CAPITOLO 13

UN PAIO DI FORBICI

In realtà Olimpia ne aveva eccome di motivi per negare la sua visita a Pina. Sapeva fin dal primo momento che sarebbe stata interrogata, ma non aveva immaginato di essere sospettata. Quel giovane commissario era astuto e pericoloso, del tutto impermeabile alla soggezione che la sua posizione incuteva ai più.

Riandò col pensiero a quella sera, era il 13 ottobre 1980, di cui ricordava ogni minimo particolare. Era sicura di non aver commesso errori, di non aver lasciato tracce.

Verso le sei Olimpia era arrivata di ottimo umore sull’alzaia del Naviglio Pavese.

L’odore della nebbia le piaceva fin da bambina, quando su Milano scendeva così fitta che avvolgeva case, strade, alberi, come fosse bambagia, e faceva smarrire la gente nei suoi percorsi quotidiani. Poi la nebbia era stata dissolta dall’asfalto che ora copriva le vie d’acqua e dai casermoni di periferia spuntati da un giorno all’altro come funghi giganteschi dove prima c’erano i prati. Ormai si alzava solo in autunno, dai navigli, come un leggero velo di garza.

Ed era per immergersi in quella garza che quando andava da Pina Accorsi, la sua sarta, Olimpia Aldrovandi invece dell’auto preferiva prendere il tram fino a Porta Ticinese e proseguire a piedi.

Camminando in riva alla Darsena e piegando poi lungo il Naviglio Pavese, le piaceva cogliere i contorni sfumati degli edifici, ascoltare i rumori attutiti, annusare gli odori della Milano della sua infanzia, anche se di quel periodo aveva poco da rimpiangere.

In quella zona la città era poco cambiata: erano stati aperti ristoranti e locali alla moda, ma c’erano ancora i palazzotti dell’Ottocento che dai portoni spalancati lasciavano correre lo sguardo per qualche centinaio di metri all’interno. Nell’ultima luce della sera si scorgeva un susseguirsi di cortili mal tenuti circondati da edifici cadenti, con androni bui e scale che portavano alle ringhiere esterne, su cui si aprivano le porte dei piccoli alloggi popolari.

In altri quartieri di Milano le case di ringhiera erano diventate di moda e, snaturate con finiture di lusso che non avevano mai conosciuto, attiravano una fauna di stilisti, scrittori, intellettuali. Ma sui navigli, chissà perché, nell’ottobre del 1980 erano ancora come ai tempi in cui Olimpia era un’adolescente e passava per quei cortili facendo sospirare numerosi ammiratori.

Quella sera l’androne del palazzo era insolitamente deserto, a parte un ragazzo che Olimpia incontrò mentre usciva frettoloso. Nel primo cortile alcune lampade erano già accese dietro le tende, il secondo era buio e lei si sorprese a pensare che qualcuno avrebbe potuto rapinarla. Ma non aveva paura: si ricordava ancora bene come mettere a posto un aggressore. Del resto la mala di Milano si era spostata nei quartieri di periferia, e ormai in molti alloggi delle case di ringhiera si era stabilita gente nuova, studenti che venivano da fuori, giovani coppie con pochi soldi, famiglie di impiegati del sud.

Olimpia infilò le scale fiocamente illuminate fino al secondo piano, percorse un tratto di ringhiera e suonò a un portoncino dipinto di blu.

«Si accomodi, signora contessa» esclamò Pina in tono alto, con voce leggermente nasale, mentre apriva e la faceva entrare in un grande salotto comodamente arredato e richiudeva la porta a chiave. Piccola e rotondetta, aveva il solito sorriso entusiasta stampato sul volto. «Sempre puntuale, lei. Posso offrirle un caffè?»

«Ma sì, Pina, grazie, lo prendo volentieri, così mi riscaldo un poco. Ho portato la stoffa per l’abito della prima alla Scala; è uno splendore, tutta di paillettes d’argento, l’ultima moda, come ti avevo anticipato per telefono.»

«E io ho pronto il modello in tela da provarle, così tagliando non rischio di sbagliare.»

Olimpia si liberò della giacca di cammello, sedette su uno dei due soffici divani di pelle nera e si guardò intorno apprezzando il garbo con cui erano disposti i mobili ben tenuti, illuminati da lampade posizionate sapientemente per creare un’atmosfera intima. Una vecchia madia tirata a cera era sovrastata da un grande quadro antico di un certo valore raffigurante un mare in tempesta solcato da due velieri.

«Quando ti deciderai, Pina, a trasferirti in un caseggiato più elegante?» chiese Olimpia mentre Pina trotterellava verso il retro e voltava a sinistra, in direzione della cucina.

«Di qui non me ne vado, contessa» obiettò la sarta tornando in salotto. «A questo posto sono legati troppi ricordi. Non è per i soldi: lei sa che ho un appartamento affittato in corso Buenos Aires, ma questa è stata la mia prima casa, quando nel dopoguerra mio marito buonanima mi ha sposato e condotto qui da Roma. Allora eravamo poveri, ma qui siamo stati felici, e quando il suo lavoro di elettricista ha incominciato a rendere abbiamo comperato gli alloggi vicini e ci siamo fatti una bella casa, ma non abbiamo mai voluto traslocare, perché questo posto ci portava fortuna. Poi lui è morto troppo presto, e io, ecco, avrei l’impressione di tradirlo se me ne andassi.»

«Forse hai ragione, Pina» convenne la contessa improvvisamente pensosa. «Forse vivere sempre in salita… non ne vale la pena…»

Pina era arrivata dalla cucina reggendo un vassoio d’argento con le chicchere di porcellana del servizio buono colme di caffè fumante. La contessa Aldrovandi era una vecchia cliente, si conoscevano da oltre dieci anni, ma era pur sempre una contessa, e della più ricche di Milano, e Pina ci teneva a fare la sua figura.

