CAPITOLO 10

FUGA A SALÒ

Martedì, 12 novembre 1940

A Roma la guerra era cominciata in un clima di euforia e molti giovani, anche studenti, correvano ad arruolarsi volontari.

Olimpia, come molti altri, era convinta che bastasse aspettare qualche settimana e le divisioni spedite sul fronte francese avrebbero aiutato Hitler ad annientare la Francia. Certo, Torino era stata bombardata, ma la città era vicina al fronte; Roma invece si sentiva sicura, protetta dalla presenza del Vaticano.

C’erano sì le tessere annonarie e il razionamento dei viveri, e stavano scomparendo il sapone e il caffè. In luglio, mese insolitamente freddo, erano spariti dai negozi anche zucchero e carne, ma la dispensa di Olimpia era sempre rifornita da un attendente di Gualtiero.

L’oscuramento delle abitazioni e dei fanali delle poche auto in giro di notte, se a tutta prima era stato preso come un gioco, diventò una cosa seria quando gli inglesi, come rappresaglia per i bombardamenti dei tedeschi su Londra, presero di mira alcune città del nord Italia.

La gente seguiva con il solito interesse le ultime battute del campionato di calcio e si era appassionata al Giro d’Italia, vinto quell’anno da un giovane piemontese di nome Fausto Coppi.

E andava al cinema più di prima.

A Cinecittà non era infatti cambiato nulla e Olimpia aveva potuto continuare a lavorare al suo secondo film da protagonista.

Myra Leoni aveva vissuto il suo momento di gloria a settembre, alla Mostra del Cinema di Venezia. Il suo film non era in concorso, ma lei aveva partecipato a feste e spettacoli in compagnia di Gualtiero, esibendo scintillanti toilette come una vera diva.

Anche a Venezia la guerra sarebbe apparsa assai lontana se non ci fossero state in gara numerose pellicole tedesche e in giro molti ufficiali in uniforme, spesso accompagnati dal colonnello Morlacchi, che parlava il tedesco.

La sera del 12 novembre Gualtiero si presentò a casa di Olimpia più impensierito del solito. Fin dall’inizio della guerra non aveva condiviso gli entusiasmi della stampa e il suo umore era spesso tetro. Amico di Galeazzo Ciano, che si recava di frequente dal ministro Pavolini, condivideva con il genero del duce la disapprovazione per l’intervento, ma preferiva tacere. Quella sera, però, aveva bisogno di sfogarsi.

«Siamo nei guai» esordì. «Questa guerra ci porterà alla rovina!»

«Non dire queste cose, Gualtiero» lo contraddisse Olimpia aiutandolo a togliersi il cappotto. «Le forze dell’Asse stanno vincendo su tutti i fronti; non leggi i giornali?»

«Mia cara Myra» Persino il suo amante la conosceva solo col nome d’arte. «Non crederai a quello che dicono i giornali! Lo sai da un pezzo che sono controllati dal partito. Sai cos’è successo? La nostra squadra navale, che gli ammiragli con rara idiozia avevano riunito a Taranto, è stata bombardata da aerosiluranti inglesi e quasi completamente distrutta! E stai pur certa che sui giornali non leggerai l’entità dei danni. Come non hai letto che Franco, il caudillo di Spagna, ha detto un bel no a Hitler quando gli è stato chiesto di entrare in guerra con la Germania.»

Gualtiero si era accalorato e si versò un cognac ingollandolo d’un fiato.

«Franco sa che questa guerra sarà micidiale e non vuole immischiarsi come ha fatto Mussolini. In compenso adesso siamo alleati del Giappone, e il fronte su cui ci dobbiamo battere non ha più confini, perché Dio solo sa che cosa i nipponici vanno cercando.»

Si abbatté su un divano e si accese una sigaretta mentre Olimpia lo guardava, adesso sì, preoccupata.

«E la sai un’altra cosa che i giornali non scrivono? Lo sai che la Wehrmacht è dovuta correre in tutta fretta in soccorso del nostro esercito sui monti della Grecia, dove Mussolini lo ha spedito vagheggiando di allargare l’Impero, senza neanche pensare che i greci si sarebbero difesi…? E lo stanno facendo, come leoni. E se non bastasse, le nostre truppe stanno arretrando anche in Libia, e per aiutarle Hitler ha costituito l’Afrika Korps al comando del generale Rommel, che si appresta a partire per il fronte africano. Così in caso di vittoria saremo i servi dei tedeschi, e alla sconfitta non voglio nemmeno pensare. Inoltre scarseggiano i viveri, si abbattono le cancellate per fare cannoni, e quest’inverno, che si annuncia freddissimo, sarà razionato anche il carbone. Lo sai che le mogli dei contadini e dei lavoratori autonomi richiamati a combattere ricevono un sussidio di otto lire al giorno, con cui possono solo morire di fame?»

«Stai attento, Gualtiero» lo ammonì Olimpia, «se parli così in pubblico finisci nei guai come disfattista.»

«Di te, Myra, credo di potermi fidare» ribatté il colonnello. «Sei l’unica a cui parlo di queste cose. Nemmeno a mia moglie dico nulla, anche se sono sicuro che sappia più cose di me, grazie all’aristocrazia vaticana con cui è imparentata.»

I discorsi di Gualtiero furono come una scossa per Olimpia, che decise che era tempo di uscire dalla beata incoscienza in cui si cullava da un anno e di fare qualcosa di utile.

Dei suoi familiari a Milano si era quasi dimenticata, presa com’era dalla nuova vita, ma anche nel momento in cui avvertì che il terreno non era più sicuro non pensò di provvedere a loro, non si chiese se a Milano la gente stesse facendo la fame né se correva rischi con i bombardamenti. In ogni caso non poteva farci niente e riteneva inutile preoccuparsi.

Non era inoltre tipo da sprecare il suo tempo a fare la madrina di guerra scrivendo ai soldati, né si immaginava ad aggregarsi alle volontarie che preparavano indumenti e bende per i soldati al fronte, come faceva la moglie di Gualtiero.

Finì per concentrarsi su se stessa, come sempre.

Non aveva mai interrotto le lezioni di ballo, canto e recitazione, tuttavia frequentando Gualtiero e i colleghi del cinema si era resa conto di essere piuttosto ignorante. La mancanza di studi si faceva sentire. Decise così di prepararsi privatamente per ottenere la licenza media. E poi, chissà, forse un giorno, dopo la guerra, avrebbe potuto iscriversi al Centro sperimentale di Cinematografia e diventare una grande attrice, come Alida Valli che era per lei un modello di squisita raffinatezza.

Fu un’esperienza positiva. Mentre girava il terzo film, anche questo in costume, durante le pause la si vedeva con un libro di storia o di matematica in mano.

Il regista Ganci qualche volta la canzonava. «Vuoi diventare un’intellettuale, Myra? Non ti bastano più le tue belle gambe? Adesso vuoi mettere insieme anche un cervello?»

«Quello l’ho sempre avuto» rideva lei. «Ma a studiare mi diverto.»

Con il passare dei mesi era diventata anche meno spensierata. Cominciava a notare che i soldati tedeschi si aggiravano per Roma sempre più numerosi. La svalutazione aveva ridotto di molto il valore della lira. La gente per le strade aveva l’aria sempre più patita e davanti ai negozi di alimentari ogni mattina si allungavano eterne file di persone con le tessere annonarie in mano. Per mangiare decentemente era ormai usuale ricorrere alla borsa nera, anche se ogni tanto gli accaparratori di generi alimentari venivano denunciati e arrestati.

Le vetrine esponevano tristissime pellicce di coniglio e scarpe autarchiche con suole di legno, i cinema però erano affollati perché costituivano l’unica via di fuga dalla realtà.

Il giorno in cui vide i caffè all’aperto di via Veneto protetti da possibili bombardamenti con bastioni di sacchetti di sabbia, Olimpia si rese finalmente conto che in guerra c’era anche lei.

In primavera i parchi della capitale furono seminati a orti. Si era capito che la guerra lampo era stata una folle chimera del duce e che per il nostro esercito le cose andavano di male in peggio.

Il 28 marzo 1941, a Capo Matapan, nel Mediterraneo centrale, la flotta italiana subì una sconfitta a opera degli inglesi, ancora più dura di quella di Taranto; circa tremila marinai persero la vita.

Questa volta fu Giulio, il suo amico maestro di ballo, a dare a Olimpia le notizie esatte sul disastro, anche se i giornali avevano minimizzato.

Giulio era una delle pochissime persone che Olimpia frequentava nella vita privata, insieme ad Anna Lacordero, l’attrice che aveva conosciuto alla pensione Archi. A nessuno dei due aveva mai parlato di Gualtiero, anche se Giulio aveva intuito che doveva avere per protettore un gerarca del regime.

Nel salotto della bella casa di Olimpia, sulla quale Giulio per discrezione non aveva mai fatto domande, il giovane sedeva affranto, bevendo un cognac anch’esso di provenienza misteriosa.

«Sai che sul cacciatorpediniere Carducci c’erano due miei amici di Arezzo, affondati con la nave?» mormorò prendendosi la testa fra le mani. «E tanti altri sono stati richiamati e combattono su vari fronti. Chissà se sono ancora vivi!»

«Ma tu sei qui al sicuro» tentò di rincuorarlo Olimpia.

«Già, e me ne vergogno, anche se disapprovo la guerra. Sono stato riformato grazie alla mia caviglia fratturata.»

A differenza di Gualtiero, che giudicava in modo critico certe decisioni ma rimaneva un uomo del regime, Giulio a volte si augurava di perdere la guerra pur di liberarsi dalla dittatura fascista; più in là, però, non si permetteva di andare. Non confidava per esempio a Olimpia che tutta Roma deplorava che il duce mantenesse nel lusso la sua amante Claretta Petacci e che nelle case dei gerarchi e in quelle delle loro amichette cibi e combustibile si sprecassero, e non mancassero abiti e profumi francesi né calze di seta.

«Tu però, Olimpia» le raccomandava ogni tanto, «non comprometterti troppo con personaggi di potere, stai defilata. Non si sa mai cosa può succedere se il regime viene rovesciato.»

E Olimpia faceva tesoro delle sue raccomandazioni e non insisteva troppo con Gualtiero per farsi vedere insieme in società. Quando non doveva comparire ai ricevimenti del mondo del cinema, si accontentava di rimanere in casa ad ascoltare la radio o a leggere. E si illudeva che la sua relazione fosse rimasta ignota a tutti.

Ebbe così un’amara sorpresa il giorno in cui in camerino Gianna, la sua truccatrice personale, dopo aver sperimentato su di lei un nuovo belletto esclamò: «Così è ancora più bella! Chissà come la ammirerà il colonnello Morlacchi!».

Olimpia rimase a guardarla senza fiato, gli occhi stretti come due fessure. «Cosa c’entra il colonnello? Cosa stai dicendo?» sibilò.

«Niente!» balbettò l’altra, accortasi della sua imprudenza. «Dicevo così per dire… il colonnello è sempre attento anche ai particolari dei film…»

Olimpia lasciò prudentemente cadere il discorso, ma si interrogò su come la voce della relazione che lei e Gualtiero avevano così attentamente tenuto segreta potesse essere arrivata alle orecchie di una semplice truccatrice. Poi ripensò alle volte in cui lui la aspettava in macchina fuori dal cancello: forse li aveva visti il portiere e da lui la voce si era diffusa tra le manovalanze. Poteva solo augurarsi che si fosse fermata lì e decise che avrebbe dovuto stare ancora più attenta.

