CAPITOLO 7

LA MEMORIA DEI VECCHI

Lunedì, 27 ottobre 1980

Nei giorni che seguirono, singolarmente convulsi, gli eventi esterni furono tali da distrarre per qualche tempo l’attenzione del commissario Pisani e della sua squadra dalla morte della sarta del Ticinese. Le indagini sulla gioventù misteriosa della contessa Aldrovandi e la riesumazione del delitto mai risolto della cantante Anita Serra dovettero subire una battuta di arresto.

Sembrava che tutti i malfattori si fossero messi d’accordo per entrare in azione.

Vallanzasca, il noto boss della mala, aveva attaccato un collega di sventura nella gabbia degli imputati durante il processo. La DIGOS aveva riaperto il caso Calabresi, l’omicidio del giovane commissario di Polizia rivendicato da Prima Linea. Decine di terroristi erano stati scoperti e arrestati in tutta Italia, specie dopo le dichiarazioni del pentito Marco Barbone, il responsabile della morte del giornalista Walter Tobagi. Si era scoperto che il deposito ferroviario di Greco la notte fungeva da dormitorio per la peggior feccia di sbandati e che vi prosperava il traffico di droga.

Oltre a pensare ai suoi problemi, come il sequestro di un ingegnere italiano avvenuto a Grenoble e brillantemente risolto, la Squadra Mobile si prestava a supportare i colleghi della DIGOS negli interrogatori e nelle indagini. Non c’era quindi tempo per molto altro.

Fu così che Marco Pisani, che si rassegnava a posporre ma non ad accantonare un caso, dovette aspettare con impazienza il lunedì 27 ottobre per mettere al corrente il vicequestore Calisti delle ultime indagini su Olimpia. Erano presenti anche Improta, Balzoni e Cotunno, che si erano ritagliati il tempo dai loro incarichi straordinari presso la Questura di Bergamo, oberata di lavoro.

«Dunque» riassunse il vicequestore, «dalle vostre ricerche è emerso un filo, sia pure tenuissimo, che collegherebbe il passato della contessa con quello della sarta: entrambe prima della guerra avrebbero lavorato per Cinecittà. Ma resta da scoprire se questo fatto è legato al delitto.»

«Eppure è stata l’Aldrovandi» commentò a mezza voce Improta. «Aveva appuntamento con la sarta per l’ora del crimine, si è lasciata dietro le paillettes della stoffa comperata da Galbiati, che ha fatto sparire sostituendola con un’altra, forse acquistata il giorno dopo a Torino…»

«E il suo alibi è inconsistente» concluse Cotunno. «Può aver visto il film in qualsiasi momento.»

«In più» prese la parola Pisani, «c’è da indagare anche sul delitto Serra. Nulla ci dice che sia stata lei, ma nulla nemmeno lo esclude.»

«Ma tu hai già un piano su come procedere» sorrise Calisti.

«Mi chiedo se sarai d’accordo» considerò Pisani, «ma avrei pensato di prendere qualche giorno di ferie per andare a Roma e seguire le tracce dell’Aldrovandi. Se ha fatto del cinema forse qualcuno si ricorda ancora di lei…»

«Perché vuoi prendere ferie?»

«Per poter giustificare la mia assenza se il giudice Carminati chiedesse di me. Naturalmente andrò solo: non potrei distrarre i miei uomini dalle indagini che stanno seguendo.»

Cotunno fece la faccia lunga. Avrebbe preferito andare a Cinecittà piuttosto che interrogare brigatisti.

«Anzi, a questo proposito» continuò Marco rivolto a Calisti, «devo metterti al corrente della mia iniziativa di recuperare un ragazzo che ho conosciuto nel corso di questa indagine. Ha un fratello che farà una brutta fine, ma lui, si chiama Giorgio Mantovani, non è ancora rovinato, aspira a tirarsi fuori e ha un ottimo spirito di osservazione e molta intraprendenza.»

«E tu vorresti aggregare un delinquentello alle forze di Polizia e portartelo a Roma?» indovinò Calisti.

«Non è giusto» osservarono a una voce i due agenti giovani.

«Non gli ho ancora detto nulla» si difese Marco. «Ma è ovvio che in queste indagini bisogna essere in due, e voi siete impegnati. Inoltre in Polizia c’è bisogno di gente sveglia, e Mantovani, se saprà essere all’altezza, può rivelarsi un buon acquisto. Non sarebbe certo il primo poliziotto che viene dai bassifondi!»

«Mi fido di te, Marco» concluse Calisti. «E speriamo che Roma vi metta sulla pista buona.»

La giornata fu frenetica. Marco delegò Improta a verificare al più presto, non appena qualcuno della squadra avesse avuto un po’ di tempo, i movimenti dell’Aldrovandi a Milano e Torino il giorno del delitto e quello seguente. Il maresciallo aveva già provveduto a fare appostare Balzoni nei pressi del palazzo di corso Venezia per scattare di nascosto alcune fotografie alla contessa.

Quindi Pisani telefonò a Roma a Giovanni Barbato, un giovane commissario suo amico, pregandolo di fare qualche copia della foto che nel 1941 accompagnava la richiesta della patente di tale Olimpia Cavenaghi. Sarebbe stato un documento prezioso, l’unico per riaccendere la memoria di chi l’aveva conosciuta ventenne.

Siccome si annunciava una settimana di scioperi dei mezzi di trasporto, Pisani scelse di raggiungere la capitale in auto e ordinò all’autorimessa della Polizia una vettura senza contrassegni. Infine telefonò a Giorgio Mantovani per convocarlo: era sicuro che non avrebbe rifiutato.

Non si sbagliava. Alle tre Giorgio fece il suo ingresso lievemente emozionato e si dichiarò più che disponibile ad accompagnare il commissario. In realtà schiattava dalla soddisfazione, non volle nemmeno sapere la data del ritorno e si precipitò a farsi accorciare i capelli e a preparare i bagagli, accompagnato dallo sguardo seccato di Cotunno e Balzoni.

«La sapete quella del figliol prodigo?» rammentò loro Marco.

«E come no?» commentò Cotunno. «Gli agenti per bene si sbattono tra carcere, covi di sovversivi, ricettatori e simili. Mantovani invece, che è a piede libero per miracolo, se ne va a passeggio per Roma col nostro commissario.»

«Guarda più avanti del tuo naso» lo ammonì Pisani. «Anche distogliere un giovane dalla cattiva strada è nostro compito, e per questo non servono prediche ma la dimostrazione pratica che si vive meglio dalla parte della legge. Nessuno gli farà sconti, ma deve poter scegliere la sua vita. E se deciderà che preferisce fare la guardia invece che il ladro sarà un successo, perché è sveglio e dotato di iniziativa.»

Rimasto solo, Marco fece alcune telefonate, quindi indossò l’impermeabile e a lunghi passi uscì dalla Questura e si diresse verso la vicina via Solferino.

Alle sei del pomeriggio infilava il portone del numero 28, sede del Corriere della Sera.

Martedì di buon’ora Marco Pisani e Giorgio Mantovani, la strana coppia, come li aveva definiti Cotunno, imboccavano l’autostrada a bordo di una pantera della Polizia in direzione della capitale.

Il traffico apparve subito convulso a causa degli scioperi. Marco era silenzioso: mentre si districava tra auto e TIR pensava alla morte di Pina Accorsi e si chiedeva se il legame tra la sarta e la contessa potesse risalire così indietro nel tempo, agli anni prima della guerra.

C’erano due circostanze che gli facevano temere che quel viaggio sarebbe stato solo una perdita di tempo: in primo luogo l’età di Pina, che, essendo nata nel 1923, al momento in cui Olimpia era arrivata a Roma aveva appena quindici anni. C’era però la coincidenza che lavorava per i costumi dei film, e Olimpia era andata a Roma per entrare nel mondo del cinema. In secondo luogo la contessa era cliente di Pina da una decina di anni: come mai solo ora la sarta era diventata tanto pericolosa da doverla uccidere?

E pericolosa perché? Poteva essere che una ragazzina, sia pure in quegli anni di follia, fosse a conoscenza di qualche terribile segreto che coinvolgeva la contessa? Non poteva trattarsi del delitto Serra, perché a Roma se ne era saputo poco o nulla. C’era qualche altro lato oscuro nella vita dell’Aldrovandi? E dopo tanti anni e tante vicende ne era rimasta forse qualche traccia?

Giorgio dal canto suo faceva le proprie considerazioni. Il lavoro dei poliziotti era ben diverso da quello impiegatizio che Giorgio aborriva. Mai avrebbe acconsentito a passare la vita chiuso in un ufficio a maneggiare scartoffie, né avrebbe voluto servire clienti in un bar o un negozio, o sporcarsi la mani in un’officina.

Erano le prospettive che quella santa donna di sua madre presentava a lui e a suo fratello come allettanti, per “sistemarsi”, come diceva lei. Ma Giorgio sapeva che non era quella la vita adatta a lui. Suo fratello aveva scelto la strada dei soldi facili, ma anche la malavita lo lasciava dubbioso.

Gli amici di suo fratello parlavano dei poliziotti e dei carabinieri come fossero tutti dei figli di puttana; invece Giorgio li aveva trovati umani, sensibili e simpatici. Certo non sarebbero mai diventati ricchi. In compenso un poliziotto aveva scelto una volta per tutte da che parte stare, e la notte dormiva tranquillo. E poi quanti degli amici di suo fratello, che la notte tendevano l’orecchio ai rumori sospetti, si erano arricchiti?

All’altezza di Firenze Pisani deviò per una stazione di servizio, fece il pieno e si diresse con Mantovani al bar. Aveva apprezzato che il ragazzo non avesse interrotto le sue riflessioni con chiacchiere inutili. Ordinò panini, acqua minerale e caffè e prese posto a un tavolo isolato.

«Ora, Giorgio» esordì quando ebbero finito di mangiare, «è tempo che tu sappia su che cosa andiamo a investigare a Roma.»

Giorgio si fece attento.

«Si tratta, come avrai immaginato, dell’omicidio di Pina Accorsi. Ti sei già occupato di prendere informazioni su chi abitava in viale Col di Lana 12 prima della guerra e ti sarai chiesto perché. Quanto ora ti dirò deve restare segretissimo. Guai se ne hanno sentore i giornali: abbiamo a che fare con una persona importante.»

Marco bevve il caffè e si accese una sigaretta offrendone un’altra a Giorgio.

«Abbiamo motivo di ritenere che a uccidere la Accorsi sia stata la contessa Aldrovandi.»

«Ma non è possibile!» Mantovani trasecolò. «Quella bella signora così elegante un’assassina! L’ho incontrata parecchie volte sulle scale. Non ci posso credere!»

«Eppure proprio tu ci hai messo sull’avviso raccontando di quel rumore di tacchi, fornendo pure l’ora… E abbiamo molti altri riscontri. Non chiedermi però il motivo dell’omicidio, perché questo non riusciamo nemmeno a ipotizzarlo, ed è ciò che andiamo a cercare a Roma. L’Aldrovandi è quella Olimpia Cavenaghi di cui hai trovato tracce nelle tue indagini.»

Giorgio provò un moto di orgoglio.

«Pare che a vent’anni si sia trasferita a Roma per fare cinema» continuò Marco, «e Pina era di Roma. Dobbiamo capire se c’è un collegamento, e quale. Partiamo da zero. Ti ho portato con me perché per queste indagini bisogna essere in due, un po’ insieme, un po’ a occuparci di cose diverse contemporaneamente, e in questo momento la mia squadra è impegnata a supportare la DIGOS. In più dobbiamo muoverci all’insaputa del sostituto procuratore Carminati, che si è messo in testa che l’omicidio di Pina sia la conseguenza di una banale rapina e vuole chiudere il caso al più presto. Io invece non intendo mollare.»

«Ma lei, commissario, può disporre di me quando vuole; sa che il vostro lavoro mi piace molto, ne sono orgoglioso.»

«Lo so, lo so, Giorgio; al ritorno parleremo anche della tua posizione» concluse Pisani, sibillino.

Roma li accolse a metà pomeriggio, illuminata da un pallido sole autunnale. Giorgio non c’era mai stato e Marco, prima di dirigersi al Primo Distretto di Polizia in piazza del Collegio Romano, dove l’aspettava il commissario Barbato, fece un veloce giro panoramico in auto per via dei Fori Imperiali, fino al Colosseo.

«Che città stupenda, commissario» commentava Giorgio guardandosi intorno. «Molto più bella di Milano, più grandiosa.»

«Ha duemila anni di storia» gli ricordò Marco. «Se avremo tempo, ti farò vedere qualcosa di più.»

Barbato, avvertito del loro arrivo, li aspettava all’ingresso della Questura. Era biondo, alto e magro e si muoveva con la scioltezza di un atleta. Veniva da Padova e aveva frequentato insieme a Marco Pisani la Scuola di Polizia; anche lui apparteneva alla Squadra Mobile.

Dopo un affettuoso abbraccio con l’amico, li fece accomodare nel suo ufficio. «Questi sono i documenti che mi hai chiesto» dichiarò appoggiando una busta sul tavolo.

Marco ne estrasse la fotocopia della richiesta di patente di Olimpia, da cui risultavano un indirizzo, via del Governo Vecchio, e alcune copie della foto ingrandita.

Olimpia Cavenaghi appariva molto diversa dalla contessa Aldrovandi: i capelli biondissimi, tagliati corti a caschetto, la facevano sembrare una straniera, aveva un’aria da svedese o tedesca che doveva piacere molto in quell’epoca di fratellanza tra l’Italia e il Reich.

Giorgio fu munito di una piantina di Roma e spedito nella vicina via del Governo Vecchio con una delle foto, per cercare qualcuno che si ricordasse della ragazza, anche se le speranze erano poche.

Marco si fermò ad aspettarlo in ufficio chiacchierando con l’amico. Lo mise rapidamente al corrente della situazione, concludendo che cercare dopo circa quarant’anni le tracce di una persona e ricostruire che vita aveva fatto, chi frequentava, che segreti poteva custodire era come cercare il classico ago nel pagliaio. Barbato osservò che se la ragazza era andata a Roma per fare cinema, anche se non era diventata una diva poteva aver lasciato qualche segno della sua presenza negli archivi di Cinecittà. C’era la possibilità che avesse adottato un nome d’arte, ma disponendo di una foto dell’epoca si poteva cominciare da lì.

Senza esitare telefonò al direttore degli stabilimenti, tale dottor Galli, e prese appuntamento per Marco la mattina dopo. «Sei fortunato» commentò abbassando il ricevitore. «Cinecittà è in piena crisi e i pochi impiegati rimasti hanno purtroppo tutto il tempo di darti ascolto. Fosse stato vent’anni fa, quando anche gli americani venivano da noi a girare i loro film, avresti avuto poche speranze di aiuto. Galli è in gamba: non gli devi spiegare perché cerchi questa donna, ti darà volentieri una mano. È uno di quei dirigenti che stanno facendo di tutto per salvare gli stabilimenti, e nessuno meglio di lui conosce i segreti di Cinecittà.»

Giorgio fece la sua apparizione in quel momento, deluso di non aver incontrato nessuno in via del Governo Vecchio che si ricordasse di Olimpia Cavenaghi.

«Il palazzo è molto elegante» riferì. «Gli appartamenti devono essere grandi e lussuosi, a due passi da piazza Navona.»

Quindi la Cavenaghi, pensò Pisani, in soli tre anni doveva aver fatto fortuna. Chissà come…

Su Roma era già scesa la sera quando i due andarono a cena in un ristorantino di Trastevere che, data la stagione, non era troppo affollato. Non indugiarono a passeggiare, ma scelsero entrambi di andare a riposare nel piccolo albergo di via del Corso in cui Marco aveva prenotato. In teoria avrebbe potuto dormire in una caserma della capitale, ma l’idea non lo aveva mai allettato.

Il mattino dopo, alle nove, l’auto di Pisani si fermò davanti al famoso ingresso del numero 1055 di via Tuscolana.

Giorgio era tutto eccitato, ma il commissario lo deluse ricordandogli che Cinecittà era sull’orlo della bancarotta e praticamente non vi si giravano più film.

Andò a riceverli ai cancelli una segretaria, che li accompagnò nel palazzo uffici dal direttore degli stabilimenti Adriano Galli. Era un signore di mezza età dall’aria energica nel viso segnato, ma illuminato, da occhi azzurri.

Nel salotto del suo ufficio, davanti alle tazze di caffè, si abbandonò ai ricordi. Era un buon narratore e ascoltarlo fu un piacere.

«Cinecittà è stato uno dei più grandi miracoli italiani» cominciò. «All’inaugurazione del 28 aprile 1937, in piena era fascista, c’era anche Mussolini. Si erano fatte le cose in grande: su seicentomila metri quadrati di superficie sorgevano ben settantatré edifici, tra viali, prati, boschi, piscine. C’erano sedici teatri di posa, tra cui il celebre Teatro 5, alto sedici metri, per allestire i set più impegnativi. Ogni teatro di posa era dotato di guardaroba, sala trucco, camerini per i divi. Erano stati approntati un grande studio musicale, uno per il parlato, sedici sale di montaggio, un laboratorio per gli effetti speciali, sale di proiezione, magazzini di mobili e attrezzature, banche, uffici postali, ristoranti, saloni delle feste. Il posto era stato scelto con cura, a nove chilometri dal centro di Roma, vicino a Frascati, al Tevere, a Fregene e Ostia, ai boschi di Rocca di Papa, ai laghi laziali, tutti luoghi ideali per girare in esterni. I produttori vi accorsero subito perché l’ottima attrezzatura permetteva grandi risparmi e lo Stato prestava loro denaro a interessi di favore: dal ’37 al ’43 a Cinecittà si girarono ben trecento pellicole.»

Dalle parole di Galli riemergevano i tempi in cui per i viali si incontravano divi come María Denis, Assia Noris, Alida Valli, Amedeo Nazzari e Rossano Brazzi. Il regista Blasetti, fascista militante, sempre in sahariana con un frustino in mano, riceveva i gerarchi fascisti come Pavolini, Vittorio Mussolini, Bottai, Ciano. Nei saloni e sui set si davano feste sontuose e nascevano grandi amori.

«Ma dopo l’8 settembre del ’43» continuò Galli, «quando caduto Mussolini l’Italia si schierò con gli Alleati, Cinecittà venne chiusa e le attrezzature che si salvarono dal saccheggio della gente e dalla rapina dei tedeschi furono trasferite a Venezia, dove all’inizio del ’44 il presidente Luigi Freddi insediò la città del cinema ai Giardini della Biennale.»

«Già» confermò Pisani. «Si utilizzarono i padiglioni delle esposizioni. Li conosco, Venezia è la mia città.»

«C’era il vantaggio che Venezia non era mai stata bombardata» spiegò Galli, «e di tedeschi se ne vedevano pochi. Però non si produsse quasi nulla. Dopo la guerra Cinecittà risorse: tornarono De Sica, Visconti, Rossellini, e negli anni Cinquanta arrivarono gli americani, che vi girarono kolossal come Ben-Hur, Quo Vadis e Cleopatra e invasero i caffè di via Veneto inventando la leggenda della Dolce Vita.»

«Vero» commentò Marco. «E adesso perché non c’è più nessuno? Venendo da lei abbiamo intravisto viali deserti, sembra un mondo abbandonato…»

«È da una decina d’anni che il cinema italiano è stato sopraffatto da Hollywood e dalla televisione; è già tanto se le troupe vengono qui a girare qualche spot televisivo. Ma non sarà sempre così: Cinecittà sta per risorgere. Stiamo per vendere un enorme terreno qui vicino, e col ricavato si modernizzeranno gli stabilimenti, che torneranno a essere competitivi. Pensiamo di offrirli alle grandi produzioni internazionali, oltre che alla TV e alla pubblicità.»

«Spero che avrete fortuna» disse Marco. «Il cinema italiano è stato troppo importante per consentirne la decadenza.»

«Ma adesso veniamo a noi, commissario» riprese Galli dopo un sospiro. «Il suo collega Barbato mi ha detto che siete sulle tracce di una persona che forse ha fatto l’attrice prima della guerra.»

