CAPITOLO 2
SENTORE DI DONNA
Martedì, 14 ottobre 1980
Era quasi sera, il tempo stringeva e ancora non era emerso nulla di significativo. Marco sentiva il malumore crescergli dentro al pensiero del rapporto che avrebbe dovuto fare ai superiori e al sostituto procuratore, che lo aspettavano al più tardi la mattina dopo.
Toccava al giovanotto del piano di sotto, tale Giorgio Mantovani, che, a quanto riferì Improta, era piuttosto agitato. «E ha i suoi buoni motivi» spiegò il maresciallo. «Ha ventiquattro anni ed è stato indagato per furtarelli nei supermercati e per uno scippo, ma l’ha fatta franca e la sua fedina penale è ancora pulita, però io sono sicuro che fa parte di qualche banda di ladri organizzati. Pare che suo fratello sia uno spacciatore, anche se nessuno gli ha mai messo le mani addosso, ma al momento del delitto si trovava in una sala da biliardo con venti testimoni.»
Mantovani entrò nell’ufficio del commissario un po’ titubante, ben vestito e pettinato, interpretando la parte del bravo ragazzo.
«Che lavoro fai per vivere?» lo investì Pisani.
«Scusi, questo che c’entra? Non sono venuto qui per parlare del delitto del piano di sopra?» piagnucolò Mantovani.
«Quello che c’entra lo so io, tu limitati a rispondere.»
«Ecco, voi poliziotti siete tutti uguali; basta che uno sia stato sospettato di un piccolo errore di gioventù che lo trattate come un delinquente…»
Pisani, che stava per perdere la pazienza, lo guardò con ferocia.
«Va bene, va bene» si affrettò l’altro. «Non ho un impiego fisso, solo qualche lavoretto ogni tanto, come scaricare casse al mercato, aiutare qualche amico alla fiera di Sinigaglia al sabato, cose così. Lei deve sapere che quando voi poliziotti prendete di mira qualcuno, è difficile che dopo trovi un lavoro vero.» E si chiuse in un dignitoso silenzio da vittima.
«E ieri pomeriggio cosa facevi in casa?»
«Tentavo di dormire: la notte prima ero stato fuori fino a tardi ad aiutare degli amici che stavano trasportando alcuni mobili da un appartamento a un altro.»
Pisani non aveva tempo per approfondire di che tipo di trasporto si trattasse.
«Avevo bisogno di riposare» aggiunse il ragazzo.
«E che cosa hai sentito e a che ora?»
«Vediamo: mi sono sdraiato verso le tre del pomeriggio e ho letto qualche fumetto, poi ho dormito. Mi sono svegliato che erano quasi le sette, lo so perché ho guardato l’orologio. Sentivo un rumore di tacchi che andavano e venivano al piano di sopra: ci ho fatto caso perché in questi appartamenti si sente tutto e la signora Pina aveva sempre l’educazione di portare le pantofole, in casa.»
«Tacchi femminili?»
«Sì, certo. L’andirivieni è andato avanti con qualche interruzione fin verso le otto, quando è successa una cosa strana: ho udito la signora che abita di fronte, Lavezzi mi pare che si chiami, che suonava e poi chiamava. E pochi minuti dopo che la Lavezzi si era allontanata, ho sentito chiudere la porta e passi per le scale.»
«Sempre femminili?»
«Sì, femminili, e piuttosto circospetti, come di chi cammina non volendo farsi sentire.» Mantovani parlava da persona pratica di tale esercizio.
«Tu non c’entri niente in questa storia?»
«Commissario, lei mi offende!»
Pisani nascose a fatica l’impulso di ridere.
«Lo so che non sono uno stinco di santo…» E sembrava sincero. «Ma non farei male a una mosca. La signora Pina, poi! Lo sa che con noi era sempre più gentile degli altri? Ci salutava, ci chiedeva se avevamo trovato lavoro. Una volta ha anche prestato dei soldi a mia madre. Noi in famiglia siamo rimasti molto colpiti, e se non avessi voluto andarci di mezzo, bastava che dicessi che non avevo sentito niente perché dormivo. Ho raccontato spontaneamente quello che mi è capitato di sentire perché voglio anch’io che l’assassino venga preso.»