La primavera del 1941 portò alle forze tedesche folgoranti vittorie, che giovarono anche agli alleati italiani. Il 22 giugno, con una delle sue azioni a sorpresa, Hitler diede inizio all’Operazione Barbarossa, cioè all’invasione dell’Unione Sovietica, senza nemmeno avvertire Mussolini, che fu messo al corrente a fatto compiuto attraverso il ministro Ciano.

Masticando amaro, nonostante i generali lo mettessero in guardia che l’Italia non era equipaggiata per affrontare le steppe, Mussolini abborracciò tre divisioni da aggregare ai tedeschi, nel timore di non essere presente alla parata della vittoria sulla Piazza Rossa di Mosca.

In quel luglio, caldissimo a differenza dell’estate precedente, mentre molti italiani si preparavano nonostante tutto a partire per le vacanze, Gualtiero scomparve all’improvviso per una settimana e non avvertì Olimpia nemmeno con una telefonata.

Si fece vivo una sera senza preannunciarsi, più cupo che mai, spiegando che era stato occupato a trasferire moglie e figli a Lugano, in Svizzera.

«Li hai portati in villeggiatura?» chiese Olimpia ingenuamente.

«No, mia cara» rispose lui accarezzandole una mano. «Li ho messi al sicuro. Con l’attacco all’Unione Sovietica le cose andranno sempre peggio; la storia insegna che nessuno ha mai piegato il gigante russo, e per di più i nostri soldati non sono equipaggiati. Sarà un’ecatombe.»

«Ma i giornali dicono che i tedeschi stanno arrivando a Mosca, che sono già a un passo dalla vittoria» obiettò Olimpia.

«Il gigante è lento a muoversi, ma quando sarà pronto non so cosa potrà succedere. D’altra parte è stata mia moglie a voler partire con i bambini in seguito a informazioni che ha avuto tramite i suoi canali. E per non sembrare un disfattista ho ottenuto il suo passaporto presentando un certificato medico che la dichiara affetta da tubercolosi e bisognosa di cure in una certa clinica svizzera.»

«Molto astuto» commentò Olimpia con sarcasmo.

«Però adesso siamo più liberi» sorrise Gualtiero. «Qualche notte posso passarla con te.»

E infatti il loro amore ricevette nuova linfa dalla partenza della signora Morlacchi.

Gualtiero si faceva vedere spesso in via del Governo Vecchio e Olimpia volle imparare a cucinare per lui. I romani erano quasi alla fame, ma Olimpia poteva preparare cene con le carni migliori e disponeva di farina e zucchero a volontà, oltre che di liquori stranieri e dei vini più pregiati.

Quando dalle città scomparve la maggior parte dei taxi e fu vietata la circolazione delle auto private a benzina, Olimpia prese la patente e Gualtiero le regalò una Balilla a metano per i suoi spostamenti.

In quello scorcio d’estate fecero gite nelle cittadine laziali, presero il sole a Fregene e sfidando i bombardamenti si spinsero addirittura fino a Napoli.

In settembre parteciparono di nuovo alla Mostra del Cinema di Venezia, affollata da ufficiali italiani e tedeschi e belle donne in abiti lunghi. Ma nei saloni degli alberghi e nelle sale di proiezione si avvertiva un forte senso di precarietà. Non era più come prima.

Per le forze dell’Asse il 1941 si concluse con due funesti presagi.

Il 2 novembre arrivò a Roma il maresciallo nazista Albert Kesserling con l’incarico di comandante di tutto il settore, per supportare sia la flotta italiana nel Mediterraneo, ormai ridotta al lumicino, sia il generale Rommel in difficoltà in Africa. Il 7 dicembre, in seguito all’attacco giapponese contro la base navale americana di Pearl Harbor, gli Stati Uniti entravano in guerra.

Le peggiori previsioni di Gualtiero si avveravano: il destino del Paese sarebbe stato la sconfitta o la sottomissione alla Germania.

Eppure, nonostante l’avanzata tedesca in Russia si fosse bloccata a Leningrado, per qualche mese la guerra sembrò favorire le forze dell’Asse e perfino la Marina Italiana colse qualche successo.

Per rifornire i soldati al fronte, nelle città i sacrifici erano sempre più duri, mentre in campagna i contadini imboscavano i raccolti per venderli alla borsa nera. Solo l’industria del cinema non risentiva della crisi.

Il giugno seguente Olimpia era impegnata con gli esami di licenza media, in attesa del primo giro di manovella del suo nuovo film, una commedia brillante.

Il 5 giugno, passando sul Lungotevere dopo aver dato gli esami orali, vide sul marciapiede un assembramento di gente dall’espressione costernata che guardava in basso. Presa dalla curiosità, si avvicinò alla spalletta. Le si presentò il triste spettacolo di un centinaio di persone vestite di stracci che picconavano gli argini del fiume facendo lavori di manutenzione.

Dalle voci intorno a lei venne a sapere che si trattava degli ebrei di Roma che stavano eseguendo la prima giornata di lavoro obbligatorio. C’erano, a quanto dicevano gli astanti, ingegneri, professori, avvocati, amici e conoscenti da generazioni degli spettatori.

Da ambedue le parti, un profondo senso di vergogna.

Olimpia pensò fugacemente a cosa potesse essere capitato a Sara Colli, ma non volle soffermarsi troppo su quel pensiero. In fondo, si giustificò, anche se non l’avesse denunciata avrebbe finito per essere scovata ugualmente.

Qualche giorno dopo ottenne la licenza media e si sentì orgogliosa di se stessa.

