Capitolo 26
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Alla fine dell’estate adriatica il vento era più prevedibile rispetto alle altre stagioni; soffiava da occidente la mattina, e intorno a mezzogiorno piegava a nord ovest, intensificandosi progressivamente nel volgere sempre più verso nord.
A Ottaviano e Agrippa non erano sfuggiti i segni di una battaglia imminente, anche se nessuna spia aveva riferito loro delle vele, dell’acqua e dei viveri imbarcati su tutte le navi onerarie di Antonio e Cleopatra; se ne fossero stati al corrente, avrebbero potuto pianificare una serie di contromosse per la fuga. Invece, ipotizzarono soltanto che il nemico fosse stanco dell’immobilità e avesse deciso di puntare tutto sulla sconfitta di Agrippa sul mare.
«La strategia di Antonio è semplice» disse Agrippa a Ottaviano nella loro tenda del comando. «Deve aggirare il mio fronte di navi alla sua estremità più settentrionale e spingerlo a sud… vale a dire lontano dal tuo accampamento di terra e dalla mia base nella Baia di Comaro. A quel punto il suo esercito di terra invaderà il tuo accampamento e la mia base navale con ottime possibilità di vittoria. La mia strategia è altrettanto semplice. Devo impedire che aggiri il mio fronte sottovento. Chi vincerà la corsa per effettuare l’aggiramento vincerà anche la battaglia.» «Allora il vento è leggermente più a favore tuo che non suo» esclamò Ottaviano, in punta di piedi per l’eccitazione.
«Sì. Ma io sono anche favorito dalle dimensioni, Cesare. Quelle mostruose quinqueremi di Antonio sono troppo lente. Lui è il gigante Anteo, e a suo confronto noi siamo Ercole» ribatté Agrippa con un ghigno, «e lui pare aver dimenticato che Ercole sollevò Anteo staccandolo da sua madre, la Terra. E in una battaglia combattuta sull’acqua non ci sarà terra da cui Anteo possa attingere forza.» «Trovami una squadriglia da comandare all’estremità meridionale del tuo fronte» disse Ottaviano. «Mi rifiuto di aspettare sulla terraferma l’epilogo di questa battaglia, e farmi dare del vigliacco da tutti. Ma se mi terrò a debita distanza dall’assalto principale, non potrò compromettere le tue tattiche neanche con l’errore più innocente. Dal momento che, se vincesse Antonio, invaderà il nostro accampamento e il porto, quanti dei nostri legionari pensi di usare, Agrippa?» «Trentacinquemila. Ogni nave avrà il suo harpax per alare quei pachidermi da lontano, e quante più passerelle uncinate possibili. Noi abbiamo il vantaggio che i nostri soldati sono stati addestrati come fanti di mare… Antonio non si è mai preso la briga di farlo. Ma, Cesare, è inutile che tu ti piazzi all’estremità meridionale del nostro fronte. Meglio stare a bordo della mia liburnica come mio secondo in comando. Confido che non revocherai i miei ordini.» «Grazie per il complimento. Quando sarà?» «A giudicare da tutti i segnali, domani. Noi saremo già pronti.»
Il secondo giorno di settembre, Marco Antonio uscì dal golfo di Ambracia con sei squadroni, comandando di persona quello più a nord. La sua ala destra, che rappresentava il suo nord, era formata da tre dei sei squadroni, tutti composti da cinquantacinque imponenti quinqueremi; Poplicola era il secondo in comando.
Agrippa si appostò con le navi a una distanza dalla terraferma superiore alle aspettative di Antonio, e questo indusse il primo a remare più a lungo di quanto non desiderasse. A metà mattinata coprì la distanza e si fermò, facendo riposare i rematori. Solo a mezzogiorno, quando il vento cominciò a piegare verso nord, la battaglia poté cominciare.
Cleopatra e le sue onerarie profittarono della distanza più elevata per spostarsi nell’imboccatura del porto, mantenendosi comunque nelle retrovie e confidando che, grazie all’inattesa lontananza di Agrippa dalla terraferma, non si scoprisse che le sue navi trasportavano truppe.