«È così» confermò Pisani. «Abbiamo solo una foto dell’epoca e il nome di nascita, che potrebbe essere stato sostituito con un nome d’arte.»

«Se avete pazienza, sarà possibile trovare le sue tracce. Mi spiego: in archivio esistono ancora le foto di scena e le locandine dei film girati a Cinecittà; nel periodo che vi interessa sono stati, come vi dicevo, ben trecento. Ma se la donna ha avuto anche solo una parte secondaria dovreste riuscire a identificarla.»

«Sarebbe il primo passo» disse Marco. «Possiamo andare subito?»

L’archivio, nello scantinato del palazzo uffici, era particolarmente squallido e polveroso, illuminato da lunghi finestroni all’altezza del marciapiede esterno. La segretaria di Galli mostrò loro come consultare i faldoni con le foto e le locandine, divisi per film e in ordine di data, e Marco e Giorgio si misero all’opera, alla ricerca di immagini di Olimpia ventenne.

Poiché conoscevano il periodo in cui era andata a Roma, cioè all’inizio dell’estate del ’38, cominciarono dai documenti dell’autunno di quell’anno. Era impossibile che fosse riuscita a farsi ingaggiare in qualche produzione prima di allora.

Per due ore regnò il silenzio, poi Giorgio urlò: «Eccola!».

Stava consultando il fascicolo di un film della primavera del 1939 prodotto dalla Cineparenti; Olimpia, col caschetto di capelli dorati, compariva nelle foto di scena. Nella didascalia, finalmente il suo nome d’arte: Myra Leoni.

Da quel momento le ricerche furono facili: Marco si impadronì dei registri dove anno per anno venivano annotati i film girati a Cinecittà, con i nomi dei registi, degli attori, dei produttori, dei cineoperatori. In capo a mezz’ora, la carriera cinematografica di Olimpia era stata ricostruita. Giorgio era fuori di sé per l’eccitazione.

Risultava che dopo il primo film, un’opera in costume in cui aveva avuto una particina, nel febbraio del ’40 era già protagonista ne La bella Margherita, in cui interpretava, a quanto si capiva dalle immagini, la parte di una ballerina in uno spettacolo musicale.

Seguivano, nel ’40 e nel ’41, altri due film della Cineparenti, sempre in costume, e una commedia brillante l’anno successivo. Myra Leoni a quel punto era sempre protagonista, bellissima sia nei costumi d’epoca sia fasciata di lamé e illuminata dai capelli platinati nelle pellicole dei telefoni bianchi, come si chiamavano i filmetti brillanti di quegli anni.

Il dottor Galli arrivò a cercarli verso l’una, per invitarli in un ristorantino vicino agli stabilimenti. Marco gli espose l’esito delle ricerche e gli chiese consiglio su come procedere per indagare sulla vita privata di Myra Leoni.

Il direttore rimase qualche minuto pensieroso. «Sono passati più di quarant’anni, il mondo è cambiato insieme a Cinecittà, però qualche tentativo si può fare. Per esempio, se nella Bella Margherita, che è stato il suo primo film da protagonista, la Leoni cantava e ballava, si può pensare che già da prima avesse preso lezioni di canto e ballo, e le scuole, specie quelle di danza, vengono tramandate di padre in figlio. Contattate quelle di Roma e, se siete fortunati, potreste trovare la scuola che frequentava, dove magari qualcuno si ricorda ancora di lei. Un’altra strada sono gli operatori, le truccatrici, le sarte. Le giovani attrici, snobbate dai divi, spesso si confidavano con loro.»

«Ma sarà un problema trovarli…» obiettò Marco.

«È vero» continuò Galli. «Però vi posso suggerire subito un buon punto di partenza. A Cinecittà lavora ancora Giannone, che qui è un’istituzione. C’era già nel ’37 e non se n’è più andato. Ha cominciato nel reparto manutenzione, quindi è passato ad allestire i set. Durante la guerra, quando Cinecittà era occupata dagli sfollati, è rimasto a presidiare i magazzini ed è riuscito a mettere in salvo dai saccheggi molto materiale, nascondendolo dove sapeva lui, più che altro nelle cascine dei dintorni. Dopo la guerra ha lavorato in scenografia come decoratore e, quando Cinecittà è stata man mano abbandonata, anche se era già anziano non ha voluto andarsene. È ancora qui, che presidia i magazzini come durante la guerra.»

«Si ricorderà di Myra Leoni?» chiese Marco.

«Se c’è qualcuno che può ricordarla è lui; è praticamente l’archivio storico di Cinecittà. Possiede un’ottima memoria e, quel che più conta, è una delle poche persone che sanno ascoltare. Quando ho tempo vado a chiacchierare con lui, e Giannone mi riferisce aneddoti gustosissimi, fa osservazioni acute sul carattere dei divi e dei registi che ha conosciuto, rievoca pettegolezzi.»

«Andiamo subito!» si lasciò scappare Giorgio, che fino a quel momento era rimasto attento e silenzioso.

«Vi conviene prendere l’auto che avete lasciato all’ingresso» continuò Galli. «I magazzini che Giannone custodisce sono piuttosto lontani, vicino agli stabilimenti che confinano con la campagna. Datemi il tempo di fargli una telefonata e poi vi indico la strada.»

Quando scesero dall’auto nello spiazzo davanti ai magazzini, Marco e Giorgio si bloccarono stupefatti: lungo il perimetro della città del cinema erano allineati enormi capannoni. Quello davanti al quale si erano fermati lasciava traboccare all’esterno le sue viscere: erano gigantesche teste romane di gesso, colonne spezzate adagiate sull’erba stenta, capitelli, busti di finto marmo, pezzi di cornicioni.

Dall’ampia porta a vetri spalancata uscì un ometto magrissimo e sorridente, i capelli bianchi svolazzanti, vestito di un giaccone di pelle sopra i jeans. Poteva avere una settantina d’anni e zoppicava vistosamente. Piccolo com’era, chissà perché era stato soprannominato Giannone.

«Che piacere che qualcuno si interessi ancora al mondo del cinema» esclamò. «Entrate nel mio regno: ho preparato del buon caffè per scaldarci, perché qui fa freddo tutto il giorno.»

«Il caffè lo prendiamo volentieri, ma purtroppo siamo qui per un’indagine di Polizia» gli spiegò Pisani. «Dobbiamo farle alcune domande.»

«Lo so, il dottor Galli me lo ha detto al telefono… Gran brava persona, sta facendo di tutto per salvare Cinecittà. Ma se indagate sul mondo del cinema d’anteguerra» osservò, «può esservi utile capire come funzionavano allora le cose.»

E, contento di avere recuperato un paio di ascoltatori, li condusse all’interno del capannone, zeppo di statue ed elementi architettonici di tutte le epoche. Presero il caffè davanti alla scrivania di Giannone, tra una Paolina Borghese di Canova e un imponente trono egizio.