Del fronte russo si sapeva poco, ma Gualtiero non ignorava che l’Armata Rossa era ormai pronta a combattere e l’avanzata tedesca si era arrestata, mentre alle sue spalle insorgevano i Balcani. In novembre non fu più possibile tenere nascosto alla gente il blocco del fronte russo e il ritiro dell’Asse in Africa, dove sbarcavano gli americani.

In Italia i bombardamenti sulle città si fecero continui e anche Roma si dovette dotare di rifugi antiaerei. Chi appena poteva si rintanava nelle campagne abbandonando le città, dove il pericolo era in agguato ogni giorno e si faceva la fame.

Il 1943 cominciò sotto i peggiori auspici. Gualtiero in primavera ricevette notizie allucinanti da ufficiali miracolosamente ritornati dalla ritirata sul Don. I soldati italiani dell’ARMIR erano stati mandati in Russia con cappotti di stoffe autarchiche, scarpe di cartone, armi che si bloccavano con il freddo, carburante insufficiente. E coloro che, stremati, tentavano di salire sui camion tedeschi ne venivano respinti con le baionette, come fossero nemici. Cominciavano a circolare voci sulle atrocità commesse dai nazisti in guerra e nei campi di sterminio.

I primi di luglio tutti intuivano che si era al preludio dello sbarco in Italia degli Alleati, che iniziò infatti il giorno 11, in Sicilia.

Da quel momento per Olimpia e Gualtiero cominciò l’incubo.

Il 19, mentre lei era a lezione di canto, preceduto dal suono sinistro delle sirene d’allarme, alle undici del mattino si udì per la prima volta a Roma il sibilo delle bombe alleate che cadevano sul quartiere di San Lorenzo. La giovane ebbe un bel da fare a tenere calma la sua insegnante e a trascinarla nel rifugio più vicino. Poi, a incursione finita, volle andare a vedere.

Tutto il quartiere era un cumulo di rovine fumanti, la basilica era polverizzata, tra la folla sgomenta per la strage di civili si aggirava papa Pio XII, la veste bianca sporca di sangue.

Diverse bombe avevano colpito Cinecittà, ma i danni erano rimediabili e pareva che il lavoro dovesse continuare.

Olimpia aveva già firmato il contratto per un nuovo film da iniziare in autunno, questa volta una storia drammatica che richiedeva capacità interpretative. Per lei poteva essere il tanto atteso salto di qualità. Le prove sarebbero cominciate i primi di settembre, subito dopo la Mostra di Venezia, se ci fosse stata.

Nel frattempo in pochi giorni gli Alleati avevano conquistato la Sicilia.

La sera del 25 luglio Gualtiero si presentò stravolto a casa di Olimpia. «Presto, Myra, ascolta la radio» esclamò mentre si accendeva una sigaretta.

Dall’apparecchio uscì la voce turbata dello speaker: «Attenzione… Sua Maestà ha accettato le dimissioni dalla carica di capo del governo presentate da Sua Eccellenza il cavalier Benito Mussolini e ha nominato capo del governo il maresciallo Pietro Badoglio».

«Cosa vuol dire?» chiese Olimpia.

«Vuol dire che il regime fascista è caduto e che presto potrebbero esserci ritorsioni e vendette.»

«Hai paura per la tua incolumità?»

«No» la rassicurò Gualtiero. «Ho sempre compiuto il mio dovere di soldato. Non ho mai fatto del male a nessuno, né ho mai rubato. Ma c’è molta gente che sconterà le proprie malefatte e potrebbero scoppiare focolai di rivolta. È meglio che per qualche giorno tu non esca di casa.»

«E tu che farai?» si preoccupò Olimpia.

«Sono un militare, resto in attesa di ordini.»

Nei giorni seguenti gli ordini arrivarono, confusi e contradditori.

Badoglio aveva dichiarato che la guerra sarebbe continuata, ma contro chi?

La gente era euforica per lo scioglimento del partito fascista e per le strade abbatteva statue e cancellava le scritte inneggianti al duce. Era stato dichiarato l’armistizio tra l’Italia e gli Angloamericani, che avanzavano dal sud, ma il re e tutta la corte, col governo al seguito, erano fuggiti dalla capitale rifugiandosi a Brindisi.

Gli italiani si sentivano abbandonati, le caserme si svuotavano perché i soldati privi di ordini dall’alto, vestiti come potevano in borghese, si accingevano a tornarsene ciascuno a casa sua.

Gualtiero venne a sapere che dal Brennero stavano scendendo verso Roma sedici divisioni corazzate tedesche: era l’occupazione militare dell’Italia da parte degli antichi alleati, mentre gli angloamericani rispondevano con continui bombardamenti su tutto il Paese.

Olimpia aveva subito una cocente delusione personale: Cinecittà era stata chiusa e il suo primo film impegnato era andato in fumo. Gli stabilimenti non sarebbero stati agibili per molto tempo perché, a quanto le aveva raccontato Ganci, erano stati occupati dagli sfollati rimasti senza casa che si andavano impadronendo di ogni oggetto utile.

A contrastarli c’erano i tedeschi, che volevano smontare le attrezzature per trasferirle in Germania. Contro di loro si stava battendo il presidente Luigi Freddi per salvare almeno metà del materiale e portarlo a Venezia, dove aveva intenzione di ricostituire una città del cinema.

Quando il 12 settembre si seppe che il duce era stato liberato dai tedeschi dalla sua prigionia a Campo Imperatore e portato in Germania, Gualtiero, dopo molti dubbi, prese la sua decisione.

«Ce ne andiamo, Myra. Andiamo al nord. È là che si ricostituirà il governo di Mussolini.»

«Ma tu molte volte non hai approvato le sue decisioni, e non mi pare che ti piaccia fare da servo ai tedeschi» obiettò Olimpia.

«Non ho altra scelta. Badoglio non ha un esercito, e io sono un soldato. La storia accuserà l’Italia di aver spezzato l’alleanza con cui era entrata in guerra, e io non sono un traditore. Ho combattuto sotto il generale Graziani e ho notizie che anche lui si prepara a raggiungere il nord Italia. I tedeschi ci stanno occupando in forze e al loro fianco dev’esserci un esercito italiano che limiti la loro prepotenza. Mussolini è vecchio e stanco, ma saprà proteggere i suoi uomini.»

«E di me che ne sarà?»

«Tu verrai con me, amore mio» rispose Gualtiero con un pallido sorriso. «Come potrei abbandonarti? Prepara l’indispensabile, perché bisogna partire al più presto.»

Il mesto, piccolo corteo di Morlacchi si mosse da Roma due giorni dopo. Comprendeva la Lancia del colonnello, che viaggiava con Olimpia e il suo segretario, il tenente Luca Caldara, seguita dall’attendente al volante della Balilla di Olimpia, carica di abiti e oggetti che lei aveva voluto portare con sé dopo aver dato uno straziante addio alla bella casa che era stata il simbolo del suo successo.

Una valigetta che non abbandonava mai custodiva il denaro che aveva ritirato dalla banca e i gioielli ancora intatti appartenuti alla Serra, di cui nessuno, nemmeno Gualtiero, era al corrente.

Protetti da una colonna di militari tedeschi che facevano la stessa strada, risalirono in tre giorni la penisola, contemplando smarriti lo spettacolo costante di morte e distruzione. Sguardi d’odio e di terrore li seguivano a ogni tappa, anche se ogni loro desiderio veniva esaudito con servilismo.

Arrivarono a Verona il 17 settembre e trovarono una confusione indescrivibile; la città era percorsa da carri armati nazisti, tra le divise tedesche si aggiravano volti noti del regime fascista in cerca di un ruolo.

Tutti aspettavano il ritorno del duce e degli alti gerarchi, Pavolini, Buffarini Guidi, Farinacci, Preziosi, Ricci, che lo avevano raggiunto in Germania.

A fine mese però la situazione cominciava ad assumere contorni definiti. Mussolini, tornato in Italia, aveva proclamato al nord la Repubblica Sociale Italiana e ricostituito il partito fascista, il cui segretario era Pavolini. Si apprestava anche a mettere in piedi un esercito da affidare al maresciallo Graziani, ministro della Difesa nazionale.

Abbandonata l’idea di tornare a Roma, il nuovo governo si insediava a Verona e nelle cittadine intorno al Garda. Ma la Repubblica Sociale apparve subito uno stato da operetta agli occhi del comando tedesco, che si era stabilito a Milano all’hotel Diana, mentre le SS stavano all’hotel Regina in via Pellico.

Olimpia, munita degli indispensabili lasciapassare, poteva girare per Verona a suo piacimento, ma senza amici e senza nulla da fare si annoiava e subiva quella pesante atmosfera di incertezza che gravava sulla città.

Lei e Morlacchi si erano provvisoriamente sistemati in un albergo, cosa che accentuava il senso di precarietà. Fu perciò con gioia che accolse l’amante la sera in cui lui ritornò dal sospirato colloquio con Graziani.

Gualtiero non era per nulla soddisfatto. «Sono un militare e vogliono trasformarmi in un poliziotto» esordì. «Dobbiamo obbedire ai padroni. Graziani è fuori di sé perché vorrebbe che il suo nuovo esercito combattesse al fianco dei tedeschi, e i tedeschi invece non vogliono i nostri soldati. Anzi ne stanno mandando intere divisioni in Germania a riaddestrarsi. È escluso che io segua questa strada. Su consiglio del maresciallo, non mi rimane che arruolarmi nella Guardia Nazionale Repubblicana, che avrà compiti di polizia.»

«Ma almeno resterai qui, vicino a me» mormorò Olimpia con un sorriso.

«Questo sì, per fortuna. Pensa però che la Guardia Nazionale comprenderà, oltre a reparti dell’esercito, anche le Squadre d’Azione, composte da personaggi alquanto dubbi, insieme ai Carabinieri, che sono bene addestrati ma ostili ai tedeschi. E mi amareggia che la Guardia Nazionale non dovrà combattere il nemico ma i ribelli interni, gli italiani, i nostri stessi fratelli.»

«Che vuoi dire?»

«È un fenomeno molto preoccupante: i soldati che hanno abbandonato le caserme l’8 settembre, molti civili da sempre nemici del regime, parecchi giovani renitenti alla leva hanno costituito qui al nord vere e proprie bande armate che si rifugiano nei paesi di montagna, protette dalla popolazione. Scendono di notte a compiere atti di sabotaggio. Ora fanno saltare un treno di munizioni o un ponte di collegamento con le strade che portano in Germania, ora attaccano un carcere per liberare prigionieri politici, oppure fanno prigionieri alcuni dei nostri per scambiarli con i loro compagni. Non sono banditi: tra loro si contano professionisti, ufficiali, anche qualche prete. Sembra che dipendano dai partiti politici che il fascismo aveva sciolto e ora si stanno ricostituendo e cercano agganci con gli Alleati per essere riconosciuti come forza combattente contro nazisti e fascisti e per essere equipaggiati e aiutati. Si chiamano partigiani e sono dappertutto, hanno spie ovunque. Ma sono italiani, e a me toccherà dare loro la caccia. Anzi, ancora peggio: siccome ho la disgrazia di parlare correntemente il tedesco, sarò un ufficiale di collegamento. Il mio compito sarà quello di tenere informato il comando tedesco della presenza di queste bande e delle azioni che preparano. E so già che i tedeschi si abbandoneranno a ogni genere di torture e crudeltà contro quelli che consegneremo nelle loro mani.»