«Eh, ne abbiamo fatti di sacrifici, Pietro e io, quando eravamo giovani… Lei non può nemmeno immaginare cos’è la miseria!» continuava Pina, che ormai si era abbandonata ai ricordi e quando cominciava a rievocare il passato, Olimpia lo sapeva, non la fermava più nessuno, anzi spesso finiva con qualche lacrima. La poveretta credeva che lei fosse nata contessa. Se avesse saputo… Ma era meglio che non sapesse, visto che lei aveva speso l’ultima metà della vita a cancellare la prima.

Dopo il caffè Olimpia si accese una sigaretta mentre esaminava il disegno del modello che la sarta le proponeva.

«Non ti sembra troppo scollato dietro? Tutta la schiena rimane scoperta.»

«Ma lei se lo può permettere, contessa, ha una figura perfetta, e il drappeggio sul dietro si armonizza con lo strascico. Basteranno i suoi orecchini pendenti di diamanti e sarà la più elegante, come sempre.»

«D’accordo, Pina, vediamo il modello addosso.»

La sarta la fece accomodare oltre un disimpegno nel salottino di prova di fianco alla cucina, dove su un manichino era già drappeggiato il modello in tela dell’abito, un modello da regina, non c’era dubbio. Olimpia provò un moto di orgoglio a raffigurarsi nel palco così vestita. Appoggiò su un divanetto la preziosa stoffa d’argento.

«Per favore, contessa, tolga anche la sottoveste, perché non vorrei strapparla con gli spilli o tagliarla con le forbici» raccomandò Pina mentre armeggiava con un lungo paio di cesoie per scucire il modello dal manichino.

Olimpia obbedì, appoggiò abito e sottoveste sul divano e rimase in piedi sul tappeto con le mutandine e il reggiseno di seta azzurra, finemente ricamati.

La prova ebbe inizio, con Pina che le danzava intorno con la bocca piena di spilli, forzatamente silenziosa, mentre adattava il modello alla sua figura, e Olimpia che si rimirava con attenzione nel lungo specchio.

In capo a una ventina di minuti erano entrambe soddisfatte.

«Ecco, contessa» concluse Pina. «L’aiuto a togliersi il modello perché non si punga con gli spilli.» E così dicendo cominciò con delicatezza a svestirla.

Il torso era già libero, quando con un movimento inavvertito la sarta strattonò la gonna, calandola insieme alle mutandine di seta rimaste agganciate a uno spillo. Il ventre di Olimpia rimase nudo, rivelando, appena sopra il pube, un curioso angioma marrone scuro a forma di cuore.

Pina spalancò gli occhi ingenui, incredula. Poi eruppe in un fiume di parole: «Che strano, contessa, non avevo mai visto la sua voglia: ha la forma di un cuore, sembra un portafortuna! Lo sa che mi ricorda qualcosa? Aspetti, mi viene in mente…» continuò indiscreta, senza accorgersi che l’altra donna era rimasta indispettita. «Sì, ecco, adesso mi ricordo! Quando ero ragazzina a Roma, qualche volta andavo a Cinecittà; sa, nella mia sartoria facevamo anche i costumi di scena per i film…»

«Va bene, Pina, me lo racconti un’altra volta, ora devo andare» la interruppe Olimpia improvvisamente sbiancata, con la gola contratta e la voce spezzata, in preda a un turbamento che a un interlocutore più attento non sarebbe sfuggito.

«Un giorno» continuava imperterrita Pina, ormai lanciata tra i suoi ricordi come un siluro impazzito, «dovevamo provare un abito a una giovane attrice… non mi viene il nome… era una bella bionda. Era anche l’amante… noi ragazze lo sapevamo ma non si doveva dire… di un gerarca fascista di cui non si è saputo più nulla. E lei, quest’attrice, aveva una voglia proprio come la sua, nella stessa posizione…»

«Una combinazione, può capitare» balbettò Olimpia, sempre più pallida. «Ma adesso lasciami rivestire.» E liberate dallo spillo le mutandine di seta, si affrettò a ricoprirsi il ventre.

«Però che strano!» continuava Pina, che aveva perso la nozione del presente. «Adesso la ricordo bene: era alta come lei, con un portamento di classe e gli occhi verdi come i suoi, solo che aveva i capelli platinati, come si usava allora. Chissà che fine ha fatto, nei film non si è più vista. Magari lei l’ha conosciuta» insisteva senza un filo di logica, mentre, china ai piedi di Olimpia, continuava ad armeggiare sulla tela. Poi il collegamento scattò improvviso nella sua mente. «Oddio, contessa… era lei… non volevo… mi perdoni!»

Pina si mise meccanicamente fra le labbra gli spilli che aveva in mano e alzò gli occhi terrorizzati a guardare il viso di Olimpia, che si era fatto di ghiaccio, mentre il cuore le martellava nel petto.

Come si dice che capiti in punto di morte, in quel momento a Olimpia tutta la vita passò davanti agli occhi come in un film: la fatica, le umiliazioni di anni, le paure e infine l’ascesa, luminosa, e finalmente la tranquillità. E adesso quella stupida rimetteva tutto in gioco, andava a rivangare il suo passato, poteva rovinarla.

«Non dirò niente a nessuno, ci può giurare» continuava a balbettare Pina sempre china ai suoi piedi, il viso sollevato verso di lei lucido di sudore, qualche spillo all’angolo della bocca. «Nessuno saprà nulla, anche se non c’è niente di male ad aver fatto del cinema.» La assolveva goffamente, del tutto inconsapevole dei pericoli di quel segreto. Una grossa vena le pulsava nel collo.