«Sono due degli oggetti che ho più cari» spiegò Giannone. «Osservate che Paolina ha il viso della Lollobrigida: la statua compariva nel suo film. Il trono invece è quello su cui sedeva Liz Taylor in Cleopatra, nella scena del trionfo a Roma. Ma venite» continuò, «non vi farò perdere molto tempo. In questo magazzino, come potete vedere, sono custoditi gli elementi architettonici. Finito un film non si butta niente, perché questa roba costa fatica e denaro e si può utilizzare per altre produzioni o noleggiarla ai teatri.»

A passo svelto nonostante la gamba rigida, Giannone li pilotò nel magazzino adiacente, che sembrava il deposito di un antiquario.

«Qui custodiamo mobili di tutte le epoche, quadri, tappezzerie. Oltre quella porta di ferro c’è il deposito degli oggetti: lampade, piatti, soprammobili. Sono cose belle, che attirano i ladri, è per questo che non mi decido ad andare in pensione. Se qui non rimarrà più nessuno, poco per volta scomparirà tutto.»

«Il dottor Galli ci ha detto che lei è rimasto qui anche durante la guerra…»

«Già, allora ero giovane e nei magazzini stavo anche a dormire. Dopo l’8 settembre del ’43 si riempirono di sfollati. I tedeschi volevano portare via i macchinari, e il presidente di allora, Luigi Freddi, riuscì a salvare molto materiale. Ma rimanevano mobili, costumi, allestimenti scenici. Gli sfollati cercavano i mobili per bruciarli e gli abiti per vestirsi. Io non sapevo che fare: notte e giorno me ne stavo in allerta, facevo la ronda, spaventavo gli intrusi, che per fortuna erano solo povera gente. Spesso mi sono chiesto se facevo bene a tenerli lontano dalla roba rimasta. E ogni tanto gli Alleati ci bombardavano. È stata una scheggia a colpirmi la gamba… Per fortuna a pochi millimetri da un’arteria, altrimenti non sarei qui a raccontare.»

«Prima della guerra lei era un giovanotto» esordì Pisani quando furono ritornati nello spazio che fungeva da ufficio a Giannone. «Quindi probabilmente conosceva le giovani attrici. Noi cerchiamo tracce di una di loro, che non è mai diventata veramente famosa.»

«Sì, le ragazze chiacchieravano volentieri con me» confermò l’uomo. «Non so perché, ma molte mi raccontavano i loro guai e i loro amori. Di chi si tratta?»

Marco gli mostrò alcune foto che aveva preso dai faldoni dei film. «Il nome d’arte era Myra Leoni.»

Giannone rimase qualche secondo pensieroso. «Myra» esclamò infine. «Sì, la ricordo, voleva essere sempre chiamata col suo nome d’arte, chissà perché. Non ho mai saputo quale fosse il suo vero nome.»

«Che tipo era?»

«Abbastanza strana, diversa dalle altre giovani attrici che sgomitavano per farsi avanti. Era piuttosto seria e riservata, poco incline alle chiacchiere e ai pettegolezzi; ed era un pregio, in un ambiente dove le attrici erano disposte a tirarsi coltellate per avvicinare un attore famoso, un regista o un produttore per avere una particina. Myra arrivò qui per una parte secondaria in un film, e in quello successivo era già protagonista. Me lo ricordo bene perché la parte era stata assegnata in principio a un’attrice famosa, che però scomparve misteriosamente da un giorno all’altro, e Myra, che conosceva il copione e sapeva cantare e ballare come richiesto, fu chiamata su due piedi a sostituirla, perché le riprese non potevano tardare.»

«E l’altra?» gli chiese Marco, interessato. «Si seppe che fine aveva fatto?»

«Ci furono molte supposizioni» ricordò Giannone. «Ma la più attendibile era che si fosse scoperto che si trattava di un’ebrea. Si era in tempi di leggi razziali, come saprà, e anche il mondo del cinema epurava gli ebrei.»

Marco gli mostrò le locandine dei film di Olimpia. «Che lei sappia, che vita faceva a Roma Myra Leoni? Aveva amori segreti? Frequentava qualcuno in particolare? Si atteggiava a diva?»

«No, questo no, era bella ma anche intelligente, e capiva da sola che quelli che interpretava erano filmetti.» Giannone indicò le locandine. «E che essere diva era un’altra cosa. Non dava confidenza a nessuno, nemmeno a me, e non correva dietro ai registi. Era un poco misteriosa e si comportava come se godesse già di un’alta protezione e non avesse bisogno d’altro. Non era certo simpatica, qui non aveva amiche, al ristorante mangiava spesso da sola. Mi sembra ancora di vederla: lanciava intorno per la sala lo sguardo di quegli incredibili occhi verdi, e l’impressione che faceva era di poter essere pericolosa. Così la frequentavano in pochi, e solo per ragioni di lavoro. Volete sapere se aveva amori?» continuò Giannone. «Nell’ambiente di Cinecittà no di certo: qui i pettegolezzi volavano. Fuori può darsi, ma se aveva un amore doveva essere segreto, perché non ne ho mai sentito parlare. Allora Cinecittà era frequentata da molta gente: venivano industriali, militari, gerarchi fascisti; e anche tedeschi, nei primi anni di guerra. Erano ammessi sui set ad assistere alle riprese, si facevano galà a ogni giro di manovella o per ogni lancio di film. Erano stati perfino allestiti saloni delle feste. Quindi le occasioni per conoscere la gente del bel mondo romano non mancavano. Però che parte avesse in tutto questo Myra Leoni io non l’ho mai saputo.»

Il sole stava calando quando Marco e Giorgio, comunicato a Giannone il numero di telefono dell’albergo nel caso gli fosse venuto in mente qualche altro particolare, si lasciarono alle spalle Cinecittà per fare ritorno a Roma.

Il lavoro di quel giorno non era finito. Giorgio fu incaricato di telefonare alle scuole di ballo di Roma per sentire quali di loro fossero in attività anche prima della guerra, Marco prese appuntamento con la sorella di Pina e si mise di nuovo in auto per andare a trovarla.

Anna Allotta abitava in un condominio più che decoroso all’EUR, stava preparando la cena ma accolse con calore Pisani facendolo accomodare in un soggiorno spazioso e ben tenuto. «Che piacere rivederla, commissario! Avete trovato il colpevole?»

«Può darsi, signora» rispose Marco sedendosi, «ma ci occorrono prove. Sono qui per farle qualche domanda. Cerchi di fare uno sforzo di memoria: quando eravate ragazze qui a Roma, ha mai sentito sua sorella parlare di un’attrice che si chiamava Myra Leoni?» E trasse dalla cartella le foto e le locandine.

La Allotta esaminò attentamente il materiale; nel registro del film La bella Margherita si soffermò su un nome. «Ecco, questa era la sartoria, la Dantoni Mode, per cui lavorava mia sorella.»