Il vento cominciò a cambiare; entrambe le fazioni tornarono ai remi e vogarono disperatamente verso nord. Le galee all’estremità settentrionale di ogni fazione erano schierate su un fronte che vedeva intervalli maggiori fra le quinqueremi di Antonio che non fra le liburniche di Agrippa.
La corsa finì in pareggio. Nessuna delle due fazioni riuscì ad aggirare l’altra sottovento. E invece i due squadroni in coda ingaggiarono un combattimento.
L’Antonia e l’ammiraglia di Agrippa, la Divus Julius, furono le prime a darsi battaglia, e di lì a poco sei svelte e minute liburniche avevano rampinato l’Antonia e la stavano alando. Quando ebbe tempo di guardare, Antonio scoprì che anche dieci delle sue galee erano in cattive acque, agganciate con i grappini d’arrembaggio lanciati dalle liburniche. Alcune erano in fiamme; magra consolazione che non si potessero speronare e affondare quando invece l’avrebbe fatto il fuoco. I soldati delle sei liburniche, vascelli simili a conchiglie, cominciarono a riversarsi sul ponte dell’Antonia; Antonio decise di abbandonare la nave. Vide che Cleopatra e le sue onerarie erano uscite dalla baia ed erano dirette a sud sottovela, aiutati dal forte vento di nord ovest. Un salto sulla scialuppa e anche lui era lontano, a schivare le liburniche su un natante noto per la sua velocità.
Nessuno a bordo della Divus Iulius notò minimamente la scialuppa, che si trovava a mezzo miglio di distanza quando l’Antonia si arrese. Lucio Gellio Poplicola e gli altri due squadroni dell’ala destra di Antonio si arresero subito senza dare battaglia, mentre Marco Lurio, al comando dell’ala centrale, invertì la rotta delle sue navi e tornò a remi nella baia. All’estremità meridionale del suo fronte e comandata da Caio Sosio, l’ala sinistra di Antonio seguì l’esempio di Lurio.
Era una disfatta, la parodia di una battaglia. Delle oltre settecento navi sul mare, si erano date battaglia meno di venti.
Era tanto incredibile, a dire il vero, da convincere Agrippa e Ottaviano che quello stranissimo esito fosse un trucco, che il giorno successivo sarebbe stata impiegata qualche altra tattica. Così, per tutta la notte, la flotta di Agrippa restò alla fonda in mare aperto, perdendo ogni opportunità di catturare Cleopatra e 40.000 soldati romani.
Quando il giorno successivo non si verificò alcuna ingegnosa sortita, Agrippa tornò a remi a Comaro, e lui e Ottaviano andarono a trovare i loro prigionieri.
Da Poplicola appresero la sconcertante verità: Antonio aveva disertato il suo comando per seguire Cleopatra in fuga.
«La colpa è tutta di quella donna!» disse con voce stridula Poplicola. «Antonio non ha mai avuto intenzione di combattere! Non appena per l’Antonia è stata la fine, è salito a bordo di una scialuppa vicina ed è fuggito per raggiungere Cleopatra.» «Impossibile!» esclamò Ottaviano.
«Te lo dico io, l’ho visto con i miei occhi! E a quel punto, perché io avrei dovuto mettere a repentaglio i miei soldati e le ciurme? La resa immediata mi è parsa più onorevole. Spero che terrete in buon conto il mio buonsenso.» «Lo farò incidere sul tuo monumento funebre» disse Ottaviano con aria garbata e, rivolto ai suoi germani: «Voglio che sia immediatamente giustiziato. Occupatevene voi».
Solo a Sosio fu risparmiata quella sorte; Arrunzio mediò in suo favore, e Ottaviano gli prestò ascolto.
Come si scoprì, Canidio aveva cercato di persuadere l’esercito di terra a prendere d’assalto l’accampamento di Ottaviano, ma a parