CAPITOLO 9

UNA STRAGE DIMENTICATA

Lunedì, 3 novembre 1980

Tornato da Roma, il lunedì mattina il commissario Pisani indisse una riunione per fare il punto sul caso Accorsi.

Sapeva che nei giorni seguenti le sue ricerche avrebbero di nuovo segnato il passo, perché un fatto di sangue aveva aperto uno squarcio nel vasto e ramificato scenario della malavita organizzata. I corridoi della Questura erano teatro del viavai di agenti e loschi figuri.

La DIGOS, dal canto suo, aveva più che mai bisogno di aiuto per gestire gli interrogatori di una valanga di terroristi che avevano deciso all’improvviso, tutti insieme, di mettersi a parlare. Un’occasione da non perdere, nella speranza che l’epidemia di pentitismo fosse un segnale che gli “anni di piombo” erano al termine.

Per fortuna, nel caso Accorsi, Carminati non costituiva un intralcio. Il sostituto procuratore continuava infatti a rimanere all’oscuro dell’avanzamento delle indagini e si era ormai dimenticato di quello che continuava a considerare un banale omicidio a scopo di rapina.

Calisti aveva messo il suo ufficio a disposizione, ed era presente anche Laura Lippi, la cui esperienza di psichiatra serviva per interpretare la singolare personalità di Olimpia Cavenaghi.

Pisani raccontò con precisione la storia dei primi passi di Olimpia nel mondo del cinema. «Il guaio è» concluse, «che siamo giunti a sospettare la Cavenaghi anche del delitto Serra e abbiamo appurato che il suo amante, il colonnello Morlacchi, è scomparso durante la guerra in circostanze dubbie ma non abbiamo alcuna certezza della responsabilità di Olimpia in nessuno dei due casi. La povera Pina era al corrente di un segreto pericoloso dei tempi di Roma? Chissà.»

«Una cosa si può affermare» mormorò Laura quasi parlando a se stessa. «La nostra Olimpia porta sfortuna a chi le sta attorno, è come se attirasse i guai.»

I presenti la guardarono con attenzione.

«Pensateci» continuò arrotolando intorno a un dito una ciocca di capelli rossi. «Prima la Serra, che l’aveva presa in simpatia, viene uccisa. Poi scompare il suo amante, sia pure durante la guerra, ma in circostanze mai chiarite. Il futuro genero poco prima delle nozze precipita con l’auto in un burrone, spinto da un misterioso TIR. Il marito è stroncato da un infarto, e questo forse è l’unico decesso insospettabile. E adesso anche la sua sarta è stata uccisa.»

«Quello che lei dice, dottoressa, è da prendere in esame. Ma per ora partiamo dall’unico fatto certo» ragionò Calisti. «La morte di Pina Accorsi, di cui la contessa è sicuramente colpevole, anche se non abbiamo ancora individuato il movente. Mi pare che lei, Improta, ci possa dire qualcosa di nuovo in proposito.»

«Ero tanto preso dal racconto del commissario che quasi dimenticavo» disse il maresciallo. «Ma racconta tu, Balzoni, che sei il protagonista.»

Balzoni, già roseo di colorito, diventò tutto rosso all’idea di fare rapporto al vicequestore.

«Solo venerdì» esordì infine, «ho trovato una mezza giornata per andare a Torino. Avevamo già individuato per telefono i negozi eleganti che vendono stoffe con paillettes d’argento. Non c’era da temere che informassero la contessa sulle nostre ricerche perché, come ha pensato il maresciallo, per comperare di nascosto un nuovo taglio di stoffa l’Aldrovandi di sicuro si è servita presso un negozio in cui non era conosciuta.»

Balzoni riprese fiato dopo quel discorso troppo lungo per la sua timidezza e bevve un sorso d’acqua.

«Al secondo negozio che ho visitato, in via Madama Cristina, la commessa si è ricordata dell’Aldrovandi e l’ha riconosciuta nelle fotografie che ha scattato Cotunno. Era sicura che la signora avesse comperato un taglio di stoffa con paillettes d’argento. Non ne vendono molta, di stoffa così, dato il prezzo. Si ricordava pure che la signora aveva pagato in contanti anziché con un assegno, come fanno di solito le clienti per le spese considerevoli.»

«Qualcuno si ricorda che sia entrata al cinema Cavour il pomeriggio del 13 ottobre?» chiese Pisani.

«Un buco nell’acqua» rispose Cotunno. «Lì sono andato io con una foto e ho intimato alla cassiera di tenere la bocca chiusa nel caso rivedesse la signora. Però è passato troppo tempo e non si ricordava di averla vista quel giorno preciso, anche se la fisionomia non le era nuova.»

«E siamo al punto di partenza» concluse Pisani. «È certo che l’Aldrovandi è l’assassina di Pina Accorsi, ma le prove non sono sufficienti per incriminarla, e il movente continua a essere oscuro.»

«Proviamo a seguire altre strade» intervenne Laura. «Ti ho già fatto osservare che il motivo che può aver spinto l’Aldrovandi a uccidere Pina deve essere molto grave e di sicuro si annida nel passato, perché sulla vita che ha condotto a Milano negli ultimi dieci anni non ci sono ombre, e nel periodo che ha trascorso a Rimini non può essersi incrociata con la povera sarta. Non è stato un raptus di follia perché l’Aldrovandi si è lucidamente trattenuta sulla scena del crimine il tempo necessario per confondere le tracce. Quindi il solo motivo per il quale può avere commesso un omicidio è quello di nasconderne un altro, e quest’altro deve essere per forza legato agli anni di Roma.»

«Ineccepibile» la interruppe Calisti. «Ma a Roma il commissario non ha trovato tracce.»

«Laura ha ragione» replicò Marco. «Il fatto può essere legato agli anni di Roma ma non essere necessariamente avvenuto nella capitale. Di quegli anni c’è un mistero da chiarire: la scomparsa di Olimpia e del suo amante dalla capitale dopo l’8 settembre del ’43. Dobbiamo sapere qualcosa di più del colonnello Morlacchi. Pare che sia stato ucciso al nord, probabilmente nel territorio della Repubblica di Salò. Dopo la guerra lei riapparve da sola a Rimini, dove aprì una gioielleria, circostanza che ci potrebbe ricondurre al caso Serra. Quindi la prima cosa da fare è indagare sulla fine di Morlacchi.»