«Quindi sua sorella ha conosciuto Myra Leoni.»

«Il nome non mi è nuovo, forse qualche volta me ne ha parlato, ma in quanto a conoscerla… Mia sorella era una ragazzina, al massimo andava a Cinecittà a portare il pacco dei vestiti per le prove.»

«E non rammenta qualche pettegolezzo su questa attrice?»

«Tirerei a indovinare, non ricordo nulla di preciso.»

«Un’ultima domanda: sua sorella è mai stata a Rimini nell’immediato dopoguerra?»

«No, in quegli anni no. Chi aveva i soldi per le vacanze? C’è andata un paio di volte, poco prima che morisse suo marito, una decina di anni fa.»

Marco tornò mogio in albergo ma trovò Giorgio al culmine dell’euforia.

«L’ho trovata, commissario! Ho trovato la scuola di ballo che frequentava la Leoni, e anche un maestro che era suo amico! Spero di aver fatto bene: ho preso appuntamento per domani mattina alle nove.»

Marco lo guardò con rispetto. «E come hai fatto?»

Giorgio gli spiegò che alla prima scuola che aveva contattato telefonicamente gli avevano dato il nome delle accademie che risalivano a prima della guerra. Ne erano rimaste solo tre, e lui aveva deciso di andarci.

Nella seconda di queste scuole, da Floriani in via della Penna, sentendo che si trattava di un’indagine di Polizia la segretaria aveva consultato i registri dal 1938 in avanti e vi aveva trovato il nome di Olimpia Cavenaghi, che era stata per anni loro allieva. Giorgio aveva quindi parlato con l’anziano titolare, che gli aveva consigliato di rivolgersi al maestro Giulio Baldi, a quel tempo l’insegnante di Olimpia e che ora aveva una sua scuola. Era bastata una telefonata per prendere appuntamento e per appurare che questo signore ricordava benissimo la ragazza ed era stato suo amico.

«Bravo il mio assistente!» rise Marco battendogli su una spalla. «Ti sei meritato una cena con i fiocchi.»

La scuola di ballo di Giulio Baldi era situata in un bel palazzo ottocentesco di via Arenula, a due passi dall’albergo.

La mattina, prima di uscire, Pisani aveva telefonato in ufficio a Milano, e Improta lo aveva informato di avere identificato i pochi negozi eleganti di Torino che avevano stoffe con paillettes d’argento. Aspettava la prima occasione per inviare uno degli agenti con la foto dell’Aldrovandi.

Marco e Giorgio raggiunsero il quarto piano in un vetusto ascensore di mogano e specchi arredato con un divanetto di velluto rosso.

Andò ad aprire la porta Giulio Baldi in persona, un signore anziano con lineamenti da antico romano e un portamento ancora atletico. Indossava pantaloni neri aderenti e una camicia bianca aperta sul collo.

Percorsero dietro di lui un lungo corridoio su cui si affacciavano sale dai pavimenti in parquet lucidissimo, con sbarre e specchi alle pareti; a quell’ora erano completamente deserte. Furono introdotti in un sobrio ufficio e si accomodarono sulle poltrone di pelle.

Baldi rimase in piedi davanti a loro, appoggiato al bordo della scrivania, le braccia conserte. «Se ho capito bene, commissario, lei sta cercando informazioni su Myra Leoni, cioè Olimpia, che era mia allieva prima della guerra. Posso sapere perché?»

«Mi spiace, signor Baldi, ma non mi è possibile darle alcuna informazione. Io piuttosto devo farle subito una domanda: è ancora in rapporti con lei?»

Baldi capì che la faccenda era molto seria. «No, commissario» rispose. «L’ho persa di vista nel ’43, dopo l’armistizio, poco prima che Cinecittà si spostasse a Venezia, e da allora non ne so più nulla. Presumo che sia ancora viva, data la vostra presenza qui.»

«Infatti.» Marco chiese il permesso e si accese una sigaretta. «Vorrei sapere tutto ciò che ricorda di lei in quegli anni.»

«Ci ho ripensato, quando ieri sera mi ha telefonato il suo assistente, e ho trovato del materiale» rispose l’altro indicando un pacco di scatti ingialliti. «Olimpia è arrivata a Roma esattamente nel giugno del ’38; me lo rammento perché il mese prima c’era stata la visita di Hitler e lei mi disse che aveva aspettato a partire nel timore di non trovare stanze in albergo. Venne da Floriani a colpo sicuro: può darsi che qualcuno le avesse dato l’indicazione della scuola. Si iscrisse ai miei corsi intensivi di danza moderna. Forse poiché anch’io ero giovane, avevo trent’anni, si aprì con me e mi confidò che dormiva nel primo alberghetto che aveva trovato vicino alla stazione. Ma il posto era poco pulito, e avrebbe preferito alloggiare in una pensione per attori. Io le indicai la Archi di via Merulana, e lei ha sempre abitato lì finché non ha preso un suo appartamento.»

«Sì» lo interruppe Marco. «In via del Governo Vecchio. E come si comportava appena giunta a Roma? Aveva soldi o faceva la fame? Come è arrivata a Cinecittà?»

«Calma, una cosa per volta» disse Baldi sedendo a cavalcioni di una sedia. «Mi apparve subito molto determinata. Si fece indicare buone scuole di canto, recitazione, dizione e si mise a frequentarle con ottima volontà. Sembrava una bestiola selvatica che fosse riuscita a fuggire dalla gabbia per cercare la sua strada, ma non mi disse mai nulla della famiglia. Soldi ne aveva: le lezioni le pagava regolarmente, non scialava ma nemmeno faceva la fame e aveva abiti di ottima fattura, anche se non erano molti.»

«Corteggiatori?»

«A volontà! Io per primo ogni tanto le chiedevo di uscire, ma lei non dava retta a nessuno.»

«Era una buona allieva?»

«Apprendeva rapidamente e bene, anche se non sarebbe mai diventata una fuoriclasse. Ma lei voleva fare il cinema. So che imparò a cantare e a recitare decorosamente, ma è inutile che cerchiate di rintracciare i suoi maestri: erano già anziani allora e di sicuro non ci sono più.»

«Quando ha sfondato?»

«Sfondare è una parola grossa… Comunque le cose sono andate in questo modo: verso l’autunno dello stesso 1938, l’impresario di una compagnia di avanspettacolo mi chiese se avevo buoni elementi per una rivistina che stava allestendo al cinema Moderno. Io mandai Myra, che si chiamava ancora Olimpia, e lei fu assunta non come ballerina ma come cantante solista. Nonostante ciò non smise di venire da me a lezione e mi raccontò che una sera, sarà stato prima di Natale, un produttore l’aveva notata. Lo aveva trovato ad aspettarla in camerino e l’aveva scritturata per un film, seppure in una particina. Fu così che diventò Myra Leoni, si tagliò e si fece platinare i capelli ed entrò a Cinecittà.»