Olimpia si riscosse. Contemplava affascinata quella vena pulsante in cui scorreva la vita di Pina, e lo sguardo le cadde sulle lunghe forbici appuntite posate sul divano. Le scese addosso una calma profonda. Gelida, afferrò le forbici aperte con un movimento sicuro, senza tremare.

Quando le piantò nel collo di Pina, quasi non avvertì la resistenza della carne, vide solo il violento fiotto di sangue che si spargeva sul tappeto; fece in tempo a saltare istintivamente indietro, ma qualche goccia le spruzzò sulle gambe.

La povera Pina emise un sordo gorgoglio e si afflosciò a terra sulla tela appena smontata.

Olimpia rimase a lungo immobile, con la testa vuota. L’unica preoccupazione assurda che le martellava in mente era come avrebbe potuto procurarsi in tempo l’abito per la serata alla Scala.

Poi si riscosse e ritornò al presente, mise a fuoco la scena: Pina era morta di sicuro, non era il primo cadavere in cui si imbattesse. Il suo abbandono, così raggomitolata a terra, gli occhi semiaperti, il sangue che non sgorgava più dalla ferita, in cui le forbici erano rimaste piantate, erano segni inequivocabili. Doveva essere morta quasi subito, si trovò a considerare, e provò un moto di pietà per la sua vittima.

Si guardò intorno: il sangue le aveva macchiato le gambe e una spruzzata era arrivata sul divano a imbrattare la bella stoffa di paillettes argentate, formando una macabra rosa rossa; due spilli erano rimasti penzolanti dalle labbra della Pina; una mano era abbandonata sul tappeto, l’altra stringeva ancora il modello di tela che giaceva sotto di lei, anch’esso sporco di sangue.

Olimpia si accorse che il cuore aveva ripreso a martellarle nel petto e, con uno sforzo di volontà, si impose la calma. Le cose erano andate così e adesso bisognava rimediare. L’importante era non commettere errori, cancellare tutti gli indizi della sua presenza, mistificare gli avvenimenti e farlo bene, perché la Polizia non era più quella di una volta: adesso gli investigatori usavano metodi scientifici e non guardavano in faccia nessuno. C’era bisogno di un piano che reggesse e di un po’ di tempo per confondere le tracce.

Le sembrò di tornare ai tempi della sua gioventù, ritrovò la freddezza di allora e passò all’azione.

Indossò la sottoveste rimasta miracolosamente intatta, alzò gli occhi alla finestra che dava sul cavedio posteriore e notò che le tapparelle erano già state abbassate. In soggiorno spense le lampade, in modo che chi guardasse da fuori potesse credere che in casa non c’era nessuno. Passando tra i divani raccattò le sigarette e il portacenere, con cura si chiuse alle spalle la porta di comunicazione perché non trapelasse luce e si diresse in cucina.

Anche qui la finestra era chiusa e Olimpia poté illuminare l’ambiente; si sedette al tavolo e si accese una sigaretta guardandosi intorno; le venne spontaneo apprezzare l’ordine meticoloso del locale, le superfici scintillanti dei mobili laccati di bianco, gli scaffali con i barattoli perfettamente allineati. Unico segno del suo passaggio, la macchinetta del caffè sul fornello spento.

Guardò l’ora sul suo Piaget: le sette. Si diede tempo fino alle otto per risolvere il problema. Pina non aveva figli, solo una sorella che abitava a Roma e due amiche di cui parlava spesso; era improbabile che attendesse qualcuno per cena poiché la cucina non rivelava tracce di un pasto in preparazione, e i vicini che si fossero fatti vivi casualmente sarebbero stati depistati dalla casa buia e avrebbero creduto che fosse uscita.

Che Pina fosse morta ammazzata era un fatto che non si poteva nascondere. Delitto era e delitto sarebbe apparso agli occhi della Polizia; la sua via d’uscita era che la colpa ricadesse su qualcun altro.

La cosa più semplice era simulare una rapina finita tragicamente; in fondo tutti i giorni, bastava leggere i giornali, ladruncoli, zingari, drogati si introducevano nelle case per rubare. Pina poteva aver lasciato la porta aperta per distrazione e aver sorpreso un ladro che, persa la testa, l’aveva uccisa con la prima arma sotto mano, appunto un paio di forbici. Sì, la cosa poteva andare: bastava buttare all’aria i cassetti e far sparire qualche gioiellino.

Però c’era un altro problema da risolvere, più complicato: cancellare le proprie tracce, tutto ciò che avrebbe potuto portare a lei. Olimpia non si faceva illusioni, sapeva bene che la Polizia l’avrebbe interrogata, perché Pina aveva poche clienti e poche conoscenze in generale, e il suo nome, completo di indirizzo e telefono, era sulla rubrica degli appuntamenti, dove spiccava col titolo di contessa, di cui la sarta andava orgogliosa.

Non era il caso di far sparire la rubrica: sarebbe stato come guidare su di lei l’attenzione della Polizia, perché chissà con quanta gente Pina si era vantata di averla per cliente, e forse qualche amica era al corrente del suo appuntamento, che, a proposito, doveva in qualche modo fingere di avere annullato. Per fortuna arrivando non aveva incontrato nessuno in cortile.

Doveva muoversi, per predisporre con calma la scena del delitto. Prima cosa, cancellare le impronte digitali: Olimpia si alzò e provò un moto di disgusto osservando sulle gambe le macchie di sangue. Indossò i guanti di gomma di Pina appoggiati di fianco all’acquaio e trovò in un cassetto due sacchetti di plastica che infilò l’uno dentro l’altro per avere un contenitore robusto per ciò che sarebbe stato necessario portare via. Inumidì lo strofinaccio che pendeva da un gancio e si pulì con cura le calze e le gambe, vuotò nel sacchetto il posacenere, lo pose nell’acquaio e rimise a posto la sedia.