«So a cosa pensi» considerò Calisti. «La nostra contessa potrebbe essere stata coinvolta in un fattaccio tra fascisti e partigiani avvenuto gli ultimi anni di guerra, un territorio minato da esplorare. Troverai gente che vuole parlare anche troppo e a vanvera, e altri che vogliono solo dimenticare. Gli animi sono ancora caldi, almeno quelli dei vecchi. E resta da dimostrare cosa c’entri Pina Accorsi.»

«Però» replicò Marco, «visto che non abbiamo altro in mano, seguiamo la pista Morlacchi. Potremmo anche scoprire le prove di un altro delitto, chissà… Con questa donna le indagini sembrano non toccare mai il fondo.»

«E come pensi di muoverti?»

«Avrò bisogno di qualche aiuto esterno. All’Università conosco un professore di storia del fascismo che con un po’ di tempo a disposizione non si rifiuterà di fare una ricerca sulla vita del colonnello Morlacchi, e magari anche su quello che si sa della sua morte. Finora me ne hanno parlato solo un magazziniere e un aiuto portiere, e con tutto il rispetto non credo che mi abbiano informato su ogni particolare. Inoltre il dottor Galli, il direttore degli stabilimenti di Cinecittà, mi ha raccontato che dopo l’armistizio il cinema italiano continuò a lavorare a Venezia, dove erano stati trasferiti macchinari e attrezzature. Lì, nei padiglioni della Biennale, si giravano film, si facevano feste come in precedenza a Roma. Allora penso che al Palazzo del Cinema al Lido ci siano ancora le immagini dell’epoca. Se troviamo qualche foto che ci mostra Olimpia insieme a Morlacchi, saremo in possesso della prova che dopo l’8 settembre la nostra signora non è scomparsa ma ha accompagnato il suo amante al nord. Non so a cosa potrebbe servire, ma vale la pena metterlo in chiaro. E da ultimo faremo una puntata a Rimini: anche da lì può venire fuori qualcosa, qualcuno che si ricorda di Olimpia…»

«Che strana indagine!» commentò Calisti. «Tutta condotta sul filo della memoria dei vecchi. Pensate» continuò, «sono passati più di quarant’anni, c’è una guerra di mezzo, documenti distrutti, è crollata la monarchia, è nata la repubblica, c’è stata anche la guerra fredda, scoperte scientifiche, progresso tecnico inimmaginabile, e questi settanta/ottantenni si ricordano ancora di cosa facevano in gioventù, sono in grado di ricostruire eventi, impressioni, stati d’animo; si ricordano di Olimpia Cavenaghi! Hanno una memoria da elefante! Fanno paura! Ma tu procedi pure, Marco, sei sulla buona strada: sarà la memoria dei vecchi a incastrare prima o poi la nostra signora, me lo sento. In fondo anche Pina Accorsi è stata probabilmente uccisa per qualcosa di cui si ricordava e che avrebbe fatto meglio a dimenticare.»

Fu soltanto il giovedì seguente, nel pomeriggio, che Marco trovò uno spiraglio di tempo e poté recarsi alla Statale in via Festa del Perdono, dal professor Luca Clerici, specialista di storia del fascismo.

Nel suo ufficio affacciato sui chiostri, da cui salivano le voci degli studenti, senza specificare il motivo Pisani espose la necessità di conoscere il più a fondo possibile vita, morte e miracoli del colonnello Gualtiero Morlacchi, che nel ’38 era sottosegretario alla Cultura Popolare.

«Come mai la Questura si interessa di storia?» chiese il professore, incuriosito. Era un uomo sui cinquant’anni, appena sovrappeso, con un naso importante; Marco lo frequentava volentieri da quando lo aveva conosciuto in casa di amici.

«Scusami, Luca» rispose Pisani, «te lo dirò a suo tempo, perché fa parte di un’indagine in corso.»

Il professore si mise a ridere. «Ecco la prova che hanno torto quelli che dicono che la storia è inutile: serve addirittura a risolvere le indagini di Polizia!»

«So che sei molto occupato» proseguì Marco. «Ma posso chiederti quando conti di darmi qualche notizia?»

«Non si può mai prevedere a priori quanto tempo richiederanno le ricerche, ne sai qualcosa anche tu. A volte vanno lisce, altre subiscono intoppi che fanno perdere giornate intere. Qui si tratta di partire dai libri e approdare probabilmente a documenti di archivio. Forse ci sarà da spostarsi in qualche altra città. Se il tuo Morlacchi era un gerarca della Repubblica di Salò, può aver lasciato le sue tracce per tutto il nord. In più c’è il mistero della sua morte, che non è detto si riesca a risolvere. Tanti fatti di quel periodo rimarranno per sempre oscuri. Naturalmente non farò tutto da solo, te lo puoi immaginare, ma ho un bravo assistente a cui posso affidare il grosso del lavoro. Magari può uscirci un articolo per una rivista specializzata…»

«Sì, ma alla fine delle indagini» si raccomandò Marco.

«Naturalmente» promise Clerici.

Il mattino seguente Pisani andò in ufficio all’alba per dedicarsi ai suoi rapporti. A mezzogiorno aveva infatti appuntamento con Laura alla Stazione Centrale. Invitata più volte dalla madre di Marco, il giorno dopo avrebbe potuto aiutarlo nelle ricerche d’archivio al Palazzo del Cinema di Venezia.

Nell’atrio della stazione la scorse da lontano. Si trovò a pensare che era molto carina, avvolta in un cappotto blu che faceva risaltare i riccioli fiammeggianti. Sembrava anche emozionata perché era la prima volta che passava un fine settimana a Venezia, ospite dei genitori di Marco, che aveva incontrato solo in occasione delle loro brevi visite a Milano.

Stava calando il sole quando i due, dopo aver percorso un intrico di calli, ponti, campi e salizàde che Marco conosceva a menadito, sbucarono sul grande campo Santa Margherita circondato da negozi e caffè.

Pisani si fermò un attimo davanti all’antico palazzo di famiglia, dove nel pórtego del primo piano si vedevano splendere i grandi lampadari di Murano che sua madre teneva accesi quando aspettava qualcuno.

Laura rimase attonita ad ammirare le nobili forme dell’edificio originate dalla sovrapposizione di elementi architettonici di epoche diverse, che non nascondevano le belle linee gotiche originarie.