«Lei continuò a vederla?»

«Sì, venne a lezione, anche se saltuariamente, fino al ’43. Quando però cominciò a fare cinema si allontanò un poco da me, non si confidava più, era più riservata. Agli inizi del ’40 si trasferì nell’appartamento in centro. Mi invitò una volta e notai che doveva essere stato arredato da un architetto e senza badare a spese. Mi chiesi come avesse fatto, perché era solo al suo secondo film, anche se come protagonista, e formulai l’ipotesi che dovesse avere un amante importante, forse un gerarca fascista, perché se fosse stato un regista o un produttore se ne sarebbe parlato. E ancora di più me ne convinsi quando lei sparì dopo l’8 settembre. Non ne ho più saputo nulla.»

«Chi altri la conosceva? Chi può ricordare ulteriori dettagli?»

«Non so chi frequentasse, ma la pensione dove abitava allora non c’è più. Avete provato nel palazzo in cui si era trasferita?»

«Abbiamo provato» rispose Giorgio, «ma gli inquilini sono tutti cambiati e anche nei negozi vicini nessuno la ricorda.»

Sospirando, i tre si misero a sfogliare le foto recuperate da Baldi: mostravano la giovane Olimpia, ancora con i capelli scuri, che esibiva la sua figura slanciata in calzamaglia, poi in abito da sera su un palcoscenico, davanti a un microfono.

«Qui era nella rivista di avanspettacolo» spiegò l’uomo.

E poi in costume da bagno, in posa da diva, su una spiaggia…

«Qui è durante una delle nostre gite a Ostia. Anche quelle finirono agli inizi del ’40. Dev’essere stato allora che si è legata a qualcuno, ma non so proprio dirvi altro.»

Marco e Giorgio, la strana coppia, si ritrovarono in strada un po’ delusi: sentivano di essere in una situazione di stallo. Avevano appreso tante cose di Myra Leoni ma nulla che spiegasse l’omicidio della Accorsi o che confermasse il suo coinvolgimento in quello di Anita Serra, anche se il furto avrebbe spiegato i soldi di cui la ragazza disponeva al suo arrivo a Roma.

«Sai cosa si fa quando ci si trova a un punto morto?» chiese Marco.

«Me lo dica» rispose Giorgio.

«Si fa altro! La giornata di oggi è dedicata alla visita di Roma.»

Erano due buoni camminatori, e Marco guidò il suo compagno a vedere Palazzo Madama, Montecitorio e Palazzo Chigi, il Pantheon, piazza Navona, fino a piazza di Spagna e alle adiacenti strade eleganti.

Quindi con l’autobus si diressero verso il Colosseo e i Fori imperiali, e a fine giornata Marco volle condurre Giorgio in Vaticano; fecero in tempo ad ammirare la basilica, le stanze di Raffaello e la Sistina.

Era ormai sera quando Pisani si fermò a un’edicola di via della Conciliazione e, guardando i giornali esposti, gli venne finalmente l’idea vincente. «I giornali, Giorgio, ecco come fare!»

«Sì, commissario, ma prima beviamo qualcosa» implorò Mantovani allo stremo delle forze dopo il tour de force per la città.

Nel calduccio di un bar, davanti a una bibita, Marco si spiegò: «A Cinecittà, in archivio, devono avere i giornali di cinema dell’epoca, con le foto delle feste e delle personalità che vi partecipavano. Domani torniamo e, se siamo fortunati, scopriremo chi era l’amante misterioso di Myra Leoni».

La mattina seguente il dottor Galli li ricevette con la consueta cortesia. «Posso mettervi a disposizione i giornali, ma anche quel che è rimasto dell’archivio fotografico. Sono pacchi di immagini, alcune con didascalie, altre senza, ma possono darvi indicazioni.»

Questa volta fu Marco a fare la prima scoperta. In un numero della rivista mensile Film, nella rubrica È nata una stella dedicata alle giovani attrici, compariva uno scatto a piena pagina di Myra Leoni, con biografia di accompagnamento.

Milanese, di famiglia di industriali, vi si leggeva, era approdata a Roma con la tata che l’aveva allevata e si era subito affermata grazie alle sue capacità affinate fin dall’infanzia nelle migliori scuole di ballo e canto della città lombarda. Presto scritturata, davanti a sé aveva un grande avvenire, grazie al suo aspetto nordico e a solide virtù italiane.

Marco e Giorgio sogghignarono.

Nelle altre foto del servizio Myra compariva alla festa di lancio del suo primo film, accompagnata dal regista, dall’attore protagonista e da altre personalità, fra cui il sottosegretario alla Cultura Popolare Gualtiero Morlacchi.

La ricerca si fece frenetica.

Da altre riviste emersero varie immagini di Myra a feste e inaugurazioni. Morlacchi era spesso presente. Negli scatti dal ’40 al ’43 i due comparivano sovente, mentre ballavano insieme oppure seduti allo stesso tavolo.

Era molto probabile che fosse proprio quel Morlacchi l’amante misterioso di Myra. Del resto era un gran bell’uomo, alto e dinoccolato, appena un po’ stempiato, con grandi occhi bruni sempre un poco tristi.

Ma chi era? Non era mai stato un personaggio di primo piano, ma come sottosegretario di Pavolini doveva avere i suoi meriti. Marco era sicuro che dopo la guerra di lui non si fosse mai parlato. Che fine aveva fatto?

Solo Giannone poteva saperne qualcosa, così Pisani, dopo aver fotocopiato le immagini più nitide, diresse la macchina verso i magazzini di Cinecittà.

Il vecchietto era al suo posto, a contemplare i suoi tesori.

«C’è una cosa che lei potrebbe sapere» esordì Marco sedendosi all’aperto su un capitello, per godere di un po’ di sole dopo la polvere dell’archivio. «Quest’uomo poteva essere l’amante di Myra Leoni?»

Giannone studiò a lungo le fotocopie; in alcune le immagini del volto erano state ingrandite. «Sì» ammise infine, «me lo ricordo. Era un gerarca fascista, ma uno dei migliori, un gentiluomo, senza quelle arie di autorità che molti si divertivano a ostentare.»

«Le dice nulla il nome di Gualtiero Morlacchi?»

«Già, si chiamava così. Era del gruppo di Pavolini, ma come ho detto aveva più stile degli altri. Ora che mi ci fate pensare, era spesso sul set quando recitava Myra, ma nessuno faceva illazioni, perché Cinecittà era alle dipendenze del Ministero della Cultura e dello Spettacolo e i due si comportavano correttamente, come buoni amici. Non come Pavolini, che baciava appassionatamente in pubblico la Duranti. Sapete che per questo si prese una strigliata dal duce (da che pulpito!)? Quando però vide l’attrice in un film, Mussolini dovette ricredersi e congratularsi con Pavolini tanto era bella… Ma di Morlacchi e della Leoni so solo quello che vi ho detto.»

