Capitolo 27

 

Antonio e Cleopatra finirono per navigare insieme sino a Paretonio. L’uomo non aveva ancora lasciato la Cesarione, che Cassio Parmense salì a bordo per dirgli che i soldati stipati bevevano l’acqua a una velocità superiore di quella stimata dal praefectus fabrum Così l’intera flotta dovette fare scalo a Paretonio per riempire i barili.

Antonio era d’umore migliore di quanto si aspettasse Cleopatra; non c’erano segnali di quella grigia malinconia in cui era sprofondato durante gli ultimi mesi ad Azio, né aveva la sconfitta in mente.

«Aspetta e vedrai, amore mio» le disse allegramente mentre la flotta si preparava a salpare da Paretonio, i barili pieni d’acqua e la pancia dei soldati piena di pane, che sul mare non era disponibile. «Aspetta e vedrai. Pinario non può essere lontano. Non appena lui arriverà, Lucio Cinna e io ti seguiremo ad Alessandria. Via mare. Pinario ha onerarie sufficienti da ospitare i suoi 24.000 uomini, e una valida flotta per arricchire quella di Alessandria.» Un bacio appassionato sulla bocca, e se ne andò, condannato a saltare di gioia a Paretonio finché Pinario non si profilasse alla vista.

Solo duecento miglia di distanza da Alessandria e Cesarione… quanto erano mancati a Cleopatra! Non era ancora tutto perduto, diceva a se stessa; possiamo ancora vincere questa guerra. Con il senno di poi capiva che Antonio non era un ammiraglio, ma quanto al combattimento di terra riteneva avesse una possibilità.

Avrebbero marciato sino a Pelusio e sconfitto Ottaviano lì, al confine con l’Egitto.

Fra i soldati romani e il suo esercito egiziano avrebbero schierato circa centomila uomini, più che sufficienti a schiacciare Ottaviano, che non conosceva la configurazione del terreno. Doveva essere possibile spaccare in due la sua forza e sconfiggerne ogni metà in una battaglia disgiunta… Solo, come soffocare l’indignazione fra gli alessandrini? Anche se negli ultimi anni erano stati più duttili, lei ne conosceva la volubilità da vecchia data, e temeva un’insurrezione se la loro regina fosse entrata di soppiatto in porto da donna sconfitta, accompagnata non dalle sue flotte egiziane ma da un esercito romano rifugiato. Così, prima che si avvistasse la città, convocò i suoi capitani e i legati di Antonio e diede succinte istruzioni, riponendo tutte le sue speranze sul fatto che la notizia di Azio non avesse ancora raggiunto gli alessandrini.

Inghirlandate e decorate, le onerarie entrarono nel Porto Grande al suono dei peana vittoriosi, presunti conquistatori che tornavano a casa. In ogni modo, Cleopatra non corse rischi. La flotta fu ancorata nelle rade e i suoi occupanti si trattennero a bordo finché non si poté allestire un accampamento nei pressi dell’ippodromo; lei stessa costeggiò con la Cesarione la marina del porto, svettando a prua, l’abito di maglia d’oro che rivaleggiava a mettere in ombra lo splendore dei suoi gioielli. Mentre gli alessandrini si precipitarono a vederla si levarono le grida di gioia; debole di sollievo, capì di averli ingannati.

Quando entrò nel Porto Reale scorse Cesarione e Apollodoro fermi sul molo, in attesa.

Oh, com’era cresciuto! Adesso era più alto di suo padre, le spalle larghe, snello ma con i muscoli possenti. I capelli folti non si erano scuriti, anche se il suo volto, lungo e con gli zigomi alti, aveva perso qualsiasi traccia dei lineamenti di ragazzo. Era il ritratto vivente di Caio Giulio Cesare! Da lei si sprigionò un’ondata d’amore che rasentava l’adorazione assoluta; le ginocchia presero a tremarle al punto che le gambe non la ressero più senza un appoggio, gli occhi accecati dalle lacrime improvvise.

Con Charmian a un fianco e Iras all’altro, riuscì ad attraversare la passerella e gettarsi fra le braccia del figlio.

«Oh, Cesarione, Cesarione!» disse fra i singhiozzi. «Figlio mio, non sai che gioia vederti!» «Avete perduto» disse.

Lei rimase senza fiato. «Come lo sai?» «Ce l’hai scritto dappertutto, madre. Se aveste vinto, perché la tua flotta non è venuta con te e perché queste onerarie hanno per equipaggio dei soldati romani? E soprattutto, dov’è Marco Antonio?» «L’ho lasciato con Lucio Cinna a Paretonio» rispose lei, prendendolo sottobraccio e obbligandolo a camminarle a fianco. «Sta aspettando che Pinario arrivi qui dalla Cirenaica con la flotta e altre quattro legioni. Canidio è stato lasciato ad Ambracia… gli altri hanno disertato.» Lui non rispose nulla, si limitò ad accompagnarla nel grande palazzo, quindi la passò a Charmian e Ira. «Fa’ un bagno e riposa, madre. Ci incontreremo a cena a tarda sera.» Lei fece il bagno, ma in tutta rapidità. Non poteva esserci riposo, anche se una cena a tarda sera era del tutto gradita perché le avrebbe dato tempo di fare quanto doveva essere fatto. Solo ad Apollodoro e ai suoi eunuchi di palazzo fu confidato il segreto, che doveva essere mantenuto a tutti i costi con Cesarione; lui non avrebbe mai approvato. L’interprete, l’archivista, il comandante notturno, il contabile, il giudice, e tutti i funzionari nepotisti nei loro dipartimenti furono riuniti e giustiziati. I capibanda scomparirono dai bassifondi di Rhakotis, i demagoghi dall’agorà. Aveva preparato la sua versione dei fatti per le domande che avrebbe posto Cesarione, notando che i burocrati erano tutti nuovi. Quelli precedenti, avrebbe spiegato lei, erano stati presi da un attacco di patriottismo ed erano partiti per prestare servizio nell’esercito egiziano.

Oh, lui non le avrebbe creduto neanche per un momento, ma privo dell’efferatezza necessaria a contemplare la strada che lei aveva intrapreso, avrebbe ipotizzato che erano partiti per evitare l’occupazione romana.

La cena a tarda sera fu sontuosa; i cuochi erano euforici come chiunque altro ad Alessandria. Se, quando fu riportata nelle cucine quasi completamente intatta, furono sfiorati dal dubbio, nessuno li illuminò.

Compiuti i propri omicidi, Cleopatra si sentiva meglio e sembrava composta.

Raccontò la storia di Efeso, Atene, e Azio senza tentare di giustificare la propria follia. Ascoltarono anche Apollodoro, Cha’em e Sosigene, più emozionati di Cesarione, il cui volto restò impassibile. È invecchiato di dieci anni ascoltando quelle sconvolgenti notizie, pensò Sosigene, eppure non attribuisce colpe.

«Gli amici romani e i legati di Antonio non si rimettevano a me» raccontò lei, «e anche se insistevano tediosamente sul mio sesso, io pensavo che la causa della loro animosità fosse la mia origine straniera. E invece mi sbagliavo! Era il mio sesso. Non gradivano prendere ordini da una donna, a prescindere dall’altezza del suo rango. E così non hanno mai smesso di pressare Antonio a rispedirmi in Egitto. E io, non comprendendo il motivo, mi rifiutavo di partire.» «Ebbene, adesso è tutto passato e non importa più» disse Cesarione con un sospiro.

«Che cosa progetti di fare ora?» «Tu che cosa faresti?» domandò lei, di colpo curiosa. «Manda Sosigene come ambasciatore da Ottaviano e cerca la riappacificazione. Offrigli tutto l’oro che desidera per permetterci di restare nel nostro angolino del Mare Nostrum. Offrigli gli ostaggi come garanzia e permetti ai romani di inviare degli ispettori con regolarità, per assicurarsi che non ci stiamo armando in segreto.» «Ottaviano non ci permetterà di restare, su questo ti do la mia parola solenne.» «Che cos’ha in mente Antonio?» «Raggrupparsi e continuare a combattere.» «Madre, è inutile» gridò il giovane. «Antonio non è più nel fiore degli anni e io non ho l’esperienza per comandare al posto suo. Se quanto dici sul fatto di essere donna corrisponde alla verità, allora i soldati romani ad Alessandria non ti seguiranno mai. Sosigene deve guidare una delegazione a Roma o dovunque sia Ottaviano, per cercare di negoziare la pace. Prima è, meglio è.» «Attendiamo il ritorno di Antonio da Paretonio» supplicò lei, la mano sul braccio di Cesarione. «Poi potremo decidere.» Scuotendo la testa, Cesarione si alzò. «Dev’essere subito, madre.» Lei disse di no.

L’atteggiamento del figlio era stato piuttosto eloquente, le aveva aperto gli occhi e la mente su ciò che avrebbe dovuto vedere prima di partire per Efeso. Lei aveva profuso ogni oncia delle sue energie e facoltà mentali nei progetti per il futuro di Cesarione, quel radioso, trionfante, glorioso futuro di re dei re e padrone del mondo.

Adesso, per la prima volta, si rendeva conto che lui non voleva niente di tutto questo, che diceva sul serio nelle varie occasioni in cui l’aveva cercata per parlargliene. Era lei ad agognare quel futuro radioso, si era messa nei panni di lui nell’errata opinione che nessuno potesse resistere all’esca di quella prospettiva, men che meno un giovane con ascendenze divine, un retroterra regale, la mente d’un genio. Nelle esercitazioni militari aveva dimostrato di non essere un codardo, quindi non era la paura per la propria pelle ad agire da deterrente per lui. Cesarione mancava di ambizione. E di conseguenza, non sarebbe mai stato re dei re, se non solo ed esclusivamente di nome; non era motivato. L’Egitto e Alessandria gli bastavano, non desiderava altro.

Oh, Cesarione, Cesarione! Come puoi farmi questo? Come puoi voltare le spalle al potere? Dov’è il difetto della combinazione del mio sangue con quello di Cesare?

Due delle persone più ambiziose che abbiano mai solcato il globo hanno dato alla luce un figlio coraggioso ma gentile, forte ma privo di ambizioni. Ed è stato tutto per nulla, non ho neanche la consolazione di poter pensare di rimpiazzare il mio primogenito con Alessandro Elio o Tolomeo Filadelfo, non privi di ambizione ma d’intelligenza sufficiente. Mediocri. E Cesarione a far salire il Nilo nei cubiti dell’abbondanza ogni anno, è Cesarione a essere Horus e Osiride. E invece lui non vuole il suo destino. Lui che non è mediocre aspira alla mediocrità. Che ironia. Oh, che tragedia!

«Quando dicevo che era un bambino che non si poteva viziare, non ne capivo il significato» disse a Cha’em al termine di quella cena silenziosa e quando Apollodoro e Sosigene, pallidi in volto, si furono dileguati.

«E invece adesso capite» rispose l’anziano, con tono affettuoso.

«Sì. Cesarione non sente il bisogno di nulla perché non desidera nulla. Se AmunRa lo avesse messo nel corpo di un ibrido egiziano e l’avesse spedito a cuocere il pane o a spazzare le strade, lui avrebbe accettato il suo destino con grazia e gratitudine, lieto di guadagnare a sufficienza per mangiare, prendere in affitto una casetta a Rhakotis, sposarsi e avere dei figli. Se qualche perspicace panettiere o sovrintendente urbano avesse visto i suoi meriti e lo avesse leggermente promosso, lui ne sarebbe stato estasiato non per il suo bene, ma per quello dei suoi figli.

«Avete intuito la verità.» «E tu, Cha’em?. Tu avevi visto il carattere e la natura di Cesarione all’epoca in cui scrutasti nei colori delle ceneri e rifiutasti di spiegarmi la tua visione?» «Qualcosa del genere, Figlia di Ra. Qualcosa del genere.»

Antonio tornò ad Alessandria un mese più tardi, poco prima che gli alessandrini apprendessero della sconfitta ad Azio. Nessuno organizzò proteste sulle strade, nessuno formò un folla per marciare sulla Cinta Reale. Piansero e gridarono, niente di più, anche se qualcuno aveva perduto i figli, nipoti, cugini che avevano presidiato le flotte egiziane. Cleopatra promulgò un editto in cui spiegava che, in alcuni casi, quegli uomini erano perduti per sempre; se Ottaviano avesse voluto venderli come schiavi, lei li avrebbe acquistati, oppure, se Ottaviano li avesse liberati, lei li avrebbe riportati a casa al più presto possibile.

Nel mese in cui aspettò Antonio, si crucciò per lui come mai prima; l’amore le aveva invaso il cuore, e questo significava paura, dubbio, preoccupazione costante.

Stava bene? Di che umore era? Che cosa stava succedendo a Paretonio?

Tutto ciò dovette scoprirlo da Lucio Cinna. Antonio rifiutò di avvicinarsi alla reggia; era sceso dalla nave in acque basse e aveva remato a riva sino a una piccola baia adiacente al Porto reale. Non aveva parlato con nessuno da quando erano salpati da Paretonio, disse Cinna.

«Sinceramente, signora, non l’ho mai visto così, tanto afflitto dalla disperazione.» «Che cos’è accaduto?» «Abbiamo ricevuto notizia che Pinario si era arreso a Cornelio Gallo in Cirenaica.

Un colpo tremendo per Antonio, ma è seguito di peggio. Gallo sta navigando verso Alessandria con le sue quattro legioni e le quattro che appartenevano a Pinario.

Dispone di parecchie onerarie e due flotte, la sua e quella di Pinario. Così fanno otto legioni e due flotte che si avvicinano ad Alessandria da ovest. Antonio voleva trattenersi a Paretonio per dare battaglia a Gallo laggiù, ma… insomma, potete capire da sola perché non ha potuto, Vostra Maestà.»

«Non c’era tempo sufficiente per far venire le truppe da Alessandria. E così si è convinto di dover trattenere le sue legioni a Paretonio. Ma per aver preso quella decisione, Cinna, avrebbe dovuto essere un veggente!» «Ci abbiamo provato tutti, signora, ma lui non vuole ascoltare.» «Devo andare da lui. Per favore raggiungi Apollodoro e digli di trovarti una sistemazione.» Cleopatra diede dei colpetti sul braccio di Cinna e s’incamminò alla volta della baia, dove intravide la sagoma ingobbita di Marco Antonio, seduto, le ginocchia cinte dalle braccia e il mento poggiato sulle mani. Desolato. Solo.

Tutti i presagi sono contro di noi, pensò la donna, il manto che le sventolava attorno scompostamente. La giornata era nuvolosa e il vento molto più freddo della consueta brezza invernale alessandrina. Era una burrasca che raggelava sin nelle ossa.

La spuma bianca increspava le acque grigiastre del Porto Grande, le nubi correvano basse e fitte da nord a sud; Alessandria stava per avere la pioggia.

Lui puzzava di sudore ma, gli dei fossero ringraziati, non di vino. La barba gli era cresciuta ed era spinosa, i capelli ritti in testa e stopposi, non tagliati; nessun romano portava la barba o i capelli lunghi se non dopo una morte o un’altra immensa disgrazia. Marco Antonio era in lutto.

Gli si accovacciò accanto, rabbrividendo. «Antonio? Guardami. Antonio!

Guardami!» Per tutta risposta lui si coprì la testa con il paludamentum e lo trasse giù per nascondere il volto.

«Antonio, amore mio, parlami!» Ma lui non parlava, né si scopriva il viso.

Alla fine di quella che doveva essere stata un’ora, cominciò a piovere, un acquazzone fitto e battente che li infradiciò. A quel punto lui parlò… ma, la donna se ne rese conto, solo per liberarsi di lei.

«Vedi quel piccolo promontorio laggiù, oltre l’Akro?» «Sì, certo, amore mio, lo vedo. Punta Soter.» «Fammi costruire lassù una casa con una sola stanza, una stanza spaziosa quanto basta per ospitarmi. Senza servitori. Non voglio vedere né uomini né donne, te compresa.» «Vuoi imitare Timone di Atene?» domandò lei, con orrore.

«Sì. Il nuovo Marco Antonio è misantropo e misogino, proprio come Timone di Atene. La mia casa d’una sola stanza sarà il mio Timonio, e nessuno dovrà avvicinarsi. Mi hai sentito? Nessuno! Né tu, né Cesarione, né i miei figli.» «Sarai morto di freddo prima che sia terminata» ribatté, lieta per la pioggia; mascherava le lacrime.

«Ragione in più per affrettarsi, allora. Adesso vattene, Cleopatra! Vattene e lasciami solo!» «Permettimi almeno di mandarti cibo e acqua, te ne prego!» «No. Non voglio nulla.»

Cesarione era in attesa, tanto ansioso di un resoconto da non lasciare la stanza della madre; lei doveva togliersi le vesti bagnate dietro un tramezzo, e parlava con lui mentre Charmian e Iras le strofinavano il corpo congelato con ruvidi asciugamani di lino per riscaldarlo.

«Dimmela, madre!» giungeva la voce del ragazzo, di continuo. Il rumore dei suoi passi nervosi nella stanza. «Qual è la verità? Dimmela, dimmela!» «Si è trasformato in Timone di Atene» rispose lei dal tramezzo per la decima volta.

«Devo fargli costruire una casa di una stanza sola all’estremità di Punta Soter.. vuole che sia il suo Timonio.» Uscì da dietro il tramezzo. «E poi no, non vuole vedere né te né me, non vuole cibo né vino, non tollererà neanche la presenza di un servo.» Aveva ripreso a piangere. «Oh, Cesarione, che cosa devo fare? I suoi soldati sanno del suo ritorno, ma che cosa penseranno quando non andrà a visitarli? A comandarli?» Lui le asciugò gli occhi, cingendola con un braccio in segno di conforto. «Calmati, madre, calmati! Piangere è inutile. È stato altrettanto terribile quando eravate lontani?

So che dopo la ritirata da Fraaspa ha accarezzato propositi suicidi, e so che ha cercato di affogare le sue pene nel vino. Ma non mi hai detto come si comportava durante tutto quel subbuglio nella sua tenda del comando. Parlami di te e Antonio. Il più sinceramente possibile. Non sono più un ragazzo, sotto ogni aspetto.» Strappata a forza dal proprio dolore, lo fissò sbalordita. «Cesarione! Vuoi dire che ci sono state delle donne?» Lui rise. «Avresti preferito ci fossero stati degli uomini?» «Per Alessandro Magno, anche gli uomini andavano bene, ma in questo i romani sono molto particolari. Tuo padre sarebbe lieto se ti scegliessi delle donne per amanti, questo è sicuro.» «Allora non ha nulla da lamentarsi. Vieni, siediti.» La fece accomodare su una sedia e si sistemò ai suoi piedi con le gambe incrociate. «Raccontami, madre.» «È stato sempre al mio fianco nel bene e nel male, figlio mio. Non è mai esistito marito più fedele di lui. Oh, con quale violenza lo incalzavano! Giorno dopo giorno, di continuo. Dicendo di rispedirmi a casa in Egitto, che non volevano una donna nella tenda del comando, che ero una straniera… mille e mille ragioni per cui non avrei dovuto essere lì con lui. E io sono stata stupida, Cesarione. Molto stupida. Mi sono impuntata, rifiutata di tornare a casa. E anche io gli ho dato il tormento. Loro non si sarebbero fatti dominare da una donna. Ma Antonio mi ha difeso, non ha ceduto neanche una volta. E anche alla fine, quando persino Canidio si è rivoltato contro di me, ha continuato a rifiutarsi di mandarmi via.» «Il suo rifiuto era dovuto alla lealtà… o all’amore?» «A entrambi, credo.» Tese le mani, lo afferrò con gesto febbrile. «Ma non era quella la cosa più grave per lui, Cesarione. Io… io… io non l’amavo, e lui lo sapeva.

Era questo il suo più grande dolore. L’ho trattato come una pezza da piedi! Gli davo ordini, lo umiliavo di fronte ai legati che non lo conoscevano bene e che, da romani quali erano, lo guardavano con disprezzo perché si lasciava comandare da me… da me, una donna! L’ho costretto a inginocchiarsi ai miei piedi di fronte a loro, schioccavo le dita per chiamarlo, l’ho strappato ai conciliaboli perché mi portasse a fare delle scampagnate. Non c’è da stupirsi che loro mi detestino! Ma lui non l’ha mai fatto.» «Quando ti sei accorta di amarlo, madre?»

«Ad Azio, nel bel mezzo delle massicce diserzioni dei reclienti e dei suoi legati, e dopo varie sconfitte minori sulla terra. Mi sono cadute le bende dagli occhi, non riuscirei a descriverlo altrimenti. Ho abbassato lo sguardo sulla sua testa, e ho notato che si era ingrigito quasi nello spazio di una notte. D’improvviso stavo soffrendo per lui e con lui, come se lui fosse me. E… le bende sono cadute. Nel giro di un istante, nello spazio di un respiro. Sì, adesso comprendo che il mio amore si è insinuato più lentamente, ma in quel momento è arrivato come lo schianto di un tuono. Allora è tutto avvenuto con tale rapidità che non ho avuto il tempo di dimostrargli la profondità del mio amore.» Emise un gemito fievole e triste. «E adesso forse non ne avrò mai il tempo.»

Cesarione la trasse dalla sedia e la strinse fra le ginocchia, carezzandole la schiena come se fosse una bambina. «Si riprenderà, madre. Tutto questo passerà, avrai la possibilità di dimostrarglielo.» «Come hai fatto a diventare tanto saggio, figlio mio?» «Saggio? Io? No, non sono saggio. Sono solo in grado di vedere. Non ci sono bende sui miei occhi, madre, non ci sono mai state. Adesso vai a letto, mia carissima e dolcissima madre. Gli farò costruire la sua casa d’una sola stanza in un solo giorno.» Cesarione fu fedele alla promessa; il piccolo Timonio di Marco Antonio fu costruito in un giorno solo. Un uomo che Antonio non conosceva, mantenendosi a distanza, gli gridò che il cibo e le bevande sarebbero state sistemate fuori dalla porta, e se ne andò.

La fame e la sete sarebbero venute, naturalmente, per quanto poco avvertisse la fitta di entrambe quando spalancò la porta e si soffermò a guardare la sua cella di prigioniero. Perché era tale. Solo quando fosse sceso a patti con i tormenti dell’animo, si sarebbe potuto avventurare all’esterno, e quando entrò, Antonio non aveva idea di quanto tempo ci sarebbe voluto.

Riusciva a vedere ciò che non andava, quasi fosse illuminato da una luce fortissima, eppure doveva avere ogni passo di quel cimento ben delineato in mente.

Povera, sciocca Cleopatra! Si aggrappava a lui come se fosse un salvatore, quando ogni esponente del suo mondo era sicuramente in grado di vedere che Marco Antonio non avrebbe potuto salvare nessuno. Se non poteva salvare se stesso, come avrebbe potuto salvare gli altri?

Cesare, il vero Cesare, non quel ragazzo impostore a Roma, l’aveva sempre saputo, come ovvio. Altrimenti perché avrebbe scavalcato l’unico uomo che tutti credevano il suo erede? Era tutto partito da lì, da quel rifiuto. La sua reazione era stata prevedibile: sarebbe andato in Oriente a combattere contro i Parti, a fare quello che Cesare non era vissuto per fare. A guadagnarsi l’immortalità come pari di Cesare.

Ma poi il piano era fallito, impantanato nei suoi stessi talloni d’Achille. In un modo o nell’altro sembrava ci fosse sempre tempo per gozzovigliare, così lui aveva gozzovigliato. E invece non c’era tempo. Non quando Ottaviano procedeva a gonfie vele in Italia, a dispetto di ogni avversità. Ottaviano, sempre Ottaviano! Guardandosi intorno fra le pareti non intonacate del suo Timonio, Antonio capì infine perché i suoi piani erano falliti. Avrebbe dovuto ignorare Ottaviano, continuare la sua campagna contro i Parti anziché perseguitare l’erede di Cesare. Oh, quanti anni sprecati!

Sprecati! Intrighi volti ad assicurare la caduta di Ottaviano, stagioni e stagioni gettate al vento incoraggiando Sesto Pompeo nei suoi futili disegni. Non aveva bisogno di restare in Grecia per assicurare la caduta di Ottaviano; se quest’ultimo doveva vincere contro Sesto Pompeo, neanche la sua presenza avrebbe potuto impedirlo. E, in ultima analisi, non l’aveva impedito. Ottaviano l’aveva superato in astuzia, aveva vinto a suo dispetto. E intanto gli anni passavano e i Parti diventavano sempre più forti.

Errori, uno dopo l’altro! Dellio l’aveva portato fuori strada, Monase l’aveva portato fuori strada. E Cleopatra. Già, Cleopatra… Perché nella primavera dell’invasione dei Parti aveva raggiunto Atene anziché restare in Siria? Temendo Ottaviano più di quanto temesse il suo vero e naturale nemico. Mettendo a repentaglio la propria posizione a Roma, avviando l’erosione della sua base di potere e del suo spirito. E adesso, undici anni dopo Filippi, non gli restava nulla se non la vergogna.

Come avrebbe potuto guardare in faccia Canidio? Cesarione? I suoi amici romani ancora vivi? Così tanti morti, grazie a lui! Enobarbo, Poplicola, Lurio… Uomini come Pollione e Ventidio, costretti al congedo a causa dei suoi errori… Come avrebbe potuto ancora guardare in faccia un uomo del calibro di Pollione?

E di quel convincimento rimase a lungo, passeggiando avanti e indietro sul pavimento di terra compattata, ricordandosi di mangiare e bere solo quando barcollava stremato, o si soffermava a domandarsi quale bestia munita di artigli gli stesse rodendo il ventre. Che vergogna, che vergogna! Lui, tanto ammirato e amato, li aveva delusi tutti, faticando a cospirare per la fine di Ottaviano quando non era né suo dovere né la migliore linea di condotta. Che vergogna, che vergogna!

Solo quando quell’inverno insolitamente freddo si stava infine placando, raggiunse la calma placida sufficiente per pensare a Cleopatra.

Ma che cosa c’era da pensare? Povera, pazza Cleopatra! Che girava tronfia per la tenda del comando scimmiottando la condotta di vetusti marescialli sul campo romani, giudicandosi loro pari per valentia militare solo perché era lei a pagare i conti.

E tutto per Cesarione, il re dei re. Cesare sotto nuove spoglie, sangue del suo sangue. Eppure come avrebbe potuto lui, Antonio, opporsi a lei, quando desiderava solo di compiacerla? Perché altrimenti si sarebbe imbarcato in quell’insana avventura di sconfiggere Roma, se non per amore di Cleopatra? Nella sua mente, lei aveva rimpiazzato la campagna contro i Parti dopo la sua ritirata da Fraaspa.

Lei sbagliava, io avevo ragione. Prima sconfiggere i Parti, poi muovere verso Roma. Quella era la nostra scelta migliore, ma lei non era mai riuscita a vederla. Oh, io l’amo! Quanto sappiamo sbagliarci, quando valutiamo i nostri obiettivi! Ho ceduto a lei quando non avrei dovuto. Le ho permesso di regnare sui miei amici e colleghi quando invece avrei dovuto confiscarle il suo fondo di guerra e rispedirla armi e bagagli ad Alessandria. Ma non ne ho mai avuto la forza, e anche questa è una vergogna, un’umiliazione. Lei mi ha usato perché io le ho permesso di usarmi.

Povera, sciocca Cleopatra! Ma quanto è stato più povero e più sciocco Marco Antonio?

Quando giunse marzo e il clima alessandrino tornò ad alcione, Antonio aprì la porta del suo Timonio.

Sbarbato, i capelli accorciati, oh, quanto erano grigi!, comparve a palazzo senza farsi annunciare chiedendo a gran voce di vedere Cleopatra e il figlio maggiore di lei.

«Antonio, Antonio!» gridò la donna, coprendogli il volto di baci. «Oh, adesso posso tornare a vivere.» «Ho fame di te» le mormorò all’orecchio, quindi la scostò gentilmente da parte per abbracciare un Cesarione traboccante di gioia. «Non ti dirò ciò che ti diranno tutti, ragazzo, ma mi fai sentire di nuovo giovane, con il sedere dolorante dopo una pedata di Cesare. Adesso io ho i capelli grigi e tu sei cresciuto.» «Non abbastanza cresciuto da prestare servizio come legato maggiore… ma del resto, neanche Curione e Antillo. Sono tutti e due qui ad Alessandria, in attesa che uscissi dal tuo guscio timoniano.» «Il figlio di Curione? Il mio primogenito? Edepol, anche loro saranno degli uomini!» Cesarione era raggiante. «Ci troveremo tutti a una magnifica cena domani, non prima. Prima tu e mia madre avete bisogno di stare insieme.» Dopo le ore d’amore più meravigliose che lei avesse mai sperimentato, Cleopatra era sdraiata a fianco di Antonio addormentato, un insetto stecco che cercava di abbracciare un tronco d’albero, pensò divertita. Ardente d’amore per lui, lo espresse con un fiume di parole, e non trattenne nulla di sé, annegata invece nelle favolose sensazioni che aveva provato l’ultima volta quando Cesare la stringeva fra le braccia.

Ma quello era un pensiero traditore, così lo accantonò e si sforzò di ricoprire Antonio di atti d’amore che gli avrebbero fatto sentire quanto amava lui, e non Cesare.

Antonio le aveva detto tutto ciò che si era preparato, preoccupato soprattutto di rassicurarla che non aveva bevuto, che la sua mente era sana in corpo sano.

«Stavo aspettando che crollasse il cielo» concluse, «solo, passivo, completamente distrutto. E poi stamani all’alba mi sono svegliato guarito. Non so perché, o come. Mi sono semplicemente svegliato pensando che, se pure non possiamo vincere questa guerra adesso, Cleopatra, potremo dare del filo da torcere a Ottaviano. Tu mi dici che le mie legioni sono ancora qui a mia disposizione, e che il tuo esercito è accampato sul braccio pelusiaco del Nilo. E allora, quando arriverà Ottaviano, noi saremo lì ad attenderlo.»

L’idillio fra loro non durò a lungo, il mondo esterno gravò con il suo peso e lo distrusse.

Ancora peggiore fu la notizia che Canidio portò a marzo non tanto inoltrato. Aveva viaggiato da solo via terra dall’Epiro all’Ellesponto, era entrato in Bitinia, attraversando per lungo la Cappadocia e passando l’Amanus senza essere riconosciuto. Persino l’ultimo tratto in Siria e Giudea era stato privo di eventi di rilievo. Anche lui era invecchiato, i capelli bianchi, gli occhi azzurri velati, ma la sua fedeltà ad Antonio non aveva vacillato, ed era sceso a patti con la presenza di Cleopatra.

«Azio è stata gonfiata come la più colossale battaglia navale mai combattuta» disse durante una cena, a un tavolo che ospitava il giovane Curione, Antillo e lo stesso Cesarione. «Tante e tante migliaia di tuoi soldati romani sono morti, Antoni, lo sapevi? Al punto che sono stati fatti prigionieri solo una manciata di sopravvissuti.

Tu stesso, in ogni caso, hai continuato a combattere dopo che l’Antonia ha preso fuoco. Poi hai visto la regina che ti lasciava per l’Egitto, sei saltato su una scialuppa e l’hai seguita in fretta e furia, abbandonando i tuoi uomini. Ti sei aperto un varco fra centinaia di soldati romani morenti, ignorando i loro appelli a restare, interessato solo a raggiungere Cleopatra. Quando ci sei riuscito e lei ti ha tratto a bordo della sua nave, ululavi come un cane impalato, ti sei seduto sul ponte, coprendoti la testa e rifiutandoti di muoverti per tre giorni. La regina ti ha confiscato spada e pugnale, tanto sragionavi per i sensi di colpa di aver abbandonato i tuoi uomini. Certo, adesso Roma e l’Italia sono del tutto convinte che, nel migliore dei casi, sei schiavo di Cleopatra. I tuoi più fedeli alleati ti hanno abbandonato. Persino Pollione, anche se non combatterà contro di te.» «Ottaviano è a Roma?» domandò Cesarione, spezzando il silenzio inorridito.

«C’è stato, ma per breve tempo. È partito con altre legioni e flotte per unirsi a quelle che stava aspettando a Efeso. Ho sentito dire che disporrà di trenta legioni, anche se non di altri cavalleggeri oltre ai diciassettemila che ha sempre avuto. Pare stia per salpare da Efeso con destinazione Antiochia, forse persino Pelusio. I venti etesini non soffieranno, ma Austro è arrivato molto tardi negli ultimi anni.» «Quando credi giungerà a destinazione?» domandò Antonio, con tono calmo e atteggiamento imperturbato.

«In Egitto, forse a giugno. E giunta voce che non attraverserà il delta del Nilo via mare. Ha intenzione di marciare da Pelusio a Menfl via terra, e avvicinarsi ad Alessandria da sud.» «Menfi? Curioso» disse Cesarione.

Canidio scrollò le spalle. «L’unica cosa che mi viene in mente, Cesarione, è che voglia Alessandria completamente isolata, impossibilitata a ricevere rinforzi. È una strategia oculata, seppure cauta.» «A me sembra sbagliata» sostenne Cesarione. «È Agrippa l’ideatore di questa strategia?» «Non credo che Agrippa sia presente. Statilio Tauro sarà il secondo in comando di Ottaviano, e Cornelio Gallo avanzerà dalla Cirenaica.» «Una manovra a tenaglia» disse Curione, sciorinando la sua conoscenza.

Antonio e Canidio nascosero il sorriso, Cesarione aveva l’aria esasperata. Ma davvero! Una manovra a tenaglia! Com’era perspicace Curione!

Adesso che Antonio era tornato padrone di sé un pesante fardello si era sollevato dalle spalle di Cleopatra, che tuttavia non riusciva ad attingere come un tempo alle sue riserve di spirito ed energia. Quel nodo in gola era leggermente cresciuto, i piedi e le gambe si continuavano a gonfiare, aveva il fiato corto e aveva avuto un occasionale attacco di panico. Hapd’efan’e attribuì tutto questo al gozzo, senza sapere come curarlo. Il meglio che poteva fare era ordinarle di giacere a letto o sul divano con i piedi sollevati ogni volta che si manifestava l’edema, di solito quando era rimasta seduta per troppo tempo allo scrittoio.

La sua vendicatività e arroganza le avevano gravemente inimicato due degli uomini sul suo confine siriano, Erode e Malco, e Cornelio Gallo aveva bloccato l’ovest dell’Egitto. Così fu costretta a cercare alleati lontano da casa. Un’ambasceria raggiunse il re dei Parti, portando con sé molti doni e promesse di aiuto quando i Parti avessero invaso di nuovo la Siria. Ma che cosa poteva fare per Artavasde di Media?

Stava diventando sempre più potente durante la sua lenta avanzata nella Media Atropatene sfruttando le faide alla corte dei Parti. Artavasde di Armenia, che era stato condotto ad Alessandria per sfilare nel trionfo di Antonio, era ancora tenuto prigioniero. Cleopatra lo fece giustiziare e inviò la sua testa in Media, assieme ad ambasciatori con istruzioni di assicurare il re che la sua figlioletta Iotape sarebbe rimasta fidanzata con Alessandro Elio, e che l’Egitto contava sui Medi per tenere alla larga i romani dal confine armeno; per aiutare a sostenere i costi di quella politica, inviò dell’oro.

Mentre il tempo passava e giungevano rapporti che Ottaviano era sempre in arrivo, Cleopatra fu spinta a tessere trame sempre più deliranti. Ad aprile fece trasportare via terra una piccola flotta di veloci navi da guerra sulle sabbie da Pelusio a Heroónopoli all’estremità superiore del Sinus Arabicus. Ormai, quello che l’assorbiva di più era la salvezza di Cesarione, e non vedeva altra possibilità se non quella di mandarlo a Malabar sulla costa indiana, o in quella grande isola sottostante a forma di pera, Taprobane. Qualunque cosa fosse accaduta, Cesarione doveva essere mandato da qualche parte a terminare la sua crescita; solo da uomo pienamente maturo sarebbe potuto tornare a sconfiggere Ottaviano. Ma non appena la flotta attraccò a Heroónopoli, Malco di Nabatea scese e incendiò tutte le galee sino alla linea d’acqua.

Per niente scoraggiata, fece trasportare un’altra flotta via terra al Sinus Arabicus, ma inviò le navi a Berenice, ben lontana dalla portata di Malco. Con esse partirono cinquanta dei suoi più fidati servitori, con l’ordine di attendere da Berenice l’arrivo del faraone Cesare. A quel punto sarebbero salpate per l’India.

Poiché era impossibile riportare in vita l’associazione dei Viventi Inimitabili, Cleopatra ebbe l’idea di fondare la società dei Compagni di Morte. L’obiettivo era più o meno lo stesso: gozzovigliare, bere, mangiare… ma anche dimenticare per qualche ora ogni tanto il destino ché si stava abbattendo inesorabile. Anche se i Compagni di Morte, rispecchiando il loro nome, non furono mai quella chiassosa e inconcludente serie di bagordi com’erano stati i Viventi Inimitabili. Vuoti, forzati, frenetici.

Antonio era sobrio nonostante il consumo di vino, quasi sempre moderato, perché preferiva passare le giornate con le sue legioni, addestrandole per dare il meglio di loro. Cesarione, Curione e Antillo erano sempre con lui quando era in vena militare, anche se non tanto entusiasti di essere Compagni di Morte. Alla loro età, rifiutavano di credere che la morte fosse possibile; sarebbero morti tutti gli altri, loro non potevano.

Ai primi di maggio giunse una notizia dalla Siria che devastò Antonio. In viaggio per Atene, aveva trovato un centinaio di autentici gladiatori romani arenati a Samo, e li aveva reclutati per combattere nei giochi vittoriosi che intendeva celebrare dopo che avesse sconfitto Ottaviano. Li pagò e affidò loro due navi, ma Azio rovinò i suoi progetti. Apprendendo della sconfitta di Antonio, i gladiatori decisero di raggiungere l’Egitto e combattere per lui lì, non più come soldati della segatura, ma come soldati veri. Arrivarono soltanto ad Antiochia, dove Tito Didio, il nuovo governatore di Ottaviano, li arrestò. A quel punto sopraggiunse Messala Corvino con le prime legioni di Ottaviano, e ordinò che fossero crocefissi. Una morte crudele e lenta riservata agli schiavi e ai pirati, e a nessun altro. Era la maniera di Corvino di dire che i gladiatori che combattevano per Marco Antonio erano schiavi, e non uomini liberi, anche se erano tali.

Per qualche ragione che Cleopatra non riusciva a comprendere, quel piccolo e tragico aneddoto afflisse Antonio come non avevano sembrato fare né Azio né Paretonio. Pianse sconsolato per diversi giorni, e quando finalmente il parossismo del dolore cessò, sembrava aver perduto interesse, energia, spirito. Fu assalito da una sorta di malinconia, anche se mascherata dietro un enorme entusiasmo per l’associazione dei Compagni di Morte, di cui ormai aveva abbracciato in maniera febbrile i bagordi, bevendo sino a perdere la ragione. Le legioni vennero trascurate, l’esercito egiziano dimenticato e, quando Cesarione gli ricordava di continuo che avrebbe dovuto mettersi d’impegno e tenere entrambi gli eserciti pronti a scattare, Antonio lo ignorava.

In quel preciso momento i sacerdoti e nomarchi del Nilo da Elefantina a Menfi, un migliaio di miglia, andarono al cospetto del faraone Cleopatra e si offrirono di combattere sino alla morte dell’ultimo egiziano. Che tutto l’Egitto Nilotico si ergesse a difesa del faraone! gridarono inginocchiati, con i volti premuti sul pavimento d’oro della sala delle udienze.

Tetragona, inamovibile, lei continuò a rifiutarsi finché quelli non tornarono a casa in preda allo sconforto, convinti che il governo romano sarebbe stato la fine dell’Egitto. Ma non se ne andarono prima di averla vista in lacrime. No! piangeva, non avrebbe permesso che l’Egitto diventasse un bagno di sangue per il bene di due faraoni che avevano a malapena sangue egiziano nelle vene.

«Un sacrificio insensato che non posso accettare» esclamò piangendo.

«Madre, non avevi diritto di rifiutare la loro offerta senza di me» disse Cesarione quando lo scoprì. «La mia risposta sarebbe stata la stessa, ma nel non richiedere la mia presenza mi hai privato dei miei diritti acquisiti. Pensi che il tuo comportamento mi risparmi dolore? Ebbene non è così. Come posso governare con la mia giusta divinità se tu insisti a farmi da scudo? Le mie spalle sono più larghe delle tue.»

Mentre cercava di sollevare il morale di Antonio per riscuoterlo dal suo cupo torpore e teneva d’occhio i tre giovani uomini Cesarione, Curione e Antillo, Cleopatra era impegnatissima a completare la sua tomba, iniziata quando era salita al trono a diciassette anni, com’era usanza e tradizione. Si trovava dentro la Sema, un enorme complesso interno alla Cinta Reale, dov’erano sepolti tutti i Tolemei, e dove Alessandro Magno giaceva racchiuso in un sarcofago di cristallo trasparente. Il complesso ospitava uno dei suoi due fratelli mariti (da lei assassinato per far salire al trono Cesarione); l’altro, annegato, era sotto le acque del Nilo Pelusiaco. Ciascun Tolemeo aveva la propria tomba, come i vari Berenice, Arsinoë e Cleopatre che avevano regnato. Benché di struttura faraonica, non erano edifici giganteschi; una camera interna per il sarcofago, le casse canopiche e le statue guardiane, oltre a tre camerette esterne stracolme di cibi, bevande, mobili e una raffinata barca di giunco per solcare il Fiume della Notte.

Poiché la tomba di Cleopatra avrebbe dovuto ospitare anche Antonio, era di dimensioni doppie rispetto alle altre. Il suo lato era terminato; e invece gli artigiani stavano ancora lavorando su quello di Antonio. Costruito con il granito rosso opaco di Nubia, era stato lustrato a specchio e aveva forma rettangolare, con le mura esterne disadorne se non per i cartigli suoi e di Antonio. Due massicce porte di bronzo intagliate di simboli sacri chiudevano la doppia serie di camere, e si aprivano in un’anticamera cui si accedeva attraverso due porte laterali. Un tubo portavoce penetrava la muratura spessa cinque piedi, adiacente all’anta sinistra delle porte esterne.

Finché lei e Antonio non avessero giaciuto completamente imbalsamati all’interno della tomba, in alto sulla parete della porta sarebbe rimasto un varco, raggiunto da un ponteggio di salcioli; un argano e un lungo canestro spazioso permettevano l’accesso e l’uscita dalla tomba a persone e cose. Il processo d’imbalsamazione richiedeva novanta giorni, dunque sarebbero trascorsi tre mesi interi fra la morte e la sigillatura del varco in alto sulla parete della porta; i sacerdoti imbalsamatori avrebbero fatto la spola dentro e fuori con i loro strumenti e il natron, il sale acido e pungente che si otteneva dal Lago Tritone ai margini della Provincia Africana romana. Fin quando fosse stato pronto, i sacerdoti alloggiavano in un edificio speciale assieme alla loro attrezzatura.

La camera interna di Antonio era collegata a quella di lei tramite una porta, ed erano tutte e due sontuose, ornate di affreschi, oro, gemme, con tutte le comodità che faraone e consorte potessero desiderare nel Regno dei Morti. Libri da leggere, scene della loro vita su cui sorridere, tutte le divinità egiziane dalla prima all’ultima, un meraviglioso murale del Nilo. Il cibo, il mobilio, le bevande e la barca erano già stati installati; non avrebbe richiesto ancora molto tempo, Cleopatra lo sapeva.

Nelle sale riservate ad Antonio campeggiavano il suo scrittoio e il suo curule d’avorio, le sue migliori armature, un dispiego di toghe e tuniche, tavoli di legno di cedro su piedistalli d’avorio intarsiato d’oro. C’erano i templi in miniatura che custodivano le immaginette di cera di tutti i suoi antenati giunti alla carica di pretore e, su una colonnetta, un busto che lo raffigurava e che gli piaceva particolarmente; lo scultore greco gli aveva inguainato la testa nelle fauci della pelle di un leone, gli artigli stretti sul torace e due occhi rossi ardenti sopra il capo. Gli unici elementi che mancavano da quella sezione erano una minuziosa armatura e una toga bordata di porpora, tutto ciò di cui aveva bisogno prima della fine.

Naturalmente Cesarione sapeva in che cosa era impegnata, si rendeva certo conto che era mossa dall’idea che lei e Antonio sarebbero presto morti, ma non disse nulla, né tentò di dissuaderla. Solo il faraone più sciocco non metteva in conto la morte; tutto ciò non significava che la madre e il patrigno contemplassero il suicidio, solo che si approntavano a entrare nel Regno dei Morti attrezzati ed equipaggiati a dovere, sia che le loro morti fossero dovute all’invasione di Ottaviano, sia che non fossero avvenute per altri quarant’anni. Anche la sua tomba era in fase di costruzione, com’era giusto e opportuno; sua madre l’aveva posta accanto a quella di Alessandro Magno, ma lui l’aveva spostata in un angolo ridotto e non invadente.

Una parte di lui era elettrizzata alla prospettiva della battaglia, mentre un’altra si preoccupava e rimuginava sul destino del suo popolo nel caso fosse rimasto senza faraone. Abbastanza grande da ricordare la carestia e la pestilenza degli anni compresi fra la morte del padre e la nascita dei gemelli, provava un enorme senso di responsabilità, e sapeva di dover restare in vita a prescindere dalle sorti della madre e del suo consorte. Era sicuro che gli sarebbe stata risparmiata la vita se avesse intrapreso le trattative con intelligenza, ed era pronto a dare a Ottaviano qualunque tesoro avesse chiesto. Per l’Egitto, il faraone vivente era di gran lunga più importante di gallerie stracolme di semplici oggetti. Le sue idee e opinioni su Ottaviano erano private, e mai espresse a Cleopatra, che non le avrebbe approvate e non avrebbe pensato bene di lui per il fatto di averle. Perché lui comprendeva il dilemma di Ottaviano, e non poteva biasimarlo per le sue azioni. Oh, madre, madre! Quanta boria, quanta ambizione! Poiché aveva osato sfidare la potenza di Roma, Roma stava arrivando. Per l’Egitto stava per cominciare una nuova era, un’era che sarebbe toccato a lui controllare. Nella condotta di Ottaviano non c’erano indicazioni che fosse un tiranno; era, preconizzava Cesarione, un uomo con una missione da compiere, quella di proteggere Roma dai suoi nemici e garantire sicurezza e prosperità al suo popolo. Con quegli scopi in mente, avrebbe fatto tutto ciò che era necessario, ma non di più. Un uomo ragionevole, un uomo con cui si poteva discutere, cui mostrare i vantaggi di un Egitto stabile sotto un reggente stabile che non avrebbe mai rappresentato un pericolo. L’Egitto, amico e Alleato del popolo romano, il più fedele regno cliente.

Cesarione compì diciassette anni il ventitreesimo giorno di giugno. Cleopatra avrebbe voluto organizzare una grande festa, ma lui rifiutò anche di sentirne parlare.

«Basta una cosa piccola, madre. La famiglia, Apollodoro, Cha’em, Sosigene» disse risolutamente. «Niente Compagni di Morte, ti prego! Cerca di dissuadere Antonio in merito.» Compito non difficile come si aspettava; Marco Antonio si stava logorando, indebolendo.

«Se il ragazzo vuole un festeggiamento come quello, lo avrà.» Negli occhi castani tendenti al rosso balenò una rara scintilla. «A essere sincero, mia adorata moglie, in questi giorni sono più Morte che Compagno.» Sospirò. «Adesso che Ottaviano ha raggiunto Pelusio non ci vorrà più molto tempo. Un altro mese, forse un po’ di più.» «Il mio esercito non ha opposto resistenza» disse lei a denti stretti.

«Oh, avanti, Cleopatra, perché avrebbe dovuto? Contadini senza terra, qualche vecchio centurione romano dei tempi di Aulo Gabinio grigio e anchilosato… non gli chiederei di dare la vita più di quanto lo desideri Ottaviano. No, in realtà, sono, felice che non abbiano combattuto.» Assunse uno sguardo divertito. «E ancora più felice che Ottaviano si sia limitato a spedirli a casa. Si sta comportando da turista più che da conquistatore.» «Che cosa possiamo fare per fermarlo?» domandò lei con amarezza.

«Nulla, ed è una realtà irrefutabile. Credo che dovremmo mandare subito un ambasciatore da lui a chiedere le condizioni della resa.»

Solo un giorno prima si sarebbe avventata su di lui, ma quello era ieri. Dallo sguardo sul volto del figlio il giorno del suo compleanno aveva intuito che Cesarione non voleva che il suolo del suo paese fosse intriso del sangue dei suoi sudditi; avrebbe acconsentito a un’ultima resistenza delle legioni romane accampate all’ippodromo, ma solo perché i soldati avevano fame di battaglia. Gli era stata negata ad Azio, quindi la volevano lì. Vittoria o sconfitta non importava, solo la possibilità di combattere.

Sì, in sostanza, era quello voleva Cesarione, ed era la pace a qualsiasi prezzo. E allora che sia. Pace a qualsiasi prezzo.

«Chi andrà da Ottaviano?» domandò lei.

«Io pensavo ad Antillo» disse Antonio.

«Antillo? È un bambino!» «Esatto. Inoltre, Ottaviano lo conosce bene. Non mi viene in mente ambasciatore migliore.» «No, neanche a me» rispose lei dopo averci riflettuto. «In ogni caso, comporterà che tu scriva una lettera. Antillo non è abbastanza intelligente da negoziare.» «Lo so. E sì, scriverò la lettera.» Allungò le gambe, si fece passare una mano fra i capelli, ormai più bianchi che grigi. «Oh mia adorata ragazza, quanto sono stanco!

Voglio solo che sia finita.» Il groppo in gola che lei avvertiva adesso era interiore; deglutì. «Anche io, amore mio, vita mia. Sono immensamente dispiaciuta del tormento che ti ho inflitto, ma non capi vo… no, no, devo smetterla di trovare scuse! Devo accettare la colpa con onestà, senza battere ciglio, senza giustificazioni. Se fossi rimasta in Egitto, le cose sarebbero potute andare in maniera molto differente.» Appoggiò la fronte contro quella di lui, troppo vicina per guardarlo negli occhi. «Non ti amavo abbastanza, e così adesso soffro… oh, terribilmente! Ti amo, Marco Antonio. Ti amo più della mia stessa vita, non vivrò senza di te. Voglio solo vagare per sempre con te nel Regno dei Morti.

Saremo insieme nella morte come non lo siamo mai stati nella vita, perché laggiù troveremo pace, soddisfazione, una meravigliosa serenità.» Alzò la testa. «Tu ci credi?» «Sì.» I suoi dentini bianchi lampeggiarono. «Per questo è meglio essere egiziani che non romani. I romani non credono nella vita dopo la morte, e così non la temono.

È solo un sonno eterno, come la riteneva Cesare. E Catone, e Pompeo Magno, e gli altri. Ebbene, mentre loro dormiranno, io camminerò nel Regno della Morte insieme a te. Per sempre.»

 

«Ottaviano, sono sicuro che tu non voglia altri morti fra i romani e, da come hai trattato l’esercito di mia moglie, neanche fra i nemici.

Suppongo che tu sarai a Menfi, quando ti raggiungerà il mio primogenito. Il ragazzo reca questa lettera perché so che così arriverà sul tuo scrittoio e non su quello di qualche legato. Mio figlio non sta più nella pelle di rendermi questo servizio, e io sono lieto di concederglielo.

Ottaviano, non continuiamo con questa farsa. Ammetto in tutta libertà di essere stato l’aggressore nella nostra guerra, se guerra può definirsi. Marco Antonio non ha certo brillato, questo è sicuro, e adesso desidera un epilogo.

Se permetterai alla regina Cleopatra di amministrare il suo regno in qualità di faraone e regina, accetterò di trafiggermi con la spada. La giusta fine di una lotta patetica. Rimandami la tua risposta assieme a mio figlio. L’attenderò per tre nundinae. Se per allora non avrò ricevuto risposta, saprò che hai rifiutato la mia richiesta.»

 

Le tre nundinae trascorsero ma da Ottaviano non giunsero notizie. Quello che preoccupava Antonio era il fatto che Antillo non tornasse, ma poi si convinse che Ottaviano avrebbe trattenuto il ragazzo finché la sua vittoria non fosse stata completa, e a quel punto… Che cosa si faceva ai figli dei proscritti? L’esilio era la pratica consueta, ma Antillo aveva vissuto per anni con Ottavia. Suo fratello non avrebbe bandito uno della sua nidiata. Né gli avrebbe negato un reddito abbastanza cospicuo da vivere come si addiceva a un antoniano.

«Pensavi davvero che Ottaviano avrebbe accettato le eventuali condizioni espresse nella tua lettera?» domandò Cleopatra. Lei non l’aveva vista, né aveva chiesto di vederla; la nuova Cleopatra capiva che gli affari degli uomini appartenevano agli uomini.

«Credo di no» disse Antonio scrollando le spalle. «Vorrei che Antillo si mettesse in contatto con me.» Come fare a dirgli che il ragazzo era morto? si domandò Cleopatra. Ottaviano non poteva accettare le condizioni, aveva bisogno del tesoro dei Tolemei. Sapeva dove trovarlo? No, certo che no. Il che non l’avrebbe dissuaso da scavare più buche nelle sabbie d’Egitto di quante fossero le stelle nel firmamento. E Antillo? Da vivo, una seccatura. I ragazzi di sedici anni avevano l’argento vivo addosso e una certa astuzia; Ottaviano non avrebbe corso il rischio di tenerlo in vita per poi vederlo fuggire e riferire lo schieramento del nemico al padre. Sì, Antillo era morto. Sarebbe cambiato qualcosa se avesse affrontato l’argomento con il padre o se si fosse tenuta la sua opinione per sé? No, per niente. E allora perché scaricargli un altro fardello o lutto sulle spalle, così curve, così… fragili? Un aggettivo che non avrebbe mai pensato di attribuire a Marco Antonio.

Invece intavolò l’argomento relativo a un altro giovane… Cesarione. «Antonio, ci restano forse tre nundinae prima che Ottaviano raggiunga Alessandria. Da qualche parte nelle vicinanze della città immagino che tu darai battaglia, giusto?» Lui scrollò le spalle. «Sono i soldati a volerla, quindi sì.» «Non possiamo permettere a Cesarione di combattere.» «In caso dovesse perdere la vita?» «Sì. Ritengo improbabile che Ottaviano mi consentirà di governare l’Egitto, ma non lo consentirà neanche a Cesarione. Devo mandare Cesarione lontano, in India o a Taprobave prima che Ottaviano lo rintracci. Ho spedito una cinquantina di uomini valorosi e una piccola e veloce flotta da Berenice. Cha’em ha affidato ai miei servi una sufficiente quantità d’oro da permettere una vita dignitosa a Cesarione, alla fine del suo viaggio. Quando sarà un uomo pienamente cresciuto, potrà tornare.»

Lui la studiò con attenzione, le sopracciglia congiunte per la fronte contratta.

Cesarione, sempre Cesarione! Eppure, aveva ragione lei. Se fosse rimasto, Ottaviano l’avrebbe scovato e ucciso. Era obbligato a farlo. Nessun rivale che assomigliava tanto a Cesare come quel figlio egiziano poteva essere lasciato in vita.