E anche questo era vero, pensò Pisani. «Adesso vai, ma tieniti a disposizione» lo congedò. «E riga diritto. Peccato che stai dall’altra parte, perché avresti potuto essere un buon poliziotto.»
«Chissà mai…» ribatté Mantovani infilando la porta.
Era il turno del ragionier Campanini, in paziente attesa da diverse ore. Marco riconobbe in lui il signore dai capelli bianchi che la mattina, in cortile, accusava non ben identificati terroristi.
«Lei, ragioniere, in che appartamento abita?» lo interpellò senza preamboli perché si stava facendo tardi.
«Ho una casa di tre stanze al primo piano, nella parte anteriore del complesso, con le finestre che guardano sulla strada» spiegò l’uomo con un po’ di emozione nella voce. «Purtroppo il palazzo non è elegante, ma è in zona centrale e l’edificio anteriore ha gli appartamenti più belli; inoltre per entrare non devo attraversare i cortili. La mia povera moglie diceva sempre che dovevamo cambiare casa, lei ci teneva, non voleva mescolarsi a certa gente.» Campanini doveva essere di quelli che non salutavano i ragazzi Mantovani. «Ma poi, cosa vuole, lei è morta, io qui ci sto comodo, la casa è mia.»
«Ieri sera verso le otto che cosa faceva?» lo interruppe Marco.
«Commissario, mi spaventa, non sarò mica sospettato? Devo chiamare il mio avvocato?» ansimò Campanini, che era impallidito.
«Ma no, cosa va a pensare, lei è qui come testimone» lo rassicurò Marco reprimendo un sorriso. Overdose di televisione, diagnosticò. «Sappiamo che era alla finestra e che ha visto qualcosa.»
«Sì, sì, certo, mi scusi, è che alla mia età… Dunque, verso sera a me piace stare alla finestra: guardo il naviglio, vedo la gente che passa, anche se ieri sera a causa del freddo e della nebbiolina non ce n’era molta; mi sento meno solo, sa com’è. Era cominciato da poco il telegiornale e siccome io di solito ceno più tardi, ero in poltrona vicino alla finestra e tenevo d’occhio un po’ la tele e un po’ la strada. Così ho visto entrare un gruppo di ragazzi che schiamazzavano: saranno stati tre o quattro, mai visti prima. Il portone era aperto, come sempre, perché Davide, il portinaio, invece di fare il suo lavoro va in giro a bere fino alle nove. Si sono infilati dentro e chissà dove sono andati. Pensa che siano loro gli assassini?»
Pisani si ripromise di chiarire chi erano quei visitatori sconosciuti e da chi erano andati. «Ha visto altro?»
«Di sospetto, nessun altro» dichiarò il ragioniere, sicuro di sé.
«I sospetti li lasci alla Polizia; lei cos’ha visto?»
«Be’, sì, subito dopo dal portone è uscita una donna.»
«Com’era? Giovane, vecchia? Dove si è diretta?» incalzò Pisani.
«Era buio, e c’era un po’ di nebbia, e io l’ho vista solo di spalle. Però era alta, slanciata, con i capelli scuri. Ho avuto l’impressione che fosse una signora, camminava eretta come una persona sicura di sé, era elegante, aveva una giacca chiara, i tacchi alti. Si è diretta verso il centro, sembrava avere fretta. Non saprei dire l’età: l’ho vista solo di spalle.»
«Era la prima volta che la vedeva? Poteva essere un’inquilina del palazzo?»
«Un’inquilina di sicuro non era, da noi nessuno ha quell’andatura e quell’aria da signora.»
«L’aveva anche vista entrare, magari poco prima?» lo incalzò Pisani, che non voleva correre dietro a un’ombra, magari a una donna che si era infilata nel vecchio portone per curiosità.
«No» rispose sicuro il ragioniere. «Ero alla finestra da mezz’ora e non mi sarebbe sfuggita. Ma scusi» ribatté, «non stavate cercando dei rapinatori? Stamattina ho sentito il magistrato dirlo ai giornalisti!»
Santa pazienza, pensò Pisani. Adesso ci si mettevano anche i ragionieri pensionati a fare gli investigatori! «La Polizia non ha ancora nessun sospetto» replicò. «Quindi la prego di non diffondere voci in giro.» E lo congedò prima che formulasse altre ipotesi.
Bastò un rapido giro di telefonate (data l’ora che si era fatta, quasi le otto, Balzoni e Cotunno ebbero la fortuna di trovare qualcuno in ogni appartamento) per appurare che i giovanotti entrati dal portone la sera prima erano a cena da una coppia abitante in un bilocale del terzo cortile e c’erano stati fino a mezzanotte. Ma, cosa più interessante, nessuno nel palazzo aveva ricevuto la visita di una signora elegante in giacca chiara.
Improta si era recato a interrogare Giovanna Fusi, settant’anni ben portati, che viveva con la figlia e il genero oltre a due nipoti.
L’anziana donna si era profusa come gli altri in lodi sulla defunta, si era lasciata prendere da qualche momento di commozione, aveva assicurato che la vita di Pina era senza ombre, sentimentali e non, e si era dichiarata disposta a deporre al processo.
Quale processo, pensò Improta, se non abbiamo ancora il minimo sospetto?
Ormai era tardi per ricevere e interrogare Anna Allotta, la sorella della vittima giunta da Roma, che di certo era stanca e sconvolta. Pisani dispose che una macchina la prelevasse alla stazione per condurla dalla Lavezzi, che si era offerta di accoglierla per la notte.
Era tempo di staccare anche per i suoi agenti, perpetuamente sottoposti a superlavoro. La Squadra Mobile si trovava ridotta all’osso da quando la DIGOS, a causa di attentati, rapimenti, stragi che da troppo tempo insanguinavano l’Italia, faceva la parte del leone nell’assegnazione degli uomini.
La mattina seguente, mercoledì 15 ottobre, alle otto, Marco giunse in ufficio intirizzito perché in quel primo autunno il termometro segnava appena quattro gradi, e come al solito lui era arrivato a piedi da casa sua in via Visconti di Modrone.
Quel grazioso attico, con una terrazzina da cui si vedeva, e pareva quasi di poterla toccare, la guglia della Madonnina, era l’unico lusso che si concedeva, dal momento che, a scanso di cadere nella più nera depressione, non avrebbe potuto vivere in una casa d’affitto ammobiliata, come avrebbe dovuto facendo conto sul solo stipendio.
Quell’appartamento di quattro stanze era appartenuto ai suoi nonni, che lo usavano quando si recavano a Milano per affari o per svago. A lui piaceva la sua aria raffinata e vecchiotta, e si era limitato a sostituire i divani dell’Ottocento con qualcosa di più comodo e a trasformare la stanza della domestica nel suo studio. In quella casa gli pareva di ritrovare l’aria della sua Venezia e ci si rifugiava volentieri.
Raggiunto l’ufficio ordinò subito il caffè al bar, per sé e per il maresciallo, che lo aspettava con la faccia scura. «Problemi a casa, Improta?» gli domandò con simpatia.
«I soliti problemi di soldi, dottore» sospirò l’altro. «Questo mese abbiamo dovuto acquistare i libri di scuola per tutti e tre i ragazzi e adesso ci siamo accorti che bisogna comperare anche i cappotti e le scarpe pesanti, perché come è giusto sono cresciuti. Sembra impossibile, ma due stipendi non bastano, con questa maledetta inflazione che galoppa. Per fortuna c’è l’equo canone degli affitti, ma quando lo toglieranno come se la caverà chi non ha acquistato una casa? E come fare ad acquistarla, se non si riesce a risparmiare una lira e i mutui richiedono interessi del venti per cento?»
Pisani provò una stretta al cuore al pensiero che con un assegno avrebbe potuto risolvere in un attimo i problemi del maresciallo, ma sapeva che la sola proposta lo avrebbe offeso a morte, perciò la buttò sul ridere. «Investa in borsa, Improta. Da gennaio l’indice è salito del settantacinque per cento.»
«Eh, ma per farlo i soldi bisogna averli già» obiettò l’altro, che non coglieva mai l’ironia. «Noi poliziotti siamo chiamati “servi dei padroni”, ma siamo poveracci esattamente come quegli scriteriati che fanno le spese proletarie svaligiando i supermercati, per non parlare delle stragi e degli assassini politici; anzi spesso quelli sono opera di figli di papà.»