«E non conosce nessuno che possa sapere qualcosa di più?» insistette Marco.

«Forse» riprese Giannone. «Ci sarebbe Sandro. A quell’epoca era un ragazzino e lavorava come aiutante del portiere degli stabilimenti, il famoso Pappalardo, un gigante che decideva chi poteva entrare e chi no. Loro due, come tutti i portieri, sapevano tante cose che non raccontavano in giro.»

«Come possiamo trovarlo?»

«Niente di più facile, abita vicino, vado a telefonargli. Ogni tanto viene qui a farmi compagnia.»

Aspettarono una mezz’ora, aggirandosi tra statue e colonne, finché sul viale non si profilò la sagoma di un ometto grosso come una palla che spingeva i pedali di una vecchia bici cigolante.

Scese davanti al magazzino e si presentò. «Sono Sandro Cosi. È lei, commissario, che mi ha mandato a chiamare?»

Fu messo al corrente della situazione e gli furono mostrate le foto. Sandro si ricordava benissimo dei due.

«Io presidiavo spesso l’esterno, e il colonnello Morlacchi, che era stato un eroe della guerra d’Etiopia, arrivava verso sera con un macchinone nero che guidava personalmente e si metteva fuori ad aspettare. Dopo un poco compariva la Leoni, spesso di corsa, sorridente, con quella corona di capelli biondi che splendevano anche al buio. Saliva sull’auto, e io vedevo che si baciavano rapidamente, poi l’auto partiva.»

«E che fine ha fatto Morlacchi?» chiese Marco.

«Sparì anche lui dopo l’8 settembre» riprese la parola Giannone. «Dopo la guerra di lei non si sentì più parlare, ma di Morlacchi si raccontava che fosse morto su al nord. Di preciso non si è mai saputo nulla, perché pare che avesse trasferito la famiglia in Svizzera fin dai primi anni della guerra, e nessuno di loro è più tornato a Roma.»

«O senti senti» lo interruppe Pisani. «Che famiglia?»

«Il colonnello Morlacchi era sposato con due figli» spiegò Sandro, «e sua moglie apparteneva a una delle più illustri famiglie della capitale. Era una di quelle mogli che non si possono lasciare per correre dietro a un’attrice. Del resto Mussolini se la faceva con la Petacci ma non aveva abbandonato sua moglie, e non era contento che lo facessero i suoi gerarchi.»

«Quindi era un amore segreto e infelice» considerò Marco.

«Segreto di certo» confermò Sandro. «A volte il colonnello mi allungava una bella mancia raccomandandomi di non dire a nessuno che lo avevo visto. Però ormai sono passati tanti anni… Ma perché la Polizia si interessa a queste vecchie storie?»

«Non possono dirlo, Sandro» lo ammonì Giannone. «Ma deve essere qualcosa di grave.»

Fu con vero dispiacere che la mattina seguente, era sabato, Giorgio Mantovani salì in auto con il commissario per fare ritorno a Milano.

Portavano con loro il materiale fotocopiato e un quadro abbastanza preciso della carriera di Myra Leoni, ma nulla che provasse che era un’omicida.

Per buona parte del viaggio Marco rimuginò il caso da tutti i punti di vista: aveva l’impressione che più procedeva nelle indagini, più i sospetti si moltiplicavano, tuttavia le prove rimanevano effimere.

«Veniamo a noi due» proruppe quando si furono lasciati alle spalle Bologna, rompendo il silenzio che Giorgio aveva avuto di nuovo il buon gusto di rispettare.

«C’è un “noi due”?» chiese il ragazzo, subito interessato.

«C’è. In questi giorni ti ho studiato e ti ho messo alla prova. Non ho dubbi che tu sia portato per il nostro lavoro, ma sai bene che il tuo passato non è irreprensibile.» Giorgio sospirò. «Con questo non voglio dire che non puoi uscirne, ma devi rifarti una verginità, non so se mi spiego.»

«Cosa devo fare?»

«Prima di tutto devi essere convinto della strada che scegli; puoi rispondermi anche fra qualche giorno. Come sai bene, facendo il poliziotto non diventerai mai ricco, ma anche nella malavita non vedo i soldi scorrere a fiumi per tutti… In compenso» continuò Pisani superando un grosso camion, «la Polizia sta cambiando e modernizzandosi. Con un diploma di scuola media superiore sarà possibile diventare ispettori e seguire personalmente le indagini, un lavoro a volte noioso ma spesso emozionante e creativo, adatto a uno come te.»

«Ma io non ho il diploma.»

«Lo so, e abitando con tuo fratello non saresti nemmeno ammesso alla Scuola di Polizia. Ma ecco cosa ho pensato. Prima di venire a Roma sono stato a parlare con il capo del personale del Corriere della Sera e l’ho convinto, se sei d’accordo, ad assumerti per un anno o due come aiuto archivista. Lo stipendio è buono, il tempo libero non manca, e tu potresti frequentare le scuole serali e finire gli studi per diventare geometra. Mi rendo conto che sarà dura, ma il lavoro di archivio è una buona preparazione a operare in Polizia. Però c’è una condizione: devi trovarti una camera ammobiliata e andare a vivere da solo. Se non ti stacchi da tuo fratello, mi spiace dovertelo dire, non hai futuro.»

«E mia madre?»

«Abbiamo preso informazioni, anche il dottor Calisti conosce la proposta che ti sto facendo. Tua madre è una brava persona, con lei potresti abitare, ma credo che sarebbe difficile allontanare di casa tuo fratello. Dovete decidere insieme quale sistemazione sia meglio.»

«Lei ha fatto tutto questo per me… Perché?» chiese Giorgio con gli occhi lucidi.

«Noi poliziotti non dobbiamo solo reprimere il crimine, ma anche prevenirlo, e tu sei ancora un bravo ragazzo a cui vale la pena dare una mano. Dunque deciderai tu con chi abitare. Se scegli di stare da solo, Cotunno ti può aiutare a trovare un alloggio, anche lui vive in una camera ammobiliata. E una volta preso il diploma, e sveglio come sei non dovresti fare fatica, entri alla Scuola di Polizia e in capo a un anno puoi intraprendere la carriera di ispettore. Nel frattempo anche gli stipendi dovrebbero essere aumentati.»

«Non so cosa dire…» balbettò Giorgio.

«Pensaci, parlane con tua madre, ma soltanto con lei, e dammi la risposta tra qualche giorno.»

«E per tutto questo tempo non potrò più darvi una mano?» volle sapere il ragazzo, che aveva preso gusto a fare il poliziotto.

«Ma no» lo rassicurò Pisani. «Qualche cosetta, qualche piccola indagine da svolgere nel tempo libero, ci sarà sempre, stai tranquillo» concluse ormai in vista della barriera di Milano.