«E questa è casa tua?» non poté trattenersi dal chiedere.

«Bella, vero?» Marco sorrise. «E aspetta di vederla dentro…»

Aprì il portone esterno con la chiave e aggirando la vera da pozzo le fece strada attraverso il giardino e poi su per lo scalone coperto che portava al primo piano.

Qui suonò a una porta settecentesca e subito si sentì la voce squillante di sua madre che annunciava: «È Marco! Sono arrivati!».

«Lauretta, che piacere averti qui» esclamò Elena Pisani aprendo e abbracciando i due giovani, quindi li guidò nel salone dove Annetta stava servendo il tè.

«Benvenuto, signorino… cioè… signor Marco» si corresse l’anziana tata, che corse a stringerlo mentre Laura sogghignava.

«Non è quel che mi hai detto» disse poi la madre, «ma lasciami indovinare: siete qui per lavoro.»

«Ma no, mamma, il lavoro sarà una cosa breve» si difese Marco. «Avremo tempo per stare insieme.»

«Non volevo rimproverarti, mi chiedo solo come mai a Milano la gente non riesca a stare un attimo lontana dal lavoro. Succede anche a te, Laura?»

«Oh sì» rispose la ragazza. «E adesso, che ho solo il lavoro in ospedale, qualche visita privata e alcune consulenze, mi ritrovo un po’ di tempo libero. Ma quando facevo la specializzazione e lavoravo in ospedale, il ritmo era infernale.»

«Sono scelte» considerò Elena, una volta che si furono seduti, sorseggiando il suo tè. «Ma temo che così molte cose belle della vita vadano perdute.»

«Vedi, mamma» intervenne Marco inghiottendo un pasticcino, «Milano ha il suo fascino, ma non è Venezia, non è una città che si presti alla contemplazione. E allora viene l’istinto di fare, fare, fare.»

«Ma tu a Venezia ci sei nato, e hai scelto di andartene…» osservò sua madre.

«È vero, e tu sai perché, ne abbiamo parlato molte volte. L’eccessiva, soprannaturale bellezza di questa città finisce per addormentare; almeno a me faceva questo effetto. Per sentirmi vivo io devo credere di essere utile a qualcuno, di poter prevenire qualche tragedia, di evitare qualche dolore, altrimenti non riuscirei ad andare avanti giorno per giorno, solo per me stesso, nella bambagia. Però Venezia mi manca molto…»

Laura ascoltava la conversazione guardandosi intorno. Il grande salone su cui, come in tutti i palazzi veneziani, si aprivano le porte delle altre stanze, si affacciava sulla piazza con un’imponente vetrata piombata. Il soffitto era affrescato con scene mitologiche, e grandi ritratti di famiglia di tutte le epoche ornavano le pareti.

I divani settecenteschi laccati in colori pastello erano di sicuro autentici, come i tavoli da muro e i due trumeau gemelli che inquadravano le finestre sul dietro. Laura non credeva che si potesse vivere in un posto più simile a un museo che a una casa. «Che meraviglia!» si lasciò sfuggire.

«Sì, è una sala molto bella» ammise Elena. «Ma qui a Venezia questi palazzi sono meno rari di quanto si creda. Vedi, nel passato ogni famiglia nobile ne aveva uno o due, e quasi tutti si sono conservati più o meno in buone condizioni. Questo apparteneva alla mia famiglia, che si estinguerà con me, unica figlia femmina. Siccome è enorme, noi occupiamo il primo piano; sopra vive mia figlia con suo marito e le bambine. L’ultimo piano, che ha una scala indipendente, è stato diviso in appartamenti in affitto, perché le stanze non cadano in rovina. Qui a Venezia la manutenzione è un vero problema. La particolarità di questa casa è che ogni piano ha un pòrtego, cioè un salone centrale. Ma vieni, ti faccio vedere la stanza che ti ho preparato» continuò sempre rivolta a Laura. «Così ti puoi rinfrescare prima di cena. Questa sera in tuo onore ho invitato tutta la famiglia.»

Un po’ confusa, Laura seguì Elena che le mostrò la casa, nelle cui stanze si mescolavano armoniosamente arredi del passato e tracce di vita quotidiana. In cucina Annetta era già intenta a preparare la cena.

«Ma fa tutto da sola?»

«Ma no» rispose Elena. «Annetta è una di famiglia. Ha allevato i miei figli, non permetterei mai che si ammazzasse di lavoro in questa casa enorme. C’è una donna a ore per il guardaroba, e per le pulizie mi affido a un’agenzia. Però la cucina nessuno riesce a portargliela via; guarda male anche me se ogni tanto preparo qualcosa.»

La sera, nella vasta sala da pranzo, a capotavola li accolse l’avvocato Pisani, il padre di Marco. Era il ritratto del figlio di lì a trent’anni, con gli stessi occhi blu ma con un’aria più burbera. Laura si chiese se anche Marco col tempo avrebbe assunto quella fisionomia severa che la metteva un po’ in soggezione.

La serata fu piacevole, in compagnia della sorella di Marco che non smetteva di chiacchierare e subissava Laura di domande sulla professione di psichiatra e il marito che discuteva di politica con Marco e il suocero.

«Così tu saresti una strizzacervelli» considerò a un certo punto Simona, la figlia maggiore, una bimbetta di otto anni.

«Be’, quasi. Ma lavoro anche per la Polizia.»

«E lo zio è il tuo poliziotto preferito…» concluse con aria sicura la bambina, mentre Laura arrossiva.

Il mattino seguente, al Palazzo del Cinema al Lido, Marco e Laura furono accolti dall’addetta stampa, la dottoressa Ciarli, una bionda dinamica dall’aria modaiola, che aveva rinunciato alla giornata libera per aiutare la Polizia.

«A volte mi chiedo se sto facendo un’indagine o una tesi di laurea» commentò Marco mettendo piede nell’ennesimo archivio.

Furono fortunati: da uno dei primi pacchi di fotografie messi a loro disposizione dalla dottoressa Ciarli, tra le immagini del Cinevillaggio, come erano stati battezzati i padiglioni della Biennale che accoglievano i set, c’erano le foto della cerimonia di inaugurazione dei primi del ’44.