Tornò in soggiorno cercando di ricordare che cosa potesse aver toccato; alla poca luce che proveniva dall’esterno raccolse il vassoio con le tazzine e lo posò sul ripiano della cucina. Trovò in un cassetto un altro strofinaccio, lo inumidì e lo passò sulla pelle del divano e, per eccesso di precauzione, sul tavolino di vetro e sulle maniglie delle porte.

Ora bisognava nascondere il fatto che Pina aveva ricevuto qualcuno. Olimpia lavò e asciugò con cura le tazzine e il posacenere. Quest’ultimo, se lo ricordava bene, stava sul tavolino in salotto. Aprendo gli sportelli scoprì il posto delle tazzine e della zuccheriera, rimise nel cassetto i cucchiaini, e il vassoio finì sulla rastrelliera che ne conteneva altri.

Maledetto destino, pensava mentre lavorava alacremente. Come le era venuto in mente di scegliersi come sarta proprio la Accorsi, che era a Roma prima della guerra? Colpa della sua innata tendenza a risparmiare, che non era mai riuscita a togliersi di dosso dai tempi in cui faceva la fame. Poteva permettersi le sartorie più rinomate, e invece si divertiva a spendere come un’impiegatina. Del resto che ne sapeva lei che Pina da ragazzina aveva lavorato per Cinecittà? Se glielo avesse detto, con una scusa si sarebbe rapidamente eclissata dal suo orizzonte.

Non si vergognava certo di aver fatto del cinema, no. Ormai anche le nobildonne di nascita facevano a gara per mettersi davanti alla macchina da presa, e perfino l’ex imperatrice Soraya aveva fatto un film, un brutto film, fra l’altro. Nessun salotto avrebbe messo al bando la contessa Aldrovandi per un paio di filmetti d’anteguerra. No, il guaio era che Pina conosceva la sua storia con Gualtiero.

E lei che credeva fosse restata un segreto! Era sicura che nell’ambiente del cinema non se ne fosse mai parlato, perché, anche se la relazione era durata anni, loro due erano stati molto attenti: Gualtiero era un potente del regime, e nessuno, anche avesse avuto qualche sospetto, osava scontrarsi con lui.

Olimpia era sicura che tra i suoi conoscenti la storia fosse rimasta in ombra, ma forse i domestici, i fornitori, il sottobosco di pettegoli dei locali di servizio parlavano. E dopo tanti anni doveva imbattersi proprio in una di costoro, dotata di ottima memoria, tanto da ricordare perfino quel suo maledetto angioma che, data la posizione, non era certo di dominio pubblico?

Ma quando era stato che Pina poteva averla vista? Forse nel ’40, quando girava La bella Margherita e la parte di una cantante le imponeva quegli abiti di satin fasciati che doveva indossare senza biancheria. Forse Pina era una delle ragazzine che aiutavano nelle prove, lei di certo non la ricordava.

Però che bei tempi erano quelli! Giovanissima, bellissima, potente, era convinta di avere il mondo nelle sue mani; e c’era l’amore, il suo grande amore. Finito così tragicamente…

Si riscosse e tornò al presente. Si rese conto con un brivido che il vero incubo non era la possibilità che Pina raccontasse dei suoi amori con un gerarca e del suo coinvolgimento con il regime. No. Il pericolo era che di salotto in salotto la voce arrivasse alle orecchie di qualche poliziotto o magistrato che ricordasse la fine misteriosa di Gualtiero e dei suoi potenti amici, un dramma dei tempi della Repubblica di Salò che non era mai stato risolto.

Quindi ricerche più approfondite di quelle che erano state condotte alla fine della guerra potevano portare alla luce che nel gruppo c’era anche una donna di cui non si era mai parlato, tanto bene aveva fatto perdere le sue tracce.

E c’era molto altro che poteva riemergere dal passato, se avessero cominciato a indagare su di lei…

Tutto per colpa di un maledetto spillo.

Restava da ripulire il salottino. L’aveva lasciato per ultimo perché Olimpia provava una certa ripugnanza a entrarvi, ma non poteva indugiare oltre. La sarta giaceva nell’abbandono della morte, pallida, con gli occhi semiaperti. Povera Pina! Anche lei era stata vittima di quella serie diabolica di coincidenze. Se solo non avesse avuto quella smania di rivangare il passato, se la sua memoria si fosse col tempo indebolita, se, se, se… Tutto sommato, era meglio che avesse parlato, che non fosse riuscita a trattenere la meraviglia del riconoscimento. Se fosse stata zitta con lei e poi ne avesse riferito a chissà chi, avrebbe potuto, a sua insaputa, chiacchierona com’era, far circolare la voce.

Ma avrebbe davvero parlato? O un istinto naturale e la riverenza verso il nome degli Aldrovandi le avrebbero suggerito che non era il caso di mettere in giro certe storie? E se anche avesse parlato, con chi poteva farlo? Con la sorella, le amiche, tutta gente che non frequentava le alte sfere della Giustizia. E una volta sparsa la voce, chi le avrebbe creduto? Olimpia cominciava a pensare di essere stata troppo impulsiva, di avere ucciso inutilmente. Ma ormai era tardi per pentirsi, c’era tempo solo per rimediare, e ce n’era poco.

Le tracce, per prima cosa.

Nel salottino erano tante: la stoffa macchiata di sangue, il modello dell’abito e il disegno, che potevano far risalire alla sua visita. Con le mani guantate, infilò nel sacchetto la cartellina del disegno e la stoffa luccicante e con delicatezza sfilò la tela del modello da sotto il cadavere. Si rese conto che in questo modo avrebbe alterato la rosa degli spruzzi di sangue, ma non poteva fare diversamente: la Polizia avrebbe pensato che Pina si fosse aggrappata, chissà, alla giacca dell’assassino.