«Che cosa vuoi da me?» le domandò.

«Il tuo sostegno quando lo dirò a Cesarione. Non vorrà partire.» «Non vorrà, ma deve. D’accordo, avrai il mio sostegno.» Entrambi rimasero sbigottiti quando Cesarione accettò sui due piedi.

«Capisco il vostro punto di vista, madre, Antonio» disse, con gli occhi azzurri sgranati. «Uno di noi deve vivere, e invece nessuno di noi sarà lasciato in vita. Se io vivrò segretamente in India per dieci anni, Ottaviano lascerà che l’Egitto vada per la sua strada. Come provincia, non come regnocliente. Ma se la gente del Nilo saprà che il faraone è vivo, mi accoglieranno di buon grado quando tornerò.» Gli occhi pieni di lacrime, si voltò per nascondere il viso. «Oh, madre, madre, l’idea di non vederti mai più! Devo, ma non posso. Tu sfilerai nel trionfo di Ottaviano, e poi morirai per mano dello strangolatore. Devo, ma non posso!» «Sì che puoi, Cesarione» ribatté Antonio risoluto, afferrandolo per gli avambracci.

«Non dubito dell’amore che provi per tua madre, ma non dubito neanche dell’amore che nutri per il tuo popolo. Parti per l’India e restaci finché non sarà giunto il momento di tornare. Te ne prego!» «Oh, partirò. È la cosa più assennata da fare.» Rivolse a entrambi il sorriso di Cesare, e lasciò la stanza.

«Quasi non riesco a crederci» disse Cleopatra, carezzandosi il groppo in gola. «Ha detto che sarebbe partito, vero?» «Sì, ha detto così.» «Dev’essere domani.»

E domani fu; vestito come un banchiere o un burocrate della classe media, Cesarione partì con i due servi appropriati, tutti e tre a dorso di ottimi cammelli.

Cleopatra rimase sulla merlatura della Cinta Reale a guardare, sin dove la vista glielo permise, il figlio sulla strada per Menfi, agitando un fazzoletto rosso, sfoggiando un sorriso smagliante. Con il pretesto di un’emicrania, Antonio restò nel palazzo.

E lì lo trovò Canidio, fermandosi sulla soglia per assorbire la vista di Marco Antonio sdraiato su un divano, con un braccio sugli occhi. «Antonio?» Antonio ruotò le gambe e si mise a sedere, sbattendo le palpebre.

«Non ti senti bene?» domandò Canidio.

«Un’emicrania, ma non per il vino. La vita mi pesa.» «Ottaviano non collaborerà.» «Ebbene, lo sapevamo sin da quando la regina gli ha inviato il suo scettro e il suo diadema a Pelusio. Vorrei che quella città fosse stata fiacca come l’esercito! Sono morti tanti egiziani valorosi… come potevano pensare di resistere a un assedio romano?»

«Ottaviano non poteva permettersi un assedio, Antonio, ecco perché ha preso d’assalto il palazzo.» Canidio scrutava Antonio, perplesso. «Non ricordi? Sei malato!» «Sì, sì, ricordo!» Antonio scoppiò a ridere, un suono cacofonico. «Ho troppe cose cui pensare, tutto qui. È a Menfi, vero?» «È stato a Menfi. Adesso? Sta risalendo il Nilo Canopico.» «Che cos’ha da dire mio figlio di lui?» «Tuo figlio?» «Antillo!» «Antonio, è da un mese che non abbiamo notizie da Antillo.» «Non abbiamo notizie? Che strano! Ottaviano deve averlo trattenuto.» «Sì, direi che è stato così» rispose Canidio con tono gentile.

«Ottaviano ha mandato un servo con delle lettere, vero?» «Sì» esclamò Cleopatra dalla soglia. Entrò nella stanza e si sedette di fronte ad Antonio, lanciando con gli occhi cenni frenetici a Canidio.

«Come si chiama quell’uomo?» «Tirso, caro.» «Rinfrescami la memoria, Cleopatra» disse Antonio, palesemente molto confuso.

«Che cosa c’era scritto sulle lettere che ti ha spedito Ottaviano?» Canidio si era accasciato su una sedia, fissando la scena strabiliato.

«La lettera pubblica mi ordinava il disarmo e la resa, quella destinata solo a me diceva che Ottaviano avrebbe trovato una soluzione soddisfacente per tutte le parti in causa» disse Cleopatra con tono pacato.

«Oh, sì! Sì, certo, era così… Ah… Non dovevo fare qualcosa per te? Riguardo al comandante di guarnigione a Pelusio?» «Ha mandato i suoi familiari ad Alessandria per metterli in salvo, e io li ho fatti arrestare. Perché i suoi familiari avrebbero dovuto evitare la sofferenza che ha subito Pelusio? Ma poi Cesarione» s’interruppe, torcendosi le mani, «ha detto che ero troppo infuriata per amministrare la giustizia, e li ha affidati a te.» «Oh! Oh. E io ho amministrato la giustizia nei loro confronti?» «Li hai liberati. Non c’è stata giustizia.» Canidio ascoltò lo scambio, con la sensazione di essere stato colpito da un’ascia.

Tutto ciò era finito, avvenuto nel passato! Santi numi, Antonio era… era sull’orlo della demenza! Non aveva più memoria. E come avrebbe fatto lui, Canidio, a discutere di piani di guerra con un vecchio smemorato? Distrutto. A pezzi. Inadatto al comando.

«Che cosa vuoi, Canidio?» gli stava domandando Antonio.

«Ottaviano è quasi alle porte, Antonio, e io ho sette legioni all’ippodromo che smaniano di dare battaglia. Dobbiamo combattere?» Antonio balzò in piedi, trasformandosi in un istante da vecchio smemorato a generale di truppe, entusiasta, vigile, interessato. «Sì! Sì, certo che combatteremo» disse, e prese a ringhiare. «Mappe! Ho bisogno di mappe! Dove sono Cinna, Turullio, Cassio?» «In attesa, Antonio. Muoiono dalla voglia di combattere.»

Cleopatra s’incontrò con il visitatore fuori della stanza. «Da quanto tempo va avanti tutto questo?» domandò Canidio.

«Sin dal suo ritorno da Fraaspa, quanto saranno… quattro anni?» «Per Giove! Perché io non me ne sono accorto?» «Perché si manifesta con attacchi sporadici, e di solito quando Antonio ha la guardia abbassata, o accusa un’emicrania. Cesarione è partito oggi, quindi è una pessima giornata. Ma non temere, Canidio. Ne sta già uscendo, e per domani sarà esattamente com’era a Filippi.»

Cleopatra non parlava a cuor leggero. Mentre le avanguardie di cavalleria di Ottaviano giungevano nei sobborghi di Canopo, dov’era situato l’ippodromo, Antonio scalpitava. Quello era il vecchio Antonio, pieno di impeto e fuoco, incapace di piazzare un piede, o un uomo, nel posto sbagliato. Messa in rotta la cavalleria, le sette legioni di Antonio si lanciarono in battaglia cantando i peana a Ercole Invitto, divinità patrona degli Antonii e della guerra.

Tornò ad Alessandria al tramonto, ancora paludato nell’armatura, per essere salutato da un’estasiata Cleopatra. «Oh, Antonio, Antonio, non ci sono aggettivi per te!» gridava, coprendogli il volto di baci. «Cesarione! Come vorrei che Cesarione potesse vederti in questo momento!» Non aveva ancora imparato la lezione, poveretta. Quando Canidio, Cinna, Decimo Turullio e gli altri arrivarono più o meno sudati e sporchi di sangue come Antonio, corse dall’uno e dall’altro sfoggiando un sorriso così largo che Cinna, fra gli altri, trovò quell’esibizione rivoltante.

«Non era una battaglia cruciale» cercò di dirle Antonio quando gli piroettò accanto in una delle sue evoluzioni. «Risparmia la gioia per la grande battaglia che deve ancora venire.» Ma no, no, lei non voleva ascoltare. Tutta la città stava festeggiando come per una battaglia cruciale, e Cleopatra era completamente assorbita a organizzare un ricevimento in onore della vittoria previsto per il giorno successivo nel ginnasio… Avrebbe partecipato l’esercito, lei avrebbe decorato i soldati più valorosi, i legati sarebbero stati sistemati in un padiglione d’oro su cuscini sontuosi e morbidi, i centurioni in qualcosa di leggermente meno sfarzoso… «Sono pazzi tutti e due» disse Cinna a Canidio. «Pazzi!» Lui cercò di contenerla, ma l’uomo Antonio, l’amato, era svanito prima che Cleopatra si convincesse che, vincendo quella battaglia minore, la guerra fosse vinta e finita, che il suo regno fosse salvo, che Ottaviano non fosse più una minaccia. Tutti militari di carriera, i legati osservarono un impotente Antonio soccombere alla folle gioia della donna e profondere le restanti energie per convincerla che il ginnasio non avrebbe mai potuto contenere le sette legioni.

Sul ricevimento erano d’accordo solo gli uomini di truppa che avrebbero dovuto essere decorati in quell’occasione, anche se intervennero oltre quattrocento centurioni, i tribuni militari, i legati più giovani e tutti gli alessandrini che riuscirono a pigiarsi. C’erano anche i prigionieri da ospitare, uomini che Cleopatra insistette fossero incatenati e sistemati dove gli alessandrini potessero schernirli e lanciargli degli ortaggi marci. Se con nient’altro fosse riuscita ad alienarsi le simpatie delle legioni, ci riuscì con quel gesto. Antiromano, barbaro. Un insulto a uomini che erano romani come tutti gli altri.

E non volle ascoltare consigli sulle decorazioni, che insistette per conferire di persona; anziché la semplice corona di foglie di quercia al valore, l’uomo che aveva salvato la vita ai compagni e mantenuto il suo posto in battaglia sino alla fine si vide premiare con elmo e corazza d’oro da una donnina ordinaria con gli occhi leggermente sporgenti, che lo baciò!

«Dove sono le foglie di quercia? Voglio le foglie di quercia!» pretendeva il soldato, offeso a morte.

«Foglie di quercia?» disse lei, con una risata argentina. «Mio caro ragazzo, una stupida corona di foglie di quercia al posto di un elmo d’oro? Sii ragionevole!» Lui lasciò cadere le bardature d’oro ai margini della folla, e raggiunse subito l’esercito di Ottaviano, con una rabbia tale da sapere che l’avrebbe uccisa se fosse rimasto. Quello di Antonio non era un esercito romano, era un’accozzaglia di danzatrici ed eunuchi.

«Cleopatra, Cleopatra, quando imparerai?» domandò Antonio sinceramente addolorato quella notte, dopo che quella farsa ebbe termine e gli alessandrini tornarono a casa, sazi.

«Che cosa vuoi dire?» «Mi hai coperto di vergogna di fronte ai miei uomini!» «Coperto di vergogna?» La donna si trasse su e si preparò alla propria battaglia.