Vi apparivano il ministro Mezzasoma, il direttore generale Giorgio Venturini e, con l’uniforme della Guardia nazionale, il colonnello Gualtiero Morlacchi.

Le immagini della festa che era seguita lo ritraevano più volte accanto a una bella bionda scintillante di lustrini che era senza ombra di dubbio Olimpia Cavenaghi, in arte Myra Leoni.

I due apparivano mentre brindavano allo stesso tavolo, oppure allacciati in un passo di danza, o ancora mentre ridevano insieme di chissà quale battuta. L’impressione era che non avessero molte reticenze a farsi vedere in coppia.

«Un passo avanti l’abbiamo fatto» commentò Marco sul vaporetto che li riportava in centro. «Dopo l’8 settembre Olimpia non è sparita ma ha seguito il suo amante al nord, e lui si è arruolato nell’esercito della Repubblica di Salò.»

«Quindi» concluse Laura, «non ci resta che aspettare l’esito delle ricerche del professor Clerici.»

«Ma nel frattempo ci godiamo Venezia. Questa sera ti porto all’Harry’s bar, e domani andiamo a prendere l’aperitivo da Florian, in piazza San Marco. Venezia la preferisco nelle mezze stagioni, quando c’è poca gente e la nebbiolina la fa sembrare magica.»

Quando il lunedì seguente arrivò in ufficio, Marco fu quasi assalito da Improta che gli faceva la posta in sala agenti. «Commissario» lo apostrofò, «ci sono novità.»

«La ricerca di Clerici è pronta?»

«No, ma c’è dell’altro.»

«Allora prima prendiamo un caffè» decise Pisani, «perché mi sono svegliato tardi e non ho fatto colazione. Anzi, prendiamolo tutti insieme: offro io.»

Davanti alle tazze fumanti Marco informò la squadra sui fatti emersi a Venezia e finalmente diede la parola a Improta.

«Venerdì sono successe due cose» esordì il maresciallo. «Si è fatto vivo Giorgio Mantovani, che ha accettato di mettersi a lavorare e stamattina si presenta al Corriere. Verso sera andrà con Cotunno a cercare una camera dove trasferirsi. Sembrava molto contento: ha detto che sua madre non finiva di benedirci…»

«E l’altra cosa?»

«Questa è un po’ strana» continuò Improta. «Non gliel’ho detto prima perché lei era sempre immerso nel lavoro, ma mi sono preso la libertà, queste ultime due settimane, di mandare ogni tanto qualcuno dei ragazzi dalle parti di corso Venezia, a vedere se la contessa Aldrovandi facesse sempre la solita vita, se uscisse normalmente di casa, tanto per capire se avesse fiutato le nostre indagini e pensasse di prendere il largo.»

«Bravo, Improta, io non ci avevo pensato» lo lodò Pisani.

«Per combinazione, proprio venerdì nel primo pomeriggio, Cotunno era appostato in macchina quando l’ha vista uscire con l’auto guidata dall’autista e con una valigia. Si è insospettito e li ha seguiti. L’autista l’ha accompagnata alla clinica La Madonnina, dove la contessa è stata ricoverata. Conosco un paio di infermiere e non mi è stato difficile venire a sapere che deve sottoporsi a un intervento di natura ginecologica. Di più non mi hanno voluto dire.»

«Anche se non è successo niente» concluse Marco, «lei ha avuto una buona intuizione a tenerla d’occhio, cosa che continueremo a fare, con grande discrezione, anche quando sarà tornata a casa.»

Le due settimane che seguirono, sempre fitte di impegni, non portarono nessuna novità; Marco era impaziente di conoscere l’esito delle ricerche del professor Clerici, che invece non si faceva vivo.

«Gli storici non hanno proprio il senso del tempo…» lo si sentiva borbottare ogni tanto, la mano sul telefono, trattenendosi ogni volta dal chiamare per il timore che a mettergli fretta Clerici gli fornisse materiale incompleto.

Finalmente la sera di venerdì l’amico gli comunicò che la ricerca era pronta. Marco prese appuntamento per il lunedì seguente: voleva andare a discuterne di persona.

Era però destino che l’indagine subisse una nuova battuta d’arresto. Alle 19.34 di domenica 23 novembre, un terremoto apocalittico distrusse l’Irpinia, il Salernitano e la Basilicata, tutta la fascia appenninica tra Caserta e Matera.

In una sola notte di scosse ininterrotte furono rase al suolo decine di paesi. A Balvano il crollo della chiesa travolse settanta bambini che si stavano preparando alla prima comunione.

Cotunno, che era di Sant’Angelo dei Lombardi, uno dei paesi coinvolti, si precipitò a casa. Per fortuna i suoi, che abitavano in un cascinale, avevano fatto in tempo a mettersi in salvo. Ma al suo ritorno raccontò episodi terrificanti: l’ospedale appena inaugurato e interi condomini erano crollati, perché a suo tempo i costruttori avevano usato più sabbia che cemento. Da sotto le macerie le urla e i gemiti dei sepolti si erano uditi per tre giorni, ma a parte qualche volontario, ad aiutare c’erano solo venti vigili del fuoco, privi di martelli pneumatici, scavatrici, trapani. Quando finalmente, scortati dalla Polizia, erano arrivati i soccorsi, molti che avrebbero potuto salvarsi erano già morti.

Con gli effettivi ridotti, per settimane la Questura di Milano funzionò al limite delle possibilità. Gli agenti facevano doppi e tripli turni per sopperire all’assenza di numerosi colleghi che si erano offerti volontari ed erano partiti per le terre martoriate a scavare tra le macerie, costruire ospedali da campo e baraccopoli, distribuire beni di necessità immediata. E tutto questo in mezzo alle polemiche dei giornali che accusavano le autorità di essersi mosse tardi e con incompetenza.

Fu un brutto periodo, che Marco visse male. Che anno terribile, questo 1980, pensava. Non solo la crisi economica che aveva portato i disoccupati a quasi due milioni, l’inflazione che galoppava, gli scandali finanziari, gli attentati dei terroristi rossi e neri. Sembrava che il destino si fosse accanito contro il Paese.

Ma si poteva chiamare destino l’abbattimento del DC9 a Ustica in giugno, che aveva causato ottantuno morti, o, peggio ancora, la strage del 2 agosto alla stazione di Bologna, altri ottantacinque morti e non una pista attendibile da seguire?