«Meglio non pensarci» lo consolò Marco. «Tra pochi mesi, con la riforma della Polizia, le cose andranno meglio. Su, mettiamoci al lavoro. È arrivata la sorella della Accorsi?»
«Sì, è in sala d’attesa col marito e sta ancora piangendo. E, a proposito, ha telefonato il vicequestore, che ha indetto per mezzogiorno una riunione per fare il punto sulle indagini, e si è fatto vivo anche il procuratore Carminati, che mi ha chiesto se abbiamo già individuato i ladri.»
«Ai capi pensiamo dopo, intanto chiami Cotunno a dattilografare» brontolò Pisani. «E controlli gli alibi delle clienti e dei conoscenti i cui nomi sono riportati sull’agenda. Ah, mi raccomando» si ricordò appena in tempo. «Che nessuno contatti la contessa Aldrovandi: con quella bisogna andarci piano.» E accese una sigaretta preparandosi a sentire la Allotta.
La sorella di Pina, Anna Allotta in Cantoni, si accomodò davanti a lui. Era più giovane della vittima di qualche anno, si presentava composta e ben vestita ma con gli occhi gonfi di pianto. Si scusò di non essere arrivata a un’ora decente il giorno precedente, ma aveva preferito aspettare suo marito che si trovava in Sicilia con il suo camion per un trasporto urgente.
Non fu in grado di aggiungere molto a quello che Marco già sapeva della vittima: buona, generosa, ogni tanto andava a trovarla a Roma, era affezionata ai nipoti, un ragazzo di quindici anni e la femmina di dodici.
E anche questo è un vicolo cieco, pensò Marco con una punta di cinismo. Hanno tutti alibi di ferro, anche il cognato che era in Sicilia, e cade la pista di un delitto per l’eredità, dato che i padroncini se la passano bene e questa è gente a posto.
«Quando Pina veniva a Roma» continuava intanto la sorella in tono di rimpianto, «tornavamo a essere due ragazze. Giravamo per Trastevere dove siamo cresciute, andavamo a rivedere i luoghi dove lavoravamo; allora eravamo tanto povere… e adesso mi sembra impossibile che non la vedrò più.» Una crisi di pianto la sopraffece. «Non posso pensarci.» Si ricompose. «Lo sa che Pina era una sarta bravissima?» aggiunse, mentre Marco stava meditando su come congedarla con garbo. «Lavorava in una delle sartorie più note di Roma, che faceva gli abiti anche per Cinecittà.»
Era partita sulla strada dei ricordi, ma il commissario ora non aveva più intenzione di mandarla via e si era fatto attento. «Frequentava il mondo del cinema?» volle sapere. Era il primo particolare interessante che apprendeva della vita altrimenti banale di Pina.
«Be’, frequentare proprio no, ma quando era ragazzina, prima della guerra, spesso accompagnava la lavorante quando faceva le prove dei costumi di scena. Allora le capitava di incontrare dei divi, come la Magnani, Alida Valli, Amedeo Nazzari. Tornava a casa tutta eccitata e mi raccontava quello che avevano detto e com’erano di persona.»
«Non le ha mai raccontato qualcosa di particolare, di segreto?»
«Di pettegolezzi le ragazze della sartoria ne facevano tanti, su chi aveva una relazione, chi era in discesa nelle quotazioni, chi aveva ottenuto una parte per la compiacenza del regista o del produttore, ma non mi ricordo proprio nulla di importante. Ma perché mi chiede queste cose? Non sono stati dei ladri a uccidere mia sorella? Lei pensa che Pina custodisse qualche segreto? Non è possibile… a me aveva sempre raccontato ogni cosa… E poi è passato tanto tempo, con la guerra di mezzo.»
«No, signora» precisò Marco, «non penso affatto che sua sorella custodisse dei segreti, ma nelle indagini è sempre bene sapere tutto. Diciamo che è un vizio di noi poliziotti.»
Rimasto solo, nel silenzio del suo ufficio Pisani riprese a esaminare i reperti e le foto, che appena sviluppate erano arrivate in busta chiusa.
I primi piani del cadavere non risparmiavano nulla all’orrore, erano anche peggio della scena reale, e il commissario si trovò a considerare che aveva scelto un lavoro ben strano quando aveva abbandonato per noia lo studio elegante di suo padre dopo aver superato brillantemente l’esame di stato.