Sulla bocca della sarta erano rimasti due spilli, e con ripugnanza Olimpia si chinò a raccoglierli. Restavano le forbici, su cui potevano essere impresse le sue impronte. Le afferrò, chiuse gli occhi e tirò. Non vide il piccolo fiotto di sangue che usciva dalla ferita, ma dominò lo stesso a stento un conato di vomito. In fretta e d’istinto le nascose nel sacchetto.

Che avrebbe fatto di quella roba? Doveva ovviamente liberarsene, ma qual era il modo più sicuro? Dominando l’ansia decise che ci avrebbe pensato a suo tempo. Si guardò intorno: tutto appariva come doveva essere, era tempo di rivestirsi. Senza togliere i guanti, indossò il vestito con il quale era arrivata. Ora doveva organizzare la rapina.

Olimpia conosceva la casa: a destra del salottino un corridoietto portava al bagno, alla camera da letto e a un soggiorno con sala da pranzo dove Pina e il marito, quando questi era ancora vivo, passavano le serate.

Lì la sarta teneva il denaro in un cassetto della credenza: non c’era molto, solo duecentomila lire. Olimpia finse di dimenticare una banconota da diecimila, come avrebbe potuto fare un ladro frettoloso, e prese il resto infilandolo nel sacchetto, poi passò in camera.

Sapeva che Pina teneva i gioielli in un cofanetto nell’armadio, qualche volta glieli aveva mostrati. Non fu difficile trovarlo. Fu presa dal rimorso quando contemplò le piccole cose della sua vittima: un paio di collane d’oro, qualche anellino, gli orecchini antichi che erano l’orgoglio di Pina perché ereditati dalla nonna, la fede del marito. Chiuse gli occhi e fece sparire tutto nel sacchetto.

Sul letto c’era la borsa. Estrasse un po’ di monete dal portafoglio, che lasciò aperto sulla coperta come avrebbe fatto un ladro preso dal panico. Quindi si impose di aprire i cassetti, frugando tra la biancheria come un malvivente in cerca di denaro; ne lasciò alcuni semichiusi.

Pensò che ormai la stanza aveva davvero l’aria di essere stata visitata dai ladri. Erano quasi le otto e doveva affrettarsi.

Indossò la giacca, mise il sacchetto nella capace borsa, aggiunse gli strofinacci, spense tutte le luci, uscì sulla ringhiera, che era l’ultima del piano, divisa dalle altre con un cancelletto, e sostò un attimo.

La nebbia aveva bagnato il selciato. Intorno, alcune finestre illuminate, la voce di qualche televisore, gli strilli di un neonato, ma nessun passo per le scale.

Olimpia stava varcando in silenzio il cancelletto dopo aver chiuso a chiave la porta quando un pensiero la fulminò: il libro degli appuntamenti! Si era data tanta pena per eliminare le tracce della sua visita, e il suo nome era registrato senza possibilità di equivoci sull’agenda in cui Pina annotava scrupolosamente gli impegni. Eppure era una delle prime cose a cui aveva pensato, come aveva potuto dimenticarsene?

Niente da fare, bisognava tornare indietro. Per la prima volta fu assalita dalla paura e si accorse di tremare: sentiva quella dimenticanza come un infausto presagio.

Quali altre tracce aveva potuto lasciarsi dietro, lei che non aveva mai commesso passi falsi? Aveva dimenticato qualche altra cosa che potesse orientare su di lei l’attenzione degli inquirenti? Che avrebbe potuto indurre la Polizia, maniacale nella conservazione dei fascicoli con le documentazioni più remote, a scavare a fondo nel suo passato?

Addossata al muro della ringhiera, calzando ancora i guanti di gomma, Olimpia raggiunse di nuovo il portoncino, lo aprì, si infilò in casa e lo chiuse rapidamente alle spalle. Urtò con il piede qualcosa di morbido: le pattine di feltro di Pina. Le tornavano utili per non lasciare impronte bagnate.

Scivolando nel barlume di luce che proveniva dal portoncino a vetri, raggiunse il salottino di prova. Si fece forza e accese la luce, trovandosi di nuovo al cospetto della vittima. Cercando di evitare le macchie di sangue raggiunse il grande armadio dove sapeva che era custodita l’agenda. L’aprì alla pagina del giorno, lunedì 13 ottobre 1980, ed ecco lì il suo nome, con l’ora esatta dell’appuntamento, che l’accusava implacabilmente.

Cosa fare? Cancellarlo, neanche a parlarne; e poi come si cancella l’inchiostro di una penna a sfera? Strappare la pagina era come richiamare l’attenzione su una delle clienti. Bisognava fingere che l’appuntamento fosse stato annullato.

Olimpia sfogliò qualche pagina e si accorse che Pina aveva l’abitudine di tracciare una riga sul nome, forse proprio quando una cliente rimandava un appuntamento, e la penna era attaccata all’agenda con un nastrino.

Fu un attimo imprimere sul suo nome un segno uguale agli altri e riporre tutto nell’armadio; avrebbe pensato poi, in caso di necessità, a cosa inventare con la Polizia per giustificare la sua disdetta.

Spense di nuovo la luce e si apprestò veloce a raggiungere l’uscita. Si sentiva già in salvo, vicino alla porta, quando il cuore le si fermò nel petto: un’ombra femminile era apparsa dietro il vetro e subito una scampanellata sembrò rimbombare nel silenzio sepolcrale della casa. Sciagurata sfortuna, imprecò Olimpia. O forse no… Un momento più tardi, e si sarebbe imbattuta nella visitatrice uscendo di casa. Doveva solo stare immobile e l’importuna se ne sarebbe andata.