«E noi dove abiteremo?» cambiò discorso Olimpia.

«Questa è la parte positiva: poiché dovrò ricevere spesso alti ufficiali tedeschi delle SS e della Wehrmacht, mi è stato consigliato di cercarmi una villa un po’ fuori mano, e tu potrai vivere con me. Anzi, ho bisogno che tu mi aiuti a intrattenere questa gente. Ormai nessuno fa più caso alla circostanza che non siamo sposati.»

E così Gualtiero trovò una villa sulle colline di Desenzano, dove aveva sede il Ministero della Difesa. La casa sorgeva in un luogo isolato da cui si vedeva il lago, circondata da un ampio giardino. Olimpia la arredò con l’aiuto del tenente Caldara e rimase stupita nel constatare come fosse facile trovare a prezzi irrisori mobili e suppellettili quasi nuovi e di ottima qualità.

«Molta gente se ne è andata» le spiegò un commerciante. «Specialmente ebrei benestanti, che prima di partire hanno venduto tutto. Se le interessa, signora, ho anche magnifici gioielli.»

«No, i gioielli non mi interessano» rispose Olimpia, che aveva subito provveduto a mettere al sicuro in banca il suo tesoro.

Una sera Gualtiero arrivò in compagnia di una ragazza di bell’aspetto. «Questa è Linda» la presentò. «Si occuperà delle faccende domestiche e dormirà qui, così quando dovrò viaggiare starò tranquillo sapendo che non sei sola.»

Più tardi, a tu per tu, le raccontò che Linda era di Milano e aveva perso la casa e la famiglia in seguito a un bombardamento. Gliel’aveva raccomandata come fidatissima il vescovo di Desenzano, a cui aveva fatto visita per avere un’idea della posizione della Chiesa nei confronti degli occupanti.

«Capirai» aggiunse, «che data la delicatezza del mio incarico debbo mettermi in casa solo gente di provata fiducia. Per te naturalmente ho garantito io e ti ho procurato un lasciapassare italiano e uno tedesco senza scadenza: con questi documenti puoi andare dove vuoi.»

A Desenzano Olimpia si trovò meglio che a Verona; poteva passeggiare sul lungolago, prendere il caffè in qualche locale del centro storico, andare al cinema, girare con la sua auto. Aveva sempre avuto pochissimi amici e a stare sola era abituata. Le mancavano il lavoro e le sue lezioni, però Gualtiero le aveva procurato un pianoforte con l’aiuto del quale studiava le canzoni più in voga.

Morlacchi era spesso in giro: si muoveva tra Verona, Venezia e Milano e qualche volta restava assente per giorni. Dopo le prime confidenze ora non le parlava più del suo incarico, ma Olimpia capiva che lo eseguiva controvoglia.

Le serate in cui ricevevano erano una distrazione. Arrivavano quasi sempre le stesse persone: il colonnello Lang e il maggiore Kalle della Wehrmacht e due giovani tenenti delle SS, Karl Halder e Fritz Hierl, oltre al segretario di Gualtiero, il tenente Caldara.

Si presentavano verso le otto per la cena, mentre un milite armato di mitra si fermava a fare la guardia fuori dall’edificio. Linda sapeva cucinare bene e a tavola, dato che tutti parlavano un po’ di italiano, Olimpia poteva partecipare alla conversazione.

Lang, quasi calvo, segaligno, veniva da Colonia dove da civile era professore universitario di Storia. Era piuttosto taciturno, al contrario di Kalle, rubizzo e sovrappeso, originario di Monaco, che conversava volentieri raccontando aneddoti della sua famiglia e rievocando con nostalgia le grandi birrerie della sua città.

I due tenenti invece mettevano Olimpia un po’ a disagio. Erano belli, biondi e ariani, sembravano fratelli anche se erano nati in città diverse: a Lipsia Halder e a Norimberga Fritz Hierl. C’era però qualcosa che li accumunava, il fervido credo nazista e la fede incrollabile nella vittoria finale. Forse erano rimasti gli ultimi a crederci, pensava talvolta lei, che non voleva nemmeno immaginare come sarebbe andata a finire la sua avventura.

Dopo cena, mentre gli uomini si rilassavano con qualche bicchiere di liquore, Olimpia si metteva al pianoforte e li incantava tutti con la sua bella voce bassa e sensuale. In particolare aveva imparato a cantare Lili Marleen, la nostalgica melodia che tutte le sere da Radio Belgrado commuoveva i soldati attestati su fronti diversi e nemici.

Ai primi accordi anche la giovane sentinella entrava timidamente (aveva ricevuto il permesso di farlo), chiudeva la porta dietro di sé, appoggiava l’arma a una parete dell’ingresso, percorreva il breve corridoio e con gli occhi lucidi si metteva in ascolto accanto allo stipite del salone. Poi riprendeva l’arma e tornava al posto di guardia.

Qualche volta Olimpia, prima di ritirarsi, portava al soldatino un caffè o una bibita e si fermava per un breve scambio di parole. Il giovane, di nome Otto Spoegler, rimpiangeva la sua casa di Dresda e il forno di famiglia e pensava alla fidanzata che lo aspettava. E invece doveva passare le notti abbracciato al suo mitra. Una volta fece provare a Olimpia quanto pesasse e gliene mostrò il funzionamento, pregandola di non raccontare a nessuno questa sua infrazione, che avrebbe potuto procurargli una dura punizione.

Quando lei si ritirava, gli ufficiali in soggiorno iniziavano una fitta conversazione in tedesco scambiandosi le informazioni.