E adesso era la terra a rivoltarsi contro il sangue che ormai da troppo tempo veniva versato in Italia. Da quanti anni i giovani, nei cortei e nelle manifestazioni, fossero di destra, di sinistra o poliziotti e carabinieri, morivano accoltellati, a colpi di spranga, di pistola, centrati da bombe, lacrimogeni, sampietrini?

Marco non ne poteva più, e qualche sera si rifugiava in casa a bere più del dovuto.

Quando Laura se ne accorse, si impose di fargli visita più spesso. Ogni volta lo trovava disteso sul divano, silenzioso, ad ascoltare ossessivamente arie d’opera e a vuotare calici di Riesling o Galestro.

Qualche giorno prima di Natale, Pisani riuscì a riscuotersi dalla nube nera della depressione.

La città splendeva di decorazioni natalizie che di solito gli mettevano addosso una profonda malinconia, ma questa volta si sentiva leggero e gli tornò anche la curiosità di riprendere le indagini sul caso Accorsi.

Andò a trovare il professor Luca Clerici, scusandosi del ritardo dopo che gli aveva messo fretta.

«Con quello che è successo al sud» lo scusò l’amico, «non mi meraviglio che voi poliziotti abbiate avuto altro a cui pensare.»

Clerici gli espose in maniera organica alcune notizie già note e ne aggiunse altre di estremo interesse.

Il colonnello Gualtiero Morlacchi era nato a Roma nel gennaio del 1903 da una famiglia di grandi proprietari terrieri. Aveva scelto la carriera militare e si era subito distinto nei corsi dell’Accademia. Nel 1930 aveva sposato la contessina Lucilla De Federici, della nobiltà romana, e dal matrimonio erano nati due figli.

Non risultava che fosse mai stato un fascista accanito, ma aveva fatto con onore la guerra di Etiopia agli ordini di Graziani, riportandone una medaglia al valore nella battaglia del lago Ascianghi.

Da quel momento il regime lo aveva coinvolto e Morlacchi era stato spedito in Spagna, fra le truppe regolari inviate dal duce a combattere al fianco dei ribelli di Francisco Franco.

Nel ’38, come ricompensa per i sacrifici sostenuti, era divenuto sottosegretario del Ministero della Cultura Popolare, addetto al controllo della produzione cinematografica.

Con l’armistizio dell’8 settembre ’43, come Marco ormai già sapeva, aveva ritenuto suo dovere seguire Mussolini nell’Italia del nord, e il suo nome, da accurate ricerche d’archivio su documenti miracolosamente conservati, risultava tra quelli degli ufficiali della Guardia Nazionale della Repubblica di Salò.

Pareva che il suo incarico consistesse nell’individuare le bande di partigiani che operavano nella zona, le famose Fiamme Verdi del Bresciano. In più doveva tenere i contatti con gli alleati tedeschi per informarli dei movimenti delle bande e forse, ma i documenti non lo dicevano, per affidare loro il compito di sterminarle.

«La famiglia lo aveva seguito al nord?» chiese Marco.

«No» rispose il professore. «Da una lettera indirizzata a Morlacchi, fortunosamente rintracciata negli archivi dell’Istituto storico della Resistenza bresciana, risulta che fin dall’inizio della guerra moglie e figli, con la scusa di cure mediche, erano stati fatti partire per Lugano, da dove pare non siano più rientrati in Italia.»

«Vuoi dire che sono ancora là?»

«Non lo so. Di certo sono stati in Svizzera per tutta la guerra.»

«E lui dove abitava?»

«Aveva affittato una villa sulle colline di Desenzano, in una zona un po’ appartata, forse per le sue frequentazioni con i tedeschi, che preferivano non farsi vedere troppo in giro con gli ufficiali italiani.»

«Ti risulta che con lui ci fosse una donna, la sua amante?»

«Be’, in quel periodo non si badava troppo a registrare i cambi di residenza, e nessun documento riporta chi abitasse con lui.»

«Ma almeno sarai riuscito a chiarire le circostanze della sua morte…» insistette Marco, speranzoso.

«Il mio assistente, che ho inviato sul posto, ha dovuto faticare non poco» riprese il professore accendendosi un sigaro.

Marco si sentì autorizzato a fumare a sua volta.

«Infine il fascicolo dell’indagine che fu aperta in quell’occasione è emerso dagli archivi della stazione dei Carabinieri di Desenzano. Pare infatti che siano stati proprio i Carabinieri a scoprire i cadaveri in casa Morlacchi, la mattina dell’8 ottobre 1944.»

«Dimmi» lo esortò Marco protendendosi in avanti.

«Non c’era molto nel fascicolo. I Carabinieri furono indirizzati sul posto da una telefonata anonima; probabilmente era un fornitore che aveva scoperto i cadaveri ma non voleva essere coinvolto. Arrivarono a una villa sulle colline di Desenzano, l’abitazione di Gualtiero Morlacchi. Entrati con facilità, perché la porta era stata lasciata aperta, si trovarono davanti a una scena orrenda. Nell’atrio e lungo il corridoio che portava al salone erano accatastati sette cadaveri falciati da una sventagliata di mitra. C’era Morlacchi con il suo segretario, tale tenente Caldara. Gli altri erano quattro ufficiali tedeschi e la loro sentinella. Dalle indagini risultò che il mitra della strage era appunto quello del soldato tedesco.»

«Chi era stato?»

«Se i tedeschi hanno indagato per conto loro non è possibile saperlo perché i loro archivi sono andati distrutti. I Carabinieri formularono l’ipotesi che si fosse trattato di un agguato dei partigiani della zona e chiusero il caso dal momento che non potevano arrampicarsi su per le montagne a interrogare i presunti colpevoli. E forse sai che i Carabinieri sono sempre stati una spina nel fianco del regime, perché rimasero leali al giuramento prestato alla monarchia, ed erano in maggioranza antifascisti. Quindi una strage di nazisti e gerarchi non li sconvolgeva troppo.»

«E nel rapporto non si parlava di una donna?»

«No, nessun cenno a presenze femminili. Ma prima della strage gli ufficiali si erano intrattenuti con qualche signora, perché in un portacenere, secondo il rapporto, c’erano alcuni mozziconi sporchi di rossetto. Se quella notte era presente una donna deve aver preso il largo per tempo. La villa del resto era isolata e vicini da interrogare non ce n’erano. Però è saltata fuori una circostanza curiosa… Pare che il resoconto della strage, nonostante la censura in atto, sia uscito in un trafiletto sul giornale locale Brescia Repubblicana, che attribuì la responsabilità ai partigiani operanti in zona, appunto le Fiamme Verdi. Dopo qualche giorno il giornale ricevette, e stranamente pubblicò, la lettera del comandante Aquila, uno dei capi delle Fiamme Verdi, che dichiarava la completa estraneità dei suoi uomini alla strage. Il fascicolo che il mio assistente ha consultato contiene anche i trafiletti del giornale. Anzi, a proposito, ti ho fatto fotocopiare tutto.» E nel dirlo Clerici porse a Pisani una grossa busta gialla.

«Un’ultima domanda» disse Marco prendendo la busta. «Chi era il comandante Aquila?»

«Mi devi scusare, ma non abbiamo avuto il tempo di spingere le ricerche fino a questo punto. Sarebbero serviti giorni e giorni per interrogare i vecchi partigiani ancora in zona. Ma credo che tu, come commissario di Polizia, non avrai difficoltà a metterti in contatto con qualche tuo collega del posto che ti faccia un favore.»

«Hai ragione, hai fatto bene» convenne Pisani accomiatandosi. «E mi raccomando, se hai bisogno della Polizia, e mi auguro di no, fai conto su di me.»

«Grazie, Marco» replicò il professor Clerici, «ma spero vivamente che a qualche studente non venga in mente di spararmi.»

Dalla visita in Università Marco tornò in ufficio motivato e pieno di propositi. Aveva compiti urgenti da affidare alla squadra.

«Tu, Cotunno» ordinò, «mi devi scovare l’indirizzo attuale della moglie di Morlacchi. Adesso avrà una settantina d’anni, quindi stando alle statistiche demografiche ci sono buone probabilità che sia ancora al mondo. Puoi rivolgerti per cominciare al Consolato della Svizzera per sapere se abita ancora là, altrimenti la troveremo tramite gli uffici dell’Anagrafe italiana. Dev’essere localizzata al più presto perché la voglio vedere appena dopo le feste di Natale. Noi non facciamo vacanze, ma forse la signora va da qualche parte, meglio aspettare gennaio. Invece tu, Balzoni, devi rintracciare il comandante Aquila, sperando che sia ancora vivo. Puoi fare una gita a Desenzano e interrogare i vecchi partigiani della zona… Devo sapere dove abita adesso, per vederlo il prima possibile. Questa è la volta buona che incastriamo l’Aldrovandi. Me lo sento che era suo il rossetto trovato sui mozziconi, e visto che non è stata uccisa nella strage ed è scappata, e se la dichiarazione di innocenza dei partigiani è veritiera, solo lei può essere la colpevole.»

«Scusi, capo» lo interruppe Improta. «Per rintracciare Aquila non sarebbe più semplice rivolgersi all’Associazione Partigiani qui a Milano? In fondo si tratta di un avvenimento successo in Lombardia.»

«Giusto, Improta, e speriamo di essere fortunati. Ma in queste settimane come si è comportata l’Aldrovandi? C’è qualcosa di nuovo?»

«Cotunno e Balzoni continuano saltuariamente a tenerla d’occhio» raccontò il maresciallo. «Ma qualcosa bolle in pentola, anche se non riusciamo a capire cosa. Dopo l’intervento alla Madonnina è ritornata a casa, ma da allora la si vede in giro sempre meno, e sempre accompagnata dall’autista. In questi ultimi tempi abbiamo notato che un paio di volte si sono recati da lei i dirigenti dell’azienda, mentre di solito era la signora ad andare in ufficio, quasi tutti i giorni.»

«Sarà in convalescenza» ipotizzò Pisani senza dare troppo peso alla notizia.

«Auguri a tutti» esclamò in quel momento una voce giovane e ormai nota, e Giorgio Mantovani si affacciò nell’ufficio del commissario.

Gli furono subito tutti intorno, con gran manate sulle spalle.

«Come vanno le cose?» gli chiese Improta con fare paterno.

«Per essere dura è dura» rispose Giorgio. «Anche adesso, per venire qui, ho dovuto chiedere un permesso, e di non più di mezz’ora. Però non mi lamento; in archivio, selezionando gli articoli da conservare, imparo un mucchio di cose. E sapete? All’Istituto Cattaneo hanno accettato la mia iscrizione anche se era già novembre inoltrato, e la sera sto frequentando il terzo e quarto anno…»

«Non ti resta molto tempo libero» commentò Pisani.

«Nemmeno un poco, ma se vi serve una mano, anche gratis, posso prendere ferie, darmi malato, non so.»

«Così ci farai piangere per la commozione» ironizzò Cotunno.

«Piuttosto beviamo qualcosa» propose Improta accennando alla bottiglia di spumante che Giorgio aveva con sé.

E, trovati i bicchieri, la riunione si concluse tra brindisi e auguri di Natale.

Il giorno dopo, era ormai il 23 dicembre, i due agenti misero sul tavolo di Pisani gli indirizzi richiesti, completi dei numeri di telefono.

Tramite il Consolato, Cotunno aveva rintracciato la signora Morlacchi, che si faceva chiamare con il nome da ragazza, De Federici, e abitava sempre a Lugano.

Balzoni non aveva avuto difficoltà ad apprendere tramite l’Associazione Partigiani che il comandante Aquila delle Fiamme Verdi era ancora vivo e vegeto, faceva di nome Guido Alfieri e abitava a Roma, dove era proprietario di un import export di calzature sulla Circonvallazione Gianicolense.

Marco non stava in sé dalla voglia di accelerare le indagini.

Telefonò alla Morlacchi spiegando che la Polizia aveva ripreso in mano il caso della morte di suo marito e per questo doveva farle qualche domanda.

«Dopo quarant’anni?» esclamò la donna. «Chi si interessa ormai a queste cose?»

«Le informazioni che lei ci può dare possono essere utili per un’altra indagine in corso» spiegò Pisani. «Ma lei non vuole sapere come è morto suo marito?»

«E chi le ha detto, commissario, che io non lo sappia già?»

«In questo caso» considerò Marco, «può raccontarlo anche a noi, sempre che si senta di farlo.»