«Che cosa intendi con coperto di vergogna?» «Non è compito tuo condurre una cerimonia militare, né di alterare i mos maiorum di Roma dando l’oro ai soldati invece delle foglie di quercia. E né mettere i soldati in catene. Sai che cos’hanno detto i prigionieri quando li ho invitati a unirsi alle mie legioni? Hanno detto che preferirebbero morire. Morire!» «Oh, bene, se è così che la pensano, li accontenterò!» «Non farai niente del genere. Per l’ultima volta, signora, tieni il naso fuori dagli affari degli uomini!» ruggì Antonio, tremando. «Mi hai fatto diventare un effeminato, una… una saltatrix tonsa che batte in cerca di clienti fuori dalla Venus Erucina!» La rabbia di lei si placò nell’istante in cui stava per fulminarlo; le cadde la mascella, gli occhi si abbassarono, lo scrutò con sincero sgomento. «Io… io pensavo che lo volessi tu» mormorò. «Pensavo che avrebbe migliorato la tua posizione se i tuoi soldati di truppa, i tuoi centurioni e tribuni avessero visto la grandezza delle ricompense una volta che la nostra guerra fosse vinta. E non l’abbiamo vinta? Di sicuro è stata una vittoria, no?» «Sì, ma piccola, non una grande vittoria. E per Giove, donna, risparmia i tuoi elmi e le corazze d’oro per i soldati egiziani! Quelli romani preferiscono una corona di foglie.» E così si separarono, ciascuno a piangere, ma per ragioni molto differenti.

Il giorno successivo si baciarono e riappacificarono; non era il momento per restare ai ferri corti.

«Se giurerò su mio padre Amun Ra che non interferirò nelle tue azioni militari, Marco, mi permetterai di partecipare a quella grande battaglia?» domandò, gli occhi scavati per il sonno arretrato.

Da qualche parte riuscì a raccogliere un sorriso, la trasse a sé e inalò la squisita fragranza della sua pelle, quella lieve fragranza fiorita che distillava dal balsamo di Gerico. «Sì, amore mio, sto per combattere la mia ultima battaglia!» Lei s’irrigidì, e si ritrasse per guardarlo. «Ultima battaglia?» «Sì, l’ultima battaglia. Domani all’alba.» Trasse un respiro, assunse uno sguardo severo. «Non tornerò, Cleopatra. Non importa ciò che accadrà, non tornerò. Potremo anche vincere, ma è solo una battaglia. Ottaviano ha vinto la guerra. Voglio morire sul campo il più valorosamente possibile. Così, l’elemento romano se ne andrà e tu potrai trattare con Ottaviano senza doverti preoccupare di me. Sono io la sua spina nel fianco, non tu… tu sei una nemica straniera con cui poter trattare chiaramente, come fa un romano. Potrebbe esigere che tu sfili nella parata del suo trionfo, ma non giustizierà te o i tuoi figli a causa mia. Dubito che ti permetterà di governare l’Egitto, il che significa che, al termine del suo trionfo, ti manderà a vivere con i bambini in una roccaforte italiana come Norba o Preneste. Con tutti gli agi e le comodità. E lì potrai attendere il ritorno di Cesarione.» Il suo viso aveva perso colore, che si era tutto concentrato in quegli enormi occhi dorati. «Antonio, no!» mormorò.

«Antonio, sì. È così che voglio, Cleopatra. Puoi chiedere le mie spoglie e lui te le consegnerà. Non è un uomo vendicativo… le sue azioni sono opportune, razionali, ragionate con cura. Non negarmi la possibilità di una morte decorosa, amore mio, te ne prego!» Sentì il calore delle lacrime, che le bruciavano sulle gote nel ricadere agli angoli della bocca. «Non ti negherò la tua morte decorosa, mio adorato. Un’ultima notte nelle tue braccia vive, chiedo solo questo e nient’altro.» Lui le scoccò un bacio e parti alla volta dell’ippodromo, per dare le sue disposizioni di battaglia.

Priva di scopo, uccisa interiormente, attraversò il palazzo sino alla porta che conduceva dalla parte opposta dei giardini ricchi di palme alla Sema, con Charmian e Iras al seguito come sempre. Non avevano fatto domande; non ce n’era bisogno dopo aver visto il volto del faraone. Antonio sarebbe andato a morire in battaglia, Cesarione era andato in India, e il faraone si stava rapidamente avvicinando a quel flebile orizzonte che separava il Nilo dei vivi dal Regno dei Morti.

Alla sua tomba richiese l’attenzione degli operai ancora impegnati con il lato di Antonio, e diede ordini che tutto fosse pronto per accoglierne le spoglie al tramonto del giorno successivo. Dopodiché si fermò nella piccola anticamera appena all’interno delle grandi porte di bronzo e le scrutò, quindi si voltò a guardare la più esterna delle camere a lei riservate, dove era stato posto un sontuoso letto, e una vasca da bagno, un angolo per le sue funzioni corporee, un tavolo e due seggiole, uno scrittoio su cui era accatastata la più raffinata carta di papiro, penne di giunco, un panetto d’inchiostro, una sedia. Tutto ciò di cui il faraone avrebbe avuto bisogno nell’aldilà. Ma, pensò lei, era anche adeguatamente fornito per il faraone in questa vita.

Era questo a tormentarla, l’impotenza di lei imprigionata fra la morte di Antonio e la decisione di Ottaviano in merito al destino di lei e dei suoi figli. Doveva nascondersi! Nascondersi finché non avesse scoperto qual era la decisione di Ottaviano. Se lui l’avesse trovata in un luogo in cui poteva essere catturata, sarebbe stata incarcerata e i suoi figli probabilmente uccisi su due piedi. Antonio continuava a insistere che Ottaviano era un uomo clemente, e invece per Cleopatra era basilisco, il rettile letale. Certo, la voleva viva per la parata del suo trionfo: ergo, una Regina delle Bestie morta era l’ultima cosa che desiderava. Ma se lei si fosse tolta la vita adesso, i suoi figli ne avrebbero indubbiamente sofferto. No, non poteva togliersi la vita finché non avesse messo in salvo i suoi figli. Per prima cosa, Cesarione non aveva ancora raggiunto il porto sul Sinus Arabicus; sarebbero passate varie nundinae prima che salpasse. Quanto ai figli di Antonio… lei era la loro madre, avvinta nel filo intangibile che legava per sempre una donna ai suoi figli.

L’idea le era venuta quando per caso aveva posato gli occhi sul letto. Perché non nascondersi nella sua tomba? A essere sinceri, si poteva ancora accedervi dal varco ma, prima che Ottaviano potesse ordinare ai suoi uomini di entrare, lei avrebbe gridato attraverso il tubo portavoce che nel caso qualche lacchè avesse cercato di entrare da quella parte, l’avrebbero trovata morta per avvelenamento. L’ultima causa di morte che Ottaviano avrebbe potuto avallarle; i tanti nemici di quell’uomo avrebbero detto a gran voce che era stato lui ad avvelenarla. In un modo o nell’altro doveva restare viva e libera di agire, per un periodo di tempo sufficiente a ottenere il giuramento di Ottaviano che i suoi figli sarebbero sopravvissuti e avrebbero prosperato indipendenti da Roma. Nell’eventualità di un rifiuto da parte del Signore di Roma, si sarebbe avvelenata in maniera tanto manifesta e sconvolgente che l’abominio di quell’azione avrebbe per sempre distrutto l’immagine politica di Ottaviano.

«Resterò qui» disse a Charmian e Iras. «Mettete un pugnale su quel tavolo, un altro accanto al tubo portavoce, e andate subito da Hapd’efan’e. Ditegli che voglio una fiala di aconitas puro. Ottaviano non metterà mai le mani su Cleopatra viva.» Un ordine che Charmian e Iras fraintesero, pensando che la loro padrona volesse morire, oh, che agonia!, quasi seduta stante. Così, quando le due donne entrarono in lacrime nel palazzo, un agghiacciato Apollodoro fraintese a sua volta le intenzioni di Cleopatra. «Dov’è la regina?» «Nella sua tomba» singhiozzò Iras, allontanandosi repentina per andare a cercare Hapd’efan’e.

«Vuole morire prima che Ottaviano raggiunga Alessandria!» riuscì a dire Charmian fra gli spasmi delle lacrime.

«Ma… Antonio!» ribatté Apollodoro, devastato.

«Antonio vuole morire nella battaglia di domani.» «Per allora la Figlia di Ra sarà morta?» «Non lo so! Forse, probabilmente… non lo so!» Charmian uscì in tutta fretta a cercare del cibo fresco per la sua padrona nella tomba.

Nel giro di un’ora tutti a palazzo sapevano che il faraone stava per morire; la sua apparizione in sala da pranzo sbalordì Cha’em, Apollodoro e Sosigene.

«Maestà, abbiamo saputo» disse Sosigene.

«Non voglio morire oggi» rispose Cleopatra, divertita.

«Ti supplico, Maestà, ripensaci!» scongiurò Cha’em. «Che cosa? Non hai avuto visioni della mia morte, figlio di Ptah? Dormi tranquillo! Non si deve temere la morte. Nessuno lo sa meglio di te.» «E padrone Antonio? Glielo dirai?» «No, non glielo dirò, signori. È pur sempre un romano, non capirà. Voglio che la nostra ultima notte insieme sia perfetta.»

Nel cuore di quell’ultima notte che Antonio e Cleopatra trascorsero l’uno nelle braccia dell’altra, sereni, inondati d’amore, i sensi esaltati in maniera quasi intollerabile, gli dei lasciarono Alessandria. Annunciarono la loro partenza con un debole sussulto, un sospiro, un immenso mugolio sempre più flebile come il tuono che muore in lontananza.

«Serapide e gli dei di Alessandria sono simili a noi, mio adorato Antonio» mormorò appoggiata al collo di lui.

«È solo un tremito» disse lui vagamente, mezzo addormentato.

«No, gli dei si rifiutano di restare in un’Alessandria romana.» Dopodiché lui si addormentò, mentre Cleopatra non ci riuscì. La stanza era fiocamente illuminata dalle lampade, quindi poté alzarsi su un gomito e abbassare lo sguardo su di lui, godendosi la vista del suo amatissimo viso, i ricci quasi argentei in meraviglioso contrasto con la pelle rubizza, i piani ossei affilati per la perdita di peso.

Oh, Antonio, che cosa ti ho fatto, e di tutto ciò non un gesto di bontà, o gentilezza, o comprensione! Questa notte è stata così serena che mi sento avvolta dal tuo perdono… tu non mi hai rinfacciato la mia condotta. Io me ne domandavo il motivo, e invece adesso capisco che il tuo amore per me era tanto grande da perdonare ogni cosa, qualunque cosa. Tutto ciò che posso fare in cambio e rendere l’eternità della morte qualcosa di inaccessibile alle umane sensazioni, un idillio dorato nel regno di Amun Ra.

Ma poi doveva essersi assopita, perché lui si stava alzando, un vago profilo nero nel chiarore perlaceo dell’alba. Lei osservò il suo servitore aiutarlo a indossare l’armatura; la tunica scarlatta foderata con sotto il sospensorio dello stesso colore, il grembiule di cuoio sempre scarlatto, la corazza d’acciaio sagomato, gonnellino e maniche con le loro frange di cuoio rosso, i calzari allacciati stretti, con le linguette munite di leoni d’acciaio ripiegate sulle cinghie incrociate. Rivolgendole un largo sorriso, mise l’elmo d’acciaio sottobraccio e gettò il paludamentum scarlatto all’indietro per farselo ricadere sulle spalle.