Da Radio Londra, che come tutti ascoltava di nascosto, Olimpia sapeva come andavano le cose: Milano era stata quasi distrutta dai bombardamenti, e così Genova, Trieste, Bologna, Torino. Le leggi razziali avevano moltiplicato nei territori controllati dal Reich, Italia compresa, rastrellamenti a tappeto di ebrei, a cui erano stati confiscati i beni e che erano stati avviati in sconosciuti campi di lavoro. Intuiva dalle frasi in codice trasmesse dalla radio che il movimento di resistenza partigiana si era esteso dalle montagne alle città, dove operavano gruppuscoli di sabotatori, i GAP.

A gennaio Olimpia aveva appreso con sgomento del processo di Verona e della fucilazione dei gerarchi che il 25 luglio avevano votato la decadenza del duce e non erano riusciti a fuggire in tempo. La vicenda della condanna a morte del genero del duce, Galeazzo Ciano, le ricordò le tragedie greche che aveva studiato a scuola di recitazione.

A febbraio ebbe qualche giorno di distrazione: si inaugurava a Venezia il Cinevillaggio, la nuova città del cinema della Repubblica Sociale che era stata collocata nei giardini della Biennale e alla Giudecca.

Alla festa che seguì la cerimonia, a cui partecipò al fianco di Gualtiero senza più nascondersi, incontrò conoscenti e colleghi, ma in quella cornice inusuale fu presa dalla malinconia. C’erano Valenti e la Ferida, sempre più esaltati dalla dottrina fascista, Elena Zareschi, Gino Bechi. Parenti, il suo produttore, era rimasto a Roma, e Olimpia non si diede da fare per ottenere altre scritture, perché Desenzano era troppo lontana da Venezia e non aveva alcuna fiducia nella rinascita di Cinecittà sulla laguna; i fatti dovevano darle ragione.

Per tutto il ’44 seguì la lenta ma sicura avanzata dal sud degli Alleati, chiedendosi cosa ne sarebbe stato di lei e Gualtiero. Notava che a Desenzano, nel cuore della Repubblica Sociale, le pattuglie tedesche passavano per le strade armate fino ai denti, e da come si guardavano intorno con sospetto si percepiva la paura che avevano di finire vittime di un attentato per mano di quei nemici sfegatati e invisibili, i partigiani, che si arroccavano come avvoltoi sulle montagne. Quando Gualtiero rincasava affranto portando la notizia della fucilazione di alcuni ribelli, lei non capiva la sua amarezza e non sapeva come consolarlo.

Si trovava spesso a chiedersi se avesse fatto bene a seguirlo al nord. I nazifascisti avrebbero perso la guerra, ormai era solo questione di tempo, e lei, che non si era mai interessata di politica, si sarebbe trovata dalla parte dei perdenti, una parte che non le era mai piaciuta.

E per che cosa? Per amore, proprio lei che si era sempre ripromessa di non farsi sopraffare dai sentimenti. Ma quale amore? Gualtiero non era più il brillante ufficiale che aveva conosciuto qualche anno prima, sembrava invecchiato, era spesso cupo, a volte si sarebbe detto che aveva paura. Olimpia era abituata a dirsi sempre la verità: si era pentita della situazione in cui si era infilata e non sapeva come fare a sganciarsi da Morlacchi, dalla politica, dai fascisti e dai tedeschi.

Il 5 giugno, giorno in cui gli Alleati entrarono a Roma, Olimpia era fuori di sé dalla rabbia per non essere rimasta nella capitale. Fascisti e nazisti intorno a lei avevano facce da funerale. Si rianimarono un poco i giorni seguenti, quando si diffuse la notizia che Hitler disponeva di armi segrete potentissime che avrebbero capovolto le sorti della guerra.

Olimpia considerava amaramente che dovevano avere i paraocchi per farsi simili illusioni.

Ormai ci sarebbe voluto solo un miracolo per capovolgere le sorti del conflitto: gli Alleati erano sbarcati in Normandia e avanzavano in Francia, i russi stavano recuperando il loro territorio, gli americani, isola per isola, strappavano il Pacifico ai giapponesi, e in Italia i tedeschi, dopo un durissimo combattimento, avevano dovuto abbandonare la roccaforte di Montecassino.

All’inizio di agosto, dopo alcuni giorni di lotta nel caldo afoso della città, Kesserling si ritirò da Firenze sulla Linea Gotica che correva lungo la dorsale dell’Appennino tosco-emiliano.

Olimpia sapeva da Gualtiero che nelle città del nord i partigiani si facevano sempre più numerosi e pericolosi, sostenuti com’erano dalla popolazione e dal lancio di armi degli Alleati.

La mattina del 4 ottobre, un mercoledì grigio e piovoso di un autunno tetro, Olimpia uscì di casa verso le dieci, dopo aver dato a Linda istruzioni per il pranzo. Al volante della Balilla percorse il viale fino al cancello, ma lì si ricordò che doveva cambiare una cravatta di Gualtiero in un negozio del centro. Parcheggiò in strada e tornò indietro a piedi.

Aprì con le chiavi e salì al piano superiore; lo spesso tappeto che copriva i gradini soffocava il rumore dei suoi passi. Nell’udire la voce di Linda che proveniva dall’alto, interrotta ogni tanto dalle scariche tipiche di una ricetrasmittente, Olimpia si fermò nel corridoio. Fece qualche passo e si accorse che la botola che immetteva nel solaio era aperta; era da lì che la ragazza stava parlando. Si immobilizzò allarmata.

«Domani mattina» diceva Linda. «Sì, all’alba. Ci sarà un rastrellamento a Peschiera, nelle case dietro la stazione. Passo.»

Olimpia si appiattì contro la parete come se l’altra potesse vederla.

