brutta fine, ma è stata la fortuna del colpevole. Tu cosa ne pensi?»
«È difficile immaginare che una ragazza di vent’anni abbia potuto fare questo» osservò Laura guardando le foto del cadavere.
«Può darsi che non avesse intenzione di uccidere, che i colpi della pistola siano esplosi per disgrazia.»
«Vuoi dire mentre ci giocava? Ti pare possibile?»
«No» ammise Marco. «Però mi dà da pensare che Olimpia sia rimasta così sconvolta da quella morte. Ammettiamo che sia andata dalla Serra per qualche motivo, e che la cantante l’abbia sorpresa a rubare…»
«Questo potrebbe essere» approvò Laura. «E se ben ricordo, dopo la guerra Olimpia ha aperto, guarda caso, una gioielleria a Rimini.»
«Hai ragione, Lauretta, potrebbe non essere stato un caso ma un modo prudente per smerciare la refurtiva. Se così fosse, si dovrebbe pensare che abbia tenuto i gioielli da parte per quasi dieci anni senza toccarli. Un bel sangue freddo!»
«E nel frattempo stava a Roma» osservò Laura. «Chissà cosa faceva in quel periodo.»
«Dovrò indagare a Roma, cominciando dagli ambienti del cinema che erano il suo obiettivo» concluse Pisani chiudendo il fascicolo e lasciando disposizioni perché venisse fotocopiato.