«Pina!» Sentì una voce femminile che chiamava. «Pina, sei in bagno?» E un’altra scampanellata ruppe il silenzio.

Maledetta puttana! pensava Olimpia. Smettila di fare tutto questo chiasso! Non era proprio il caso che si radunasse una comitiva di vicini ad argomentare davanti alla porta sul perché a quell’ora Pina non fosse in casa!

Una terza scampanellata. Poi un lungo silenzio. La voce che mormorava: «Che strano!», e i passi che finalmente si allontanavano.

Olimpia attese una decina di minuti, poi cautamente socchiuse la porta per sentire tra i rumori di stoviglie e le voci dei televisori se qualcun altro stesse salendo. Chiuse la porta con le chiavi, le mise in borsa e si rifugiò rapidamente nel semibuio delle scale. Scese in fretta togliendosi finalmente i guanti di gomma e si ritrovò nell’ombra del cortile. Si diresse all’uscita rasentando il muro.

Era quasi nell’androne di ingresso dove il portone era ancora aperto, quando sentì un vociare proveniente da fuori. Rapida, si rifugiò nel sottoscala più vicino, attenta a non far cadere una bicicletta che qualcuno aveva appoggiato al muro. Poi, trattenendo il fiato, lasciò passare tre giovani che discutevano di calcio.

Finalmente fu fuori, sull’alzaia del naviglio, protetta dal buio e dalla nebbia che si levava dall’acqua.

Aveva un disperato bisogno di bere qualcosa di forte, ma non osava entrare in un bar: a quell’ora erano semivuoti e lei sapeva di essere il tipo di donna che sarebbe stata notata.

Desiderava solo trovarsi nel nido caldo della sua casa, a riordinare le idee, ma non aveva ancora finito di predisporre la sua difesa. Non poteva certo prendere un taxi a Porta Ticinese, rischiando che il tassista si ricordasse in seguito di lei: c’erano perfino alcuni guidatori pignoli che annotavano ogni corsa, con orario e indirizzi.

Il tram era la soluzione migliore. Si confuse tra la piccola folla che saliva sulla vettura della circonvallazione e scese in piazza Oberdan.

Sempre stringendo la borsa col suo macabro contenuto, percorse rapidamente un tratto di corso Venezia e alle otto e quarantacinque era a casa.

La sera si coricò senza aver quasi toccato cibo, e la notte fu una delle peggiori che ricordasse.

A tratti le pareva che una gelida mano di ferro le stringesse il cuore, a tratti per l’affanno le mancava il respiro e doveva sedersi sul letto. Si buttava in poltrona al buio, le appariva l’immagine di Pina nei suoi ultimi istanti e la assaliva un pianto convulso per la paura di essere smascherata. Constatò amaramente che non aveva più la freddezza della sua gioventù.

Desiderava più di tutto stordirsi di whisky, che il liquore le scendesse bruciante per la gola fino allo stomaco e attutisse il dolore, se lo portasse via, ma temeva, girando per casa, di svegliare e insospettire Antonia, la sua governante, che vedendola in quello stato l’avrebbe subissata di amorevoli domande a cui lei non poteva rispondere.

Verso le tre non resistette più e a piedi scalzi, al buio, raggiunse la cucina e si impadronì di una bottiglia di liquore, con la quale si chiuse in camera. Non voleva ubriacarsi, non se lo poteva permettere, ma mezzo bicchiere bastò per calmarla e ridarle una certa lucidità di pensiero.

Era meglio guardare in faccia la realtà. Non era sufficiente che, a un’indagine di Polizia, lei risultasse sospettabile ma senza prove concrete per incriminarla: Olimpia Cavenaghi, contessa Aldrovandi, doveva essere, come la moglie di Cesare, al di sopra di ogni sospetto.

Di nuovo si disse che la Polizia adesso era molto diversa da quella degli anni del fascismo, inquinata da funzionari ignoranti, spesso dediti solo al partito, che si servivano di delatori ma non sapevano mettere insieme un’indagine. Ora c’era gente colta e preparata, i metodi scientifici si erano affinati, e un commissario sveglio che avesse nutrito qualche sospetto nei suoi confronti (purtroppo, all’ora del delitto, c’era il suo nome segnato su quella maledetta agenda) avrebbe potuto incuriosirsi e indagare su di lei.

Per l’ennesima volta si chiese se si fosse lasciata indizi alle spalle. Si costrinse a ripercorrere momento per momento tutte le mosse della sera precedente e non le parve di aver dimenticato nulla finalizzato a sviare gli investigatori.

Certo, doveva procurarsi un alibi, perché era sicura che sarebbe stata interrogata, anche se si aspettava ogni riguardo: in fin dei conti nei salotti di Milano frequentava le autorità cittadine, dirigeva con competenza e pugno di ferro la fabbrica di elettrodomestici che aveva ereditato dal marito, la sua vita privata era ineccepibile. Poteva spezzare una lancia in suo favore perfino il cardinale, data la sua generosità nelle opere di beneficenza della diocesi.

La giornata che l’aspettava era gravida di incognite e problemi da risolvere.

Doveva acquistare un altro taglio di tessuto simile a quello che si era macchiato di sangue, perché Pina poteva aver raccontato a qualche amica che si apprestava a confezionarle un abito di paillettes d’argento per la Scala, e il negozio di piazza Duomo, dove era ben conosciuta, avrebbe testimoniato di averle già venduto la stoffa. Non poteva andare da Galbiati a comprarne un altro taglio: sarebbe parso strano.

L’unica soluzione era recarsi in incognito a Torino, in qualche negozio un po’ defilato ma con articoli eleganti (ne conosceva giusto uno dalle parti della direzione della FIAT) e sperare di trovarvi ciò che cercava.