«Non ho alcuna difficoltà a raccontare come sono andate le cose» replicò la Morlacchi lasciando Pisani alquanto stupito.

Presero appuntamento per il pomeriggio di venerdì 9 gennaio, dato che Marco riteneva utile la presenza di Laura al colloquio e insieme avrebbero potuto trascorrere sul lago il fine settimana successivo.

Arrivarono a Lugano la mattina, con un bel sole che faceva scintillare le acque del lago ed esaltava il biancore dei monti innevati. Passeggiarono un po’ sul lungolago, si concessero il pranzo in un ristorante panoramico e nel primo pomeriggio erano davanti al palazzo signorile in cui abitava Lucilla Morlacchi, anzi De Federici.

«Devi aiutarmi a capire fino a che punto ciò che ci dirà questa donna è la verità, Laura» si raccomandò Marco. «Non dobbiamo dimenticare che si parlerà dell’amante di suo marito, e i risentimenti portano a falsare le cose. Inoltre mi è parsa fin troppo disposta a parlare.»

Lucilla era sola in casa; li accolse all’ascensore con un breve sorriso e li introdusse a destra dell’atrio in un luminoso salone che si affacciava sul lago con una grande terrazza.

Marco valutò con un’occhiata l’eleganza dell’appartamento, la preziosità degli arredi autentici art déco, uno stile sofisticato che pochi sapevano apprezzare, la collana di brillanti della signora, e concluse che la guerra non doveva averla privata dei suoi beni. Nonostante ciò la donna era scialba, ossuta, con una piega amara agli angoli delle labbra e gli occhi di un azzurro slavato. Dimostrava tutti i suoi settant’anni.

«Quale ragione l’ha spinta fin quassù, commissario?» esordì. «E chi è questa bella signorina?»

«La signorina è la dottoressa Lippi, consulente della Questura di Milano. In quanto alla ragione per cui desidero vederla, si tratta, come le ho anticipato al telefono, di una questione delicata» rispose Pisani.

«Dica pure, sono poche le cose che ormai mi turbano. Vede, sono una nonna.» E indicò le foto di due bei ragazzi appoggiate su un tavolino.

Marco sospirò e si fece coraggio. «Non so fino a che punto lei sappia come si sono svolti i fatti che hanno portato alla morte del colonnello Morlacchi e dei suoi ospiti la sera del 7 ottobre 1944. Dalle nostre ricerche, sospettiamo che nella villa ci fosse anche una donna, ma i documenti non ne parlano, forse le indagini furono eseguite troppo sommariamente…»

«Volete sapere se alla strage (chiamiamo le cose con il loro nome, si è trattato di strage) era presente anche Myra Leoni, l’amante di mio marito?»

Marco e Laura a tanta franchezza sobbalzarono e si guardarono l’un l’altro.

«Sì, era presente» continuò la donna. «Anzi, è stata lei a compiere la strage, da sola.»

«Ci racconti» mormorò Marco.

«Il povero Gualtiero ha sempre creduto che non fossi al corrente di nulla» continuò Lucilla accavallando le gambe magre. «Ma io sapevo della sua relazione con quell’attricetta, quella Myra Leoni che aveva incontrato a Cinecittà. Del resto non mi aveva sposata per amore ma solo per entrare, grazie al mio nome, nel mondo dell’aristocrazia romana, e mi aspettavo che prima o poi capitasse qualcosa del genere. Finché è stato occupato a combattere aveva altro per la testa, ma quando è stato destinato a sovrintendere proprio Cinecittà era ovvio che sarebbe caduto preda della prima arrivista che avesse voluto accalappiarlo.»

Visto che la donna non aveva reticenze, Marco si azzardò a chiedere: «La Leoni approfittava della relazione con suo marito per fare carriera?».

La Morlacchi si alzò, fece qualche passo in direzione di un tavolino carico di bottiglie e versando le bibite rispose: «Naturalmente. Devo dire che i due erano abbastanza discreti e non hanno mai dato apertamente scandalo. Gualtiero era rispettoso delle apparenze. Nel nostro ambiente si sapeva soltanto che erano buoni amici, e tanto bastava. Quello che mi seccava era che mio marito le spendesse dietro tanti soldi. L’appartamento, per esempio; l’aveva arredato lui e le pagava l’affitto. Avevo le mie spie».

«Ma lei ha mai parlato col colonnello della sua relazione con la Leoni?»

«E perché?» replicò Lucilla con un sorriso sprezzante. «Mi risultava più facile tenerlo a bada col terrore che io venissi a sapere tutto…»

«Veniamo all’8 settembre del ’43.»

«Vede, commissario, Gualtiero, con tutti i suoi difetti, alla famiglia teneva davvero» riprese la donna. «Ci aveva fatto partire per Lugano fin dal ’41, se lo sentiva che la guerra sarebbe andata a finire male. E anche il denaro a poco a poco prese la via d’Oltralpe. Lui però, quando si trattò di scegliere da che parte stare, essendo un debole rimase al suo posto. Dopo l’armistizio, con la nascita della Repubblica Sociale, fu tra i primi a partire per il nord. So che la Leoni lo seguì. Oh, non per eroismo, ma perché a Roma non si facevano più film e non avrebbe saputo come campare. So che andarono a vivere insieme a Desenzano, ma a quel punto, chi ci faceva più caso?»

«Cosa successe il giorno della strage?»

«Posso raccontarle quello che ho saputo io. Dunque: a metà novembre del ’44 ricevetti una lettera dal Ministero della Difesa che mi annunciava la morte eroica di mio marito sul campo di battaglia. Quale campo, ovviamente, non era specificato. Io mi guardai bene dal lasciare i miei bambini e il mio rifugio sicuro per correre in Italia a vedere cosa fosse successo. Non volevo rischiare di non poter più tornare a Lugano.»

«Naturalmente» commentò Marco con sarcasmo.

«Però, finita la guerra, nel ’46, ricevetti la visita del maggiore Carli, che prestava servizio nella RSI agli ordini di mio marito. Mi raccontò che Gualtiero era stato ucciso in casa sua in un’imboscata dei partigiani della zona. Aggiunse non senza imbarazzo che all’epoca mio marito viveva con l’attrice Myra Leoni, ma la donna era scomparsa la notte della strage, e il suo cadavere non era mai stato trovato. Quindi lui pensava che la puttana fosse stata in combutta con i partigiani, che poi se l’erano portata via con loro mettendola in salvo.»