Osservando le foto notò ancora una volta come gli schizzi di sangue si interrompessero per un tratto di mezzo metro vicino al corpo. Cosa c’era stato lì, che l’assassino si era portato via?
Sfogliò l’agenda della sarta: la rubrica riportava i nomi delle amiche, di qualche fornitore, dei parenti di Roma, tutta gente che sarebbe stata contattata. Le pagine di annotazioni giornaliere contenevano gli appuntamenti con le clienti, circa una decina; anche loro sarebbero state sentite.
Eccolo lì il nome della famosa contessa di cui aveva parlato la Lavezzi, la contessa Aldrovandi, abitante in corso Venezia. Il suo nome era ripetuto con una certa frequenza; evidentemente si serviva abitualmente da Pina.
E come mai una signora così in vista si faceva confezionare gli abiti da una sarta del Ticinese? Pina doveva essere proprio brava.
Ma guarda! L’Aldrovandi aveva un appuntamento proprio la sera del delitto. Era segnata alle diciotto, poi un tratto di penna ne aveva cancellato il nome: forse l’appuntamento era stato disdetto. Era una cosa da verificare.
E c’erano quelle misteriose paillettes d’argento. Misteriose perché Pina non aveva nessun abito di quel tessuto in lavorazione, e le paillettes erano rimaste attaccate a una pattina servita a qualcuno, forse all’assassino, per cancellare le sue impronte sul pavimento.
Si accese una sigaretta e cominciò a scribacchiare su un taccuino i punti fermi raggiunti in quelle prime, convulse ore di indagini e quelli, molto più numerosi, rimasti oscuri.
Si era trattato di una rapina finita nel sangue? Marco ci credeva sempre meno. Anche dalle foto si notava che il disordine pareva una messa in scena, non c’era nulla di casuale, per esempio un vaso rovesciato, i segni di una ricerca convulsa in bagno o in cucina, dove molta gente nasconde i soldi nei barattoli. Sembrava che il ladro fosse andato a colpo sicuro su denaro e gioielli, come se conoscesse la casa.
Poi lo lasciava perplesso quella pulizia meticolosa; quanti avrebbero avuto il sangue freddo di eseguirla? Solo un delinquente abituale e schedato, proprio il tipo che, come aveva osservato Improta, difficilmente avrebbe perso la testa fino ad arrivare a commettere un omicidio. E il poco denaro che Pina teneva in casa come avrebbe potuto interessare un ladro di professione? In qual modo poi un ladro o un balordo avrebbe potuto introdursi in casa, visto che le finestre erano protette da inferriate, la porta era dotata di catena di sicurezza e Pina, come aveva assicurato la Lavezzi, non era donna da aprire incautamente a sconosciuti?
Allora era stato un conoscente, che dalle impronte avrebbe potuto essere identificato. Ma chi poteva essere e a quale scopo ucciderla? Pina era benvoluta da tutti, non si tirava indietro nemmeno se c’era da prestare denaro. Anzi, da quello che aveva sentito, un coro unanime di conoscenti ne cantava le lodi.
Eppure, in quel mare d’amore, doveva esserci per forza qualcuno che non le voleva bene, che la temeva e la considerava un pericolo. Il problema era identificarlo.
La donna di sicuro non era vittima di usurai: l’esame di Improta della corrispondenza con la banca aveva evidenziato un capitale di quasi cento milioni in titoli di stato, oltre al denaro sul conto corrente e ai due appartamenti. L’incontro con la sorella aveva escluso che i parenti mirassero in anticipo all’eredità.
Quello spillo che la Scientifica le aveva estratto dalla bocca e la scatola da lavoro aperta posata sul divanetto facevano pensare che Pina fosse stata sorpresa mentre era intenta a cucire, ma nel salottino, vicino al cadavere, non c’era alcun abito in lavorazione; erano tutti ordinatamente riposti sulle stampelle nell’armadio. Forse l’abito si era trovato sotto il cadavere, ed era questo che l’assassino aveva preso. Ma perché?
Marco tornò a pensare a una persona conosciuta, anzi gli pareva che tutto indicasse sempre più una donna: l’uso delle forbici, il rumore dei tacchi, la pulizia dei locali, la messa in scena del furto e infine la sagoma femminile intravista dal ragionier Campanini, che si era persa nella nebbia.
Prima della riunione con i capi, Pisani convocò i suoi uomini.
«Io e Balzoni abbiamo fotocopiato l’indirizzario dell’agenda e ci siamo divisi i nomi» riferì Improta. «Nessuno, né clienti né conoscenti, ci sembra sospetto. I fornitori sono da scartare perché la Accorsi non si faceva mai portare la roba a casa, e nessuno comunque è andato da lei il pomeriggio del delitto. Abbiamo indagato tra le clienti: un’insegnante e due casalinghe a quell’ora erano a passeggio, ma non mi sembra il caso di inserirle tra i sospetti, perché una era in compagnia di un’amica e le altre hanno fatto un giro per negozi, dove qualcuno certo le ricorda, e si può verificare. Le altre erano al lavoro.»
«Il solito vicolo cieco» commentò Pisani, avviandosi di malumore verso l’ufficio del vicequestore. «Hanno ragione i giornalisti: la Polizia brancola nel buio.»
Oltre al capo della Mobile dottor Gagliani e al vicequestore Gianni Calisti, Pisani non si stupì di essere atteso anche dal sostituto procuratore Carminati, impeccabile in un completo grigio con cravatta in tinta, di un tono più scura.
«Commissario Pisani» si sentì subito apostrofare da quest’ultimo, «ha trovato l’assassino?»
«Non è così semplice, dottor Carminati» rispose Marco con pazienza. «L’indagine è appena incominciata.»
«Che cosa non è semplice?» ribatté l’altro, mentre Calisti e Gagliani si scambiavano un sorriso a fior di labbra. «Per trovare il ladro avrete almeno iniziato a setacciare i ricettatori, a sentire i vostri informatori, a frugare nell’ambiente dei drogati!»
Erano proprio le cose che Pisani non aveva fatto, e per motivi che sarebbe stato troppo lungo spiegare al magistrato. Si ripromise però di fare qualche ricerca negli ambienti della malavita, anche se gli dispiaceva impiegare gli uomini già provati da indagini a tempo pieno in un lavoro del tutto inutile.
«Stiamo frugando in ogni direzione» mentì spudoratamente. «Ma lei conosce meglio di me gli ambienti della mala milanese: prima di trovare la pista giusta occorre del tempo.» Colse lo sguardo divertito di Calisti, che gli fece un cenno d’intesa.
«Domani voglio qualche risultato, anche se la vittima non è il tipo di persona che ci scatenerà addosso la stampa» concesse Carminati con magnanimità. «Però i giornali hanno già parlato della rapina e se non trovate qualche traccia del ladro la gente comincerà a dire che la Polizia non si dà da fare per proteggere i cittadini e che la magistratura sta a guardare…»
E con aria contrariata indossò il suo trench inglese e uscì impettito.
Calisti e Gagliani sospirarono.
«Pisani» esordì il capo della Squadra Mobile, che stimava il fiuto del giovane commissario, «continui per la sua strada; per noi della Polizia l’omicidio di una sarta non è meno importante di quello di un politico. So che lei sta facendo tutto il necessario. Riferisca pure al dottor Calisti lo stato delle indagini e mi informi appena approda a qualche risultato.»
E anche lui se ne andò di fretta, dove la sua presenza era richiesta con maggiore urgenza.
«Allora, Marco, cos’hai da riferirmi?» gli chiese Calisti una volta chiusa la porta.
Il vicequestore era un distinto cinquantenne dalla corporatura atletica in contrasto con i capelli precocemente incanutiti. Padovano, appena laureato aveva lavorato nello studio del padre di Marco con cui era rimasto in ottimi rapporti. Passato poi alla Questura meneghina, si era creato la fama di uomo intelligente e coraggioso, e si dovevano a lui le spericolate retate che avevano portato all’annientamento, negli anni Sessanta e Settanta, di alcune pericolose bande organizzate nell’hinterland milanese.
Dal suo ufficio di vicequestore continuava a interessarsi delle azioni della Mobile e qualche volta si trovava a rimpiangere di non poter più agire sul campo.
«È un delitto molto strano» si confidò Pisani. «La rapina sembra una messa in scena, la casa è stata accuratamente ripulita con grande sangue freddo, e le modalità dell’uccisione, molti particolari e qualche testimonianza mi fanno pensare all’operato di una donna piuttosto che a un malvivente.»
Pisani ragguagliò il superiore sulle scoperte più interessanti fatte fino a quel momento.
«D’altra parte» concluse, «la vittima era benvoluta da tutti, non aveva segreti, non riesco a capire per chi potesse costituire un pericolo. Il delitto è assurdo perché manca di ogni possibile movente.»
«Hai già interrogato tutti i conoscenti?»
«Praticamente sì, a parte la contessa Aldrovandi, che era una cliente.»
«L’Aldrovandi, quella degli elettrodomestici?» si meravigliò Calisti. «La vedova del conte Riccardo? Come mai usava la Accorsi come sarta?»
«Pare che fosse molto brava.»
«Con quella vacci piano» si raccomandò Calisti. «Non vorrei grane con i superiori e la procura; conosci anche tu Carminati.»
«Andrò personalmente a casa sua» lo tranquillizzò Marco. «Non penso certo di convocarla in Questura, però è necessario interrogare anche lei, perché aveva un appuntamento proprio all’ora del delitto.»
In ufficio trovò ad attenderlo il referto della Scientifica sugli abiti della vittima: non c’era nulla di interessante, tranne la presenza, sulla gonna, di qualche filo di canapa, del tipo di tessuto, come avevano appurato gli esperti, che una sarta avrebbe potuto usare per fare il modello di prova di un abito.
Dunque Pina, si trovò a considerare Marco, poco prima di morire stava lavorando a un abito o, meglio, a un modello in canapa, che l’assassino o l’assassina si era portato via. Questo avrebbe spiegato l’alone privo di macchie di sangue sul pavimento intorno al cadavere. Pina doveva essere caduta sulla stoffa che aveva in mano e che l’omicida le aveva poi sfilato da sotto perché si trattava di una traccia che poteva costituire una prova agli occhi degli inquirenti. Il modello avrebbe permesso di risalire alla cliente. E questo era un fatto.
Quel giorno era prenotata in agenda solo la Aldrovandi, ma la riga sul nome faceva pensare che avesse disdetto l’appuntamento; si poteva però presumere che fosse arrivata qualche altra signora all’improvviso. Ma ammettendo invece che l’Aldrovandi ci fosse andata, e poi fosse successo qualcosa che l’aveva indotta a ucciderla (per fortuna Carminati non poteva immaginare che Marco avesse elaborato quella ipotesi!), a tracciare una riga con la penna sul suo nome le sarebbe occorso poco.
Era inoltre vero che in casa della vittima erano state rinvenute due paillettes che provenivano da una stoffa che non era stata trovata. La Lavezzi aveva parlato di un abito d’argento per la contessa. E quale altra cliente di Pina si sarebbe mai fatta un vestito da gran sera?
Marco si sentì male al pensiero dell’Iliade di guai che si sarebbero scatenati a indagare sull’Aldrovandi, ma non poteva negare che i pochi indizi cominciavano a convergere su di lei. Era il momento di sentirla.
Chiamò il maresciallo. «Improta, organizzi immediatamente l’esame dei tabulati telefonici della vittima, almeno per il giorno del delitto. Poi, sfoderando tutta la sua diplomazia e spiegando che è la prassi che ci obbliga, prenda appuntamento con la Aldrovandi per metà pomeriggio o per quando è comoda, senza che debba spostare i suoi impegni di lavoro. Andremo noi due. E, mi raccomando, in divisa.» Richiamò il collega mentre si allontanava. «Abbia pazienza, ma bisogna accontentare Carminati, altrimenti continuerà a tormentarci. Avverta Cotunno e Balzoni di contattare qualche informatore per sentire se in giro si parla della rapina. Poi si facciano dare dalla Lavezzi la descrizione dei gioielli e vadano a vedere al Monte di Pietà e indaghino presso qualche ricettatore, ma senza affannarsi troppo.»
Marco sentiva montargli dentro una scarica di adrenalina, il pensiero si faceva chiaro, cominciava a intravedere le tessere del mosaico combinarsi tra loro, come sempre quando un’inchiesta iniziava a dare i suoi frutti.