«Vieni, moglie mia» disse. «Vieni a dirmi addio.» Lei gli infilò il suo fazzoletto più prezioso, spruzzato del suo profumo, nello scavo della manica della corazza e uscì con lui nell’aria chiara e fresca, fremente del canto degli uccelli.

Canidio, Cinna, Decimo Turullio e Cassio Parmense stavano aspettando; Antonio salì su uno sgabello per raggiungere la sella, calciò nelle costole il suo cavallo pubblico grigio pezzato, e partì al galoppo per coprire il tratto di cinque miglia sino all’ippodromo. Era l’ultimo giorno di luglio.

Non appena scomparve alla vista, Cleopatra si spostò alla sua tomba, Charmian e Iras con lei. Le tre donne lavorarono all’unisono, abbassarono le sbarre sul lato interno delle doppie porte finché solo il celebre ariete di Antonio lungo ottanta piedi avrebbe potuto sfondarle. Cleopatra scoprì che c’erano cibi freschi in abbondanza, oltre a canestri di fichi, olive, datteri, e panini rotondi cotti con una ricetta speciale che ne manteneva più o meno la stessa consistenza per parecchi giorni. Non che si aspettasse di restare lì dentro per parecchi giorni.

Il peggio sarebbe venuto quella notte, quando le avrebbero restituito le spoglie di Antonio; sarebbero andate dritte nella stanza del suo sarcofago, a subire in silenzio le spa ventose tecniche dei sacerdoti imbalsamatori. Ma prima lei sarebbe stata costretta a guardargli il viso senza vita… O Amun Ra con tutti i tuoi dei, fa’ che abbia un aspetto sereno, e non straziato! Fa’ che la sua vita sia cessata in fretta!

«Sono lieta» disse Charmian, rabbrividendo, «che il varco lasci filtrare molta aria.

Qui è talmente buio!» «Accendi altre lampade, sciocca» fu la risposta pratica di Iras.

Antonio e i suoi generali galoppavano verso Canopo, sorridendo soddisfatti alla prospettiva della battaglia. L’area era popolata da molti anni per tradizione, da facoltosi mercanti stranieri, anche se le loro dimore non erano mischiate alle tombe, come quelle a ovest della città, dove sorgeva la necropoli. Qui c’erano giardini, piantagioni, ville di pietra con vasche e fontane, boschetti di querce nere e palme.

Oltre l’ippodromo, sulle basse dune accanto al mare, meno appetibili per la casa di un ricco, sorgeva l’accampamento romano, due miglia per ogni lato dritto come un fuso, trincerato e cinto da un fossato e dalle mura.

Ottimo! pensò Antonio mentre si avvicinavano, vedendo i soldati già fuori in formazione. Le loro avanguardie e quelle di Ottaviano distavano mezzo miglio. Le aquile balenavano, le bandiere delle coorti sventolavano variopinte, il vexillum proponere scarlatto sostava impettito accanto al cavallo pubblico di Ottaviano mentre quest’ultimo, circondato dai suoi marescialli, restava in attesa. Oh, come adoro questo momento! Antonio lasciò vagare i pensieri mentre passava in mezzo alle sue truppe, con il solito trambusto e zoccolìo della cavalleria sui fianchi. Adoro quella sensazione strana e misteriosa nell’aria, i volti dei miei uomini, le potenzialità di una così grande forza.

Poi, in un piccolissimo istante, era tutto finito. Il suo vexillarius, che teneva alta la bandiera decorata, l’abbassò e s’incamminò verso l’esercito di Ottaviano. Lo stesso fece ogni aquilifer con la sua aquila, ogni vexillarius di ogni coorte, seguiti dai suoi soldati che chiedevano tregua a gran voce, le spade rovesciate, i fazzoletti bianchi annodati ai loro pila.

Antonio non sapeva per quanto tempo fosse rimasto in sella al suo cavallo scalpitante e imbizzarrito, ma quando ebbe le idee sufficientemente chiare da lanciare un’occhiata obliqua ai suoi marescialli, questi non c’erano più. Svaniti, dove non ne aveva idea. Con i gesti rigidi e convulsi d’una marionetta voltò la testa grigia e partì al galoppo in direzione di Alessandria, il volto rigato di lacrime che volavano via come gocce di pioggia in una burrasca.

«Cleopatra, Cleopatra» gridò nell’istante in cui entrò a palazzo, lasciando cadere l’elmo che rimbalzò con un forte rumore metallico su una rampa di scale.

«Cleopatra!» Giunse Apollodoro, poi Sosigene e infine Cha’em. Ma non Cleopatra.

«Dov’è? Dov’è mia moglie?» domandò.

«Che cos’è accaduto?» domandò Apollodoro, indietreggiando.

«Il mio esercito ha disertato, e senza dubbio ciò significa che anche la mia flotta ha fatto lo stesso» disse con tono secco. «Dov’è la regina?» «Nella sua tomba» disse Apollodoro. Ecco! Era stato detto.

Antonio si fece grigio in volto, vacillò. «Morta?» «Sì. A quanto pare, non pensava di rivederti vivo.» «E così sarebbe stato, se il mio esercito avesse dato battaglia.» Scrollò le spalle e sciolse i lacci del paludamentum, che cadde a terra disegnando una macchia rossa viva. «Ebbene, non fa differenza.» Si slacciò le cinghie della corazza; un altro rumore metallico quando essa cadde sul marmo. La spada uscì dalla guaina, la spada d’un aristocratico con il manico d’avorio a foggia d’aquila. «Aiutami a togliere la corazza» ordinò ad Apollodoro. «Forza, non, ti chiederò di trafiggermi con la spada! Aiutami soltanto a spogliarmi sino alla tunica.» Ma fu Cha’em a farsi avanti, sfilandogli il grembiule di cuoio e le cinghie del pteryges.

I tre vecchi restarono a guardare trasfigurati Antonio appoggiarsi la punta del gladius alla vita, e cercare con le dita della mano sinistra la base della cassa toracica.

Soddisfatto, strinse l’aquila d’avorio con ambedue le mani, trasse un udibile respiro a pieni polmoni e spinse con tutte le sue forze. Solo allora i tre vecchi si mossero, precipitandosi ad aiutarlo mentre si accasciava al suolo, boccheggiante e accigliato non per il dolore ma per la rabbia.

«Cacat!» disse, le labbra ritratte a mostrare i denti. «Ho mancato il cuore. Doveva essere lì…» «Che cosa possiamo fare?» domandò Sosigene, piangendo.

«Smetterla di blaterare, per prima cosa. La spada è nel fegato o nei polmoni, impiegherò qualche tempo a morire.» Grugnì. «Cacat, quanto fa male! Ben mi sta… La regina… portami da lei.» Due sacerdoti imbalsamatori salirono per primi sul canestro, circondati dal loro apparato di strumenti, quindi sostarono sulla sporgenza del varco mentre altri due sacerdoti imbalsamatori mettevano Antonio nel canestro, con il fondo imbottito di panni bianchi. I sacerdoti a terra all’esterno fecero salire il canestro con l’argano; giunto al varco lo trassero su una serie di binari finché non riuscirono a calarlo nella tomba, dove i primi due sacerdoti imbalsamatori lo stabilizzarono a terra.

Cleopatra era in attesa e si aspettava di vedere Antonio senza vita, composto alla perfezione in una morte che non recava ferite visibili.

«Cleopatra!» disse lui boccheggiando. «Dicevano che eri morta!» «Amore mio, amore mio! Sei ancora vivo!» «Non è buffo?» domandò, cercando di ridacchiare in mezzo a un gorgoglio di tosse. «Cacat! Ho del sangue nel petto.» «Stendetelo sul mio letto» disse Cleopatra ai sacerdoti, cui ronzò intorno assillandoli finché Antonio non fu sistemato come più le aggradava. La tunica scarlatta foderata non tradiva la presenza del sangue, a differenza dei panni bianchi su cui giaceva, ma nei suoi trentanove anni di vita lei aveva visto sangue in abbondanza e non ne era spaventata. Finché, da sacerdoti medici quali erano, gli uomini non scostarono la tunica per stringere la fasciatura della ferita, e arrestare l’emorragia.

Quando Cleopatra vide quel corpo magnifico lacerato da un sottile e profondo squarcio al di sotto delle costole, dovette stringere i denti per soffocare il suo grido di protesta, la prima pugnalata di dolore. Sarebbe morto… ebbene, lei se l’era aspettato.

Ma non si aspettava la realtà dei fatti. La sofferenza nei suoi occhi, lo spasmo di agonia che di colpo lo fece inarcare mentre i sacerdoti cercavano disperatamente di fasciarlo. La mano di lui le stritolava le dita, le triturava le ossa, ma lei sapeva che toccarla gli dava forza, quindi sopportò.

Una volta che Antonio fu sistemato il più comodamente possibile, lei trasse una sedia a lato del letto e si sedette a parlargli con voce delicata e melodiosa, e gli occhi di lui, ardenti di piacere, non lasciarono mai il suo volto. D’istante in istante, di ora in ora, lo aiutò a passare il Fiume, come diceva lui, sempre romano sino al midollo.

«Cammineremo davvero insieme nel Regno dei Morti?» «Molto presto, amore mio.» «Come farò a trovarti?» «Sarò io a trovare te. Tu pensa solo a sederti in un bellissimo posto ad aspettare.» «Un destino più piacevole del sonno eterno.» «Oh, sì. Staremo insieme.» «Anche Cesare è un dio. Dovrò dividerti con lui?» «No, Cesare appartiene alle divinità romane. Lì non ci sarà.» Indugiò a lungo prima di trovare il coraggio di dirle che cos’era successo all’ippodromo.

«Le mie truppe hanno disertato, Cleopatra. Dal primo all’ultimo uomo.» «Dunque non c’è stata battaglia.» «No. Mi sono trafitto con la spada.» «Un’alternativa migliore di Ottaviano.» «Così ho pensato io. Ma com’è logorante! Lenta, troppo lenta.» «Presto sarà finita, amore mio adorato. Ti ho detto che ti amo? Ti ho detto quanto?» «Sì e finalmente, dopo tanto tempo, ti credo.» Il passaggio dalla vita alla morte quando questa sopraggiunse fu così lieve che lei non se ne accorse. Poi, azzardando uno sguardo attento agli occhi di lui, notò le pupille dilatate e coperte d’una sottile patina dorata. Qualunque cosa fosse stato Marco Antonio se n’era andato; lei stringeva fra le braccia un involucro vuoto, la parte di sé che si era lasciato alle spalle. Un grido lacerò l’aria: il suo grido. Ululò come un animale, si strappò i capelli a manciate, si lacerò il corpetto sino a scoprirsi i seni e scavò con le unghie, strillando e urlando, battendosi come un’ossessa.

Quando a Charmian e Iras parve che Cleopatra potesse procurarsi delle serie ferite, mandarono a chiamare i sacerdoti imbalsamatori e le versarono con forza dello sciroppo d’oppio in gola. Solo dopo che la donna cadde in uno stato catatonico indotto dalla droga, i sacerdoti spostarono il corpo di Marco Antonio nella sala del suo sarcofago, per dare inizio alla procedura d’imbalsamazione.

Era calata l’oscurità; Marco Antonio aveva impiegato undici ore a morire, ma alla fine era il vecchio Antonio, il grande Antonio. Nella morte aveva finalmente trovato se stesso.