«Andò veramente così?»

«Non proprio» continuò Lucilla. «L’anno dopo, del tutto inaspettatamente, ricevetti un’altra visita. Si trattava di un certo Guido Alfieri, che mi rivelò di essere il comandante Aquila, il partigiano a capo della banda che era stata sospettata di aver compiuto la strage di Desenzano. Mi disse che immaginava che qualcuno mi avesse dato quella versione dei fatti, ma che lui ci teneva che io sapessi la verità, perché le Fiamme Verdi non erano bande di assassini, e mio marito non era un criminale di guerra che meritasse di essere ammazzato come un cane.»

«Allora?» sollecitarono a una voce Marco e Laura.

«Alfieri mi raccontò che in un modo che non desiderava specificare era entrato in contatto con Myra Leoni, ottenendone l’impegno a consegnare vivi nelle mani delle Fiamme Verdi gli ufficiali nazisti che si riunivano spesso con Gualtiero. Sarebbero serviti come ostaggi da scambiare con partigiani fatti prigionieri. Ma quella sera, quando all’ora stabilita arrivarono alla villa, i partigiani trovarono Myra Leoni con il mitra ancora fumante tra le mani: aveva ucciso tutti i suoi ospiti, compreso Gualtiero e la sentinella tedesca. Se volete sapere qualcosa di più preciso, dovete rivolgervi direttamente a Guido Alfieri, se è ancora vivo. Da allora non l’ho più visto.»

«Lei non ha pensato di denunciare la Leoni?» si incuriosì Laura.

«Vede, dottoressa» le rispose la donna, «Alfieri aveva specificato che desiderava che io sapessi la verità, ma che, per quanto lo riguardava, la faccenda era chiusa e voleva solo dimenticarla. Poi sapevo che non esistevano prove, e col clima che c’era in Italia alla fine della guerra significava affrontare una battaglia legale che mi avrebbe rovinato l’esistenza. Allora ho pensato che se c’era una giustizia divina avrebbe provveduto. E ora voi siete qui, e questo mi fa pensare che sia proprio Myra Leoni, o chissà come si chiama, l’obiettivo delle vostre indagini. Se è così, io sono pronta a testimoniare.»

«Povero Gualtiero Morlacchi» fu il commento di Laura appena si trovarono di nuovo all’aperto. «Le donne le sceglieva proprio male. Una moglie biecamente astuta e fredda come un ghiacciolo e un’amante assassina.»

«Già» convenne Marco. «Pare proprio che la nostra contessa non si sia mai tirata indietro davanti a un delitto, ed è incredibile che l’abbia sempre fatta franca. Adesso però l’abbiamo incastrata. Sentiamo Alfieri, poi potremo convincere il giudice a spiccare un mandato di cattura.»

«Ammesso che Alfieri sia disposto anche lui a testimoniare…» osservò Laura.

«Sono passati quarant’anni» considerò Marco. «Cosa vuoi che lo trattenga?»

Per incontrare il vecchio partigiano Marco si recò a Roma in aereo subito dopo il ritorno da Lugano. Fu fatto accomodare da una segretaria in un elegante ufficio dove Guido Alfieri lo aspettava.

«In che cosa posso essere utile alla Questura di Milano?» esordì cordialmente, stringendo la mano al commissario.

Era un settantenne alto e prestante, dai movimenti rapidi e decisi, una bella testa di capelli candidi, gli occhi chiarissimi che spiccavano su un’intensa abbronzatura. Doveva essere stato un magnifico comandante, si trovò a pensare Marco.

«Mi spiace farle rivangare tempi molto tristi, ma a Milano stiamo conducendo un’indagine sulla donna che lei ha conosciuto nel ’44 con il nome di Myra Leoni.»

A sentire quelle parole, Alfieri sussultò visibilmente.

«Vorremmo sapere se lei è disposto a testimoniare sulla strage di Desenzano, di cui è stato spettatore.»

«È una storia che ho cercato di dimenticare» mormorò l’uomo quasi parlando a se stesso, quando Pisani finì di riportargli quanto appreso da Lucilla Morlacchi. «Eppure in quegli anni da partigiano ne ho viste di tutti i colori. Però deve sapere che noi delle Fiamme Verdi eravamo formazioni cattoliche e ci imponevamo di osservare un rigido codice etico anche nei confronti del nemico. Per esempio, cercavamo di fare prigionieri i nazisti e i fascisti non per ucciderli, ma per scambiarli con i compagni catturati. Così quando vedemmo che Myra Leoni, dopo aver promesso di consegnarci un gruppo di militari vivi, li aveva invece uccisi con una sventagliata di mitra, mi prese uno sconforto… L’avrei fatta fuori così, su due piedi.»

«Ma non l’ha fatto…»

«No, come le ho detto non eravamo assassini, anzi l’ho aiutata a fuggire; a cosa ci sarebbe servita? Ma che fine ha fatto? Ha ucciso di nuovo? Lo avevo capito che quella era una puttana assassina, furba come una volpe e senza scrupoli.»

Marco sorrise tra sé pensando alla boria della contessa Aldrovandi. Cominciava a convincersi che non avrebbe esitato a uccidere perché il suo passato non venisse alla luce. Ma Pina cosa c’entrava con la strage?

«Non posso parlare delle indagini in corso» riprese Pisani, «però posso dirle che la sua testimonianza servirà a incastrarla. Ma a quel tempo come aveva fatto a conoscerla?»

Alfieri si irrigidì. «In tribunale sono disposto a raccontare anche questo, oltre a come si è svolta la strage» dichiarò. «Ma rivangare quel particolare è un dolore che per il momento, se non le spiace, vorrei evitarmi.»

Pisani comprese di aver toccato un nervo scoperto e non volle insistere. «Quando la guerra è finita, non ha mai pensato di darsi alla politica?» chiese per cambiare discorso.

«Me l’hanno chiesto in tanti» ammise Alfieri. «Ma gli eventi vissuti mi avevano segnato troppo, non volevo più sentire parlare di fascisti, comunisti, destra e sinistra. Meglio occuparsi di scarpe. Non mi sono pentito: ho una bella famiglia, mia moglie è al mio fianco, i miei figli mi hanno dato quattro nipoti. Va bene così.»