«Poi» continuava la ragazza, ignara di essere ascoltata, «il colonnello Lang sta preparando una spedizione a Sarezzo e Zanano, proprio da voi, in Val Trompia. Ha saputo che ci sono case coloniche che vi danno asilo; mettete in salvo la gente per tempo. Passo.» E, udita la risposta: «No, per ora non so altro. Ma il 7 sera torneranno, e il giorno dopo richiamerò. Passo. Sì, sto attenta. Naturale, chiamo solo quando la signora è uscita. Certo, nessuno mi sospetta».

La “signora” aveva sentito abbastanza.

Olimpia uscì di nuovo silenziosa, percorse il giardino nebbioso inoltrandosi tra i cespugli per non esporsi e affrontò la discesa con il motore in folle per non fare rumore. Era allibita. Una spia partigiana in casa sua! E pensare che era stata raccomandata dal vescovo! Che fare?

La indignava che Linda l’avesse fatta franca per tanto tempo, che avesse finto di essere una povera ragazza semplice, quando invece capiva il tedesco alla perfezione: doveva aver raccolto le informazioni origliando dalla cucina attigua al salone quando lei dormiva e gli ufficiali si scambiavano le notizie. Aveva nascosto una radio in solaio e chissà quante operazioni aveva mandato a monte! Ah, ma l’avrebbe pagata! Olimpia non amava essere presa in giro.

Senza nemmeno consultarsi con Gualtiero, che sarebbe rientrato solo la sera dopo, con la Balilla raggiunse il comando delle SS a Villa Albertazzi a Gardone e chiese del tenente Fritz Hierl. Il militare la ricevette con deferenza, la fece accomodare in ufficio, le offrì un buon caffè; poi, nel suo italiano stentato, le chiese che cosa l’avesse portata da lui.

«Non sapevo a chi rivolgermi» esordì Olimpia. «Il colonnello Morlacchi è fuori per due giorni e io mi trovo in una grave situazione.»

«Lei è una brava italiana e una fedele alleata» si complimentò il tenente alla fine del racconto. «Ha fatto la cosa giusta. Ora tocca a noi rimediare.» E uscì di fretta dalla stanza.

Rientrò dopo una mezz’ora.

«Mi scusi per l’attesa.» Sorrise. «Ora lei deve fare una sola cosa: mi lasci le sue chiavi di casa e non rientri alla villa prima delle otto di questa sera. Ci sarà una sentinella ad aspettarla.»

Quando alla sera rientrò, Olimpia trovò la casa in perfetto ordine. Linda era sparita, la sua stanza completamente svuotata degli effetti personali. Sembrava che la ragazza non fosse mai esistita.

Olimpia consumò una cena malinconica, rallegrata solo dal pensiero dei complimenti che le avrebbe fatto Gualtiero al suo ritorno.

«Cosa ti è venuto in mente di fare?» la affrontò il colonnello il giorno dopo, afferrandola per le braccia e scuotendola con rabbia.

Olimpia non lo aveva mai visto così, pallido in volto, le vene del collo gonfie.

«Ho fatto il mio dovere» gli tenne testa. «Potevo tollerare una spia partigiana in casa mia, anzi in casa tua? Se l’avessero scoperta i tedeschi potevamo andarci di mezzo noi…»

«Ma non potevi aspettare che ritornassi?» Gualtiero ormai urlava fuori di sé. «Cos’è questo zelo filotedesco? Quando mai ti sei interessata di politica?»

«Non ti capisco»

«Allora mi spiego: lo sai cosa fanno i tedeschi alle spie partigiane? Hanno già portato Linda a Milano, a Villa Triste, e la stanno interrogando quegli assassini della banda di Koch, che si divertono a torturare i prigionieri. Io ero a Milano e sono stato avvertito questa mattina. Sono corso a Villa Triste per vedere se potevo almeno salvarle la vita. L’ho trovata nei sotterranei, nuda, tutta insanguinata, la stavano staccando dalla fune alla quale era appesa per le braccia.»

Olimpia fece una smorfia di disgusto.

«L’avevano bastonata» continuò Gualtiero. «Le avevano spento addosso le sigarette, ma lei non aveva ancora parlato, non aveva fatto i nomi dei suoi compagni. L’aguzzino che la sorvegliava mi ha informato che oggi le avrebbero applicato la corrente elettrica, e allora avrebbe parlato di sicuro.» Morlacchi ingollò in un solo sorso un bicchiere di cognac.

«E tu cosa avresti fatto?» chiese Olimpia in tono di sfida.

«Io? È molto semplice: con una scusa qualsiasi l’avrei licenziata. Nessuno avrebbe saputo nulla e lei non avrebbe più passato informazioni.»

«Ma cosa sei? Un partigiano anche tu?»

«No, sono un italiano, e non mi va bene che i miei compatrioti siano torturati e uccisi solo perché vogliono evitare i massacri per mano dei tedeschi e dei fanatici. Non so come abbia potuto farsi raccomandare dal vescovo, ma Linda non era qui per organizzare sabotaggi: l’hai sentita tu stessa. Spiava solo per mettere in guardia la sua gente dalle spedizioni punitive. Non ha mai fatto del male. E adesso morirà nel modo più atroce, e sarà colpa tua.»

«Ma il tuo incarico ti impone di scoprire i partigiani» tentò di difendersi Olimpia.

«L’ho accettato perché da questa posizione se proprio non posso evitare ogni spargimento di sangue, almeno, sollecitando quando posso le informazioni, evito qualche strage di civili, salvo qualche vita. E proprio tu, in casa mia, hai infierito su una poveretta che non lo meritava.»

E se ne andò in camera da letto chiudendo a chiave la porta.

Olimpia quella notte la passò meditando nella stanza che era stata di Linda, senza capire nulla dell’anima dell’uomo che aveva creduto di amare.