E doveva muoversi al più presto, subito la mattina, perché, per quello che ne sapeva, il cadavere poteva essere già stato scoperto e la Polizia essere al lavoro da ore a interrogare i conoscenti di Pina.

C’era da pensare all’alibi. L’idea migliore era raccontare che le era venuta voglia di andare al cinema e aveva disdetto l’appuntamento con la sarta. Una cosa banale e naturale, in fondo si sa che le signore ricche sono spesso capricciose. Ma al cinema, meglio se a Torino, avrebbe dovuto andarci davvero: quanti colpevoli erano stati smascherati per non aver saputo raccontare la trama di un film?

Poi, cos’altro c’era da fare? Preferiva non pensarci, ma doveva liberarsi del sacchetto con le prove del delitto, che stava ancora nella sua borsa chiusa a chiave nell’armadio.

Un cassonetto della spazzatura? No, no, meglio una soluzione diversa: il contenuto avrebbe potuto venire alla luce in una discarica anche giorni dopo e attirare l’attenzione di qualcuno, con tutto quel sangue. E lei, temendo questa eventualità, non avrebbe avuto pace per mesi.

Seppellire il sacchetto in campagna, in mezzo ai cespugli? Non era una buona idea, perché non sapeva dove e con quali attrezzi fare una fossa, poi qualcuno avrebbe potuto scorgerla.

Ecco l’idea giusta, e di nuovo a Torino: il Po, in un punto deserto del parco del Valentino, dove l’acqua fosse profonda, con qualche grossa pietra ad appesantire l’involucro, perché affondasse lentamente col tempo nel letto del fiume. Questa era la soluzione migliore.

E intanto doveva mantenersi tranquilla, sembrare quella di sempre, non destare sospetti.

Con questo programma ben preciso in testa si sentì più calma e padrona della situazione. Alle otto, come sempre, si infilò sotto la doccia calda, si truccò cancellando le impronte della nottataccia, si vestì come al solito con cura e alle nove era al tavolo della colazione, sotto gli occhi scrutatori di Antonia.

«Dormito bene, contessa?» si informò l’anziana donna che dirigeva la casa dai tempi in cui suo marito era ancora vivo. «Ieri sera ha mangiato così poco che sono sicura che ha faticato a prendere sonno.» Avesse saputo quant’era vero! «Devo dire all’autista di tenersi pronto?»

«No, Antonia, oggi non vado in fabbrica; ho degli affari da sbrigare a Torino» rispose Olimpia mandando giù a fatica una tartina imburrata. Intanto guardava con impazienza il giornale ripiegato con cura sul tavolo, ma non voleva leggerlo subito, contrariamente alle sue abitudini. «Vado sola» precisò prima di dover dare altre spiegazioni. «Fai preparare la Lancia.» Meglio una macchina robusta, pensò.

«A Torino oggi?» replicò Antonia. «Ma lo sa che c’è una dimostrazione di dipendenti FIAT per quella storia dei licenziamenti? Non è meglio rimandare a domani? Oltretutto c’è brutto tempo e le previsioni danno pioggia e temporali.»

Cristo santo! pensò Olimpia. Dover discutere anche con la governante informata sulla politica e la meteorologia! Ma anche se aveva ragione, lei non poteva, proprio non poteva rinviare. «Fa’ come ti dico, Antonia» rispose laconica.

Sorseggiando il caffè si permise finalmente di dare un’occhiata al giornale: non c’era nulla. Il corpo quindi non era stato scoperto in serata, e questo la fece respirare più liberamente. Fino a quel momento aveva temuto una scampanellata e una visita improvvisa della Polizia, e non era ancora pronta.

Diede un’occhiata alla sua agenda e telefonò in fabbrica al direttore, per impartire alcune disposizioni.

Si accorse che nel primo pomeriggio aveva appuntamento con il suo ginecologo che da molto tempo non la vedeva. Telefonò per rimandare, sicura che al momento buono sarebbe stata rimproverata per la sua trascuratezza in fatto di salute, ma ora aveva ben altro per la testa.

Indossò un cappotto scuro, poco appariscente, afferrò la borsa col suo macabro contenuto, raggiunse in strada l’auto, si mise al volante e partì con un sospiro di sollievo.

Non era ancora mezzogiorno quando superò il casello di Torino e si immise in città per corso Giulio Cesare, sotto un cielo grigio e plumbeo.

C’era un’aria strana, una certa agitazione in giro, negozi chiusi, capannelli di gente sul marciapiede. Anche il mercato di Porta Palazzo era in tono minore, sembrava che quel giorno la gente non fosse interessata a fare la spesa.

Svoltò in corso Regina Margherita, anch’esso insolitamente deserto, per raggiungere il parco del Valentino, e si fermò in un bar per un caffè.

Un gruppetto di operai della FIAT in tuta discuteva animatamente. Le tornò in mente che la FIAT da più di un mese era in agitazione, da quando il nuovo amministratore delegato Cesare Romiti aveva decretato quattordicimila licenziamenti. In quell’occasione aveva ammirato il pugno di ferro dell’alto dirigente, proponendosi di fare anche lei qualche sfoltimento nell’organico della fabbrica: i tempi erano duri e nessuno si poteva permettere un esubero del personale.

Poi aveva seguito sui giornali la violenta reazione dei sindacati e degli operai, che in FIAT avevano preso a scioperare, invadendo più volte anche gli uffici e costringendo gli impiegati a uscire con le minacce, picchettando i cancelli di Rivalta e Mirafiori per impedire l’ingresso ai dissidenti. Tutto sommato si era rallegrata di non avere licenziato nessuno e di avere evitato situazioni estreme.

Romiti in seguito aveva tramutato i licenziamenti in ventitremila cassintegrazioni a zero ore, ma le agitazioni erano continuate.

Ora sentiva gli operai inferociti che discutevano di “venduti ai padroni”, minacciavano “gliela faremo vedere”, protestavano perché Lama, Carniti e Benvenuto, capi dei sindacati, avevano dato ordine di non creare scompigli.

Decise che doveva saperne di più. «Cosa sta succedendo?» chiese sottovoce alla barista, una bionda segaligna dall’aria sveglia.

«Si vede che viene da fuori» rispose anche lei a bassa voce. «Qui da ieri non si parla d’altro. È in corso una marcia di protesta dei quadri della FIAT, impiegati, capi reparto, direttori, che sono stanchi di scioperi e minacce e vogliono tornare a lavorare. Sembra che siano migliaia, hanno invaso il centro, e i gruppi si ingrossano a ogni momento. Chi se lo sarebbe aspettato? Manifestano contro i sindacati! Per ora gli operai stanno a guardare e non sono successi disordini, ma il clima è rovente.»

La prese un moto di stizza pensando che doveva capitarle anche questo, come del resto le aveva profetizzato Antonia. Tornò a chiedere: «Che strada fanno?».

«Sono partiti dal Teatro Nuovo, poi per corso d’Azeglio hanno raggiunto corso Marconi, davanti alla direzione FIAT, e adesso stanno imboccando via Nizza per andare a Mirafiori.»

Olimpia sospirò: la strada del Valentino era già sgombra. In auto raggiunse il Lungo Po, parcheggiò all’ingresso del parco e si inoltrò per i sentieri. Si accorse subito che il parco era presidiato da numerosi poliziotti, molti in borghese ma ugualmente ben riconoscibili. Se l’avessero fermata avrebbe detto che aspettava che si allontanasse il corteo per attraversare la città, diretta in centro a fare spese.

Dovette camminare parecchio, fin oltre il Borgo Medievale, prima di trovare una zona deserta vicino al fiume. Ben nascosta dietro un cespuglio, osò estrarre dalla borsa il sacchetto e infilarlo in un altro che si era procurata in casa. Vi aggiunse alcune grosse pietre raccattate da terra e finalmente, guardandosi intorno per accertarsi di essere sola, buttò l’involto nell’acqua da un ponticello poco distante.

Tornò alla sua auto con il cuore che le batteva all’impazzata ma rallegrandosi che, dati gli avvenimenti drammatici di quella giornata, nessuno, anche se l’avesse vista, si sarebbe ricordato di lei. E in fondo cosa ci sarebbe stato da ricordare? Una signora maleducata che gettava in acqua i resti di un pranzo di fortuna.

Raggiunse senza intoppi la vicina via Madama Cristina e il negozio che cercava; per fortuna una commessa stava rialzando proprio allora la saracinesca, chiusa al passaggio della manifestazione. Non ebbe difficoltà a trovare una stoffa praticamente uguale a quella che giaceva in fondo al fiume, macchiata dal sangue di Pina.

Il corteo era passato da poco, la Polizia presidiava in forza le strade, e Olimpia uscendo dal negozio decise di dare un’occhiata al corteo. Superò i dimostranti guidando l’auto nella via parallela al corteo, parcheggiò all’altezza di Torino Esposizioni, poco lontano da dove si era liberata dei corpi del reato, e si diresse a piedi verso piazza Nizza.

La colpì l’aspetto inedito dei manifestanti: non i soliti operai in tuta o eskimo, ma una folla composta di uomini in camicia e cravatta, con cappotti borghesi, i capelli ben tagliati: impiegati, chiaramente, i famosi quadri, ma anche dirigenti e direttori.

Olimpia si sarebbe fermata più a lungo a fare le sue considerazioni se il tempo non l’avesse incalzata. In centro trovò aperto un cinema che proiettava American gigolo e vi passò due ore, seguendo poco la vicenda ma finalmente rilassandosi: non vedeva l’ora di buttarsi dietro le spalle tutta quella assurda storia.

All’uscita le venne in mente che la Polizia, notoriamente pignola e indiscreta, se l’avesse cercata nel corso della giornata senza trovarla avrebbe potuto chiederle che cosa l’aveva spinta a Torino in un momento di disordini.

Era un pensiero paranoico, ma le parve meglio non trascurare alcun dettaglio. Si ricordò dell’opuscolo di una galleria d’arte di via Roma che presentava in quei giorni una collezione di dipinti dell’Ottocento. Ne aveva la casa piena, ma la scusa era buona. Raggiunse il locale senza intoppi, si sottopose con pazienza ai convenevoli del direttore, che era stato un amico di suo marito, e scelse un ritratto romantico di Fanciulla alla finestra dai toni gradevolmente spenti.

Era quasi sera ed era pronta a tornare a casa. Guidò con prudenza sull’autostrada nebbiosa e invasa da autocarri, si districò con la consueta abilità nel traffico cittadino e verso il centro si fermò a un’edicola a comperare una copia del giornale del pomeriggio.

Lo sfogliò con ansia e nelle pagine interne vide subito il titolo: ANZIANA DONNA UCCISA IN CASA SUI NAVIGLI.

Il testo era scarno: vi si raccontava che il cadavere era stato scoperto in mattinata da una vicina; di sicuro, pensò Olimpia, doveva essere quella rompiscatole che si era attaccata al campanello poco prima che lei uscisse. La vittima giaceva in un lago di sangue pugnalata a morte. La Polizia era al lavoro, e si sospettava una rapina finita male, imputabile a qualche delinquente abituale o a qualche balordo sorpreso all’opera.

Olimpia a quel punto aveva buttato il giornale e si era diretta verso casa, ormai pronta ad affrontare la parte della signora profondamente colpita dalla morte della sua cara sarta, che però non poteva proprio fornire indizi utili alle forze dell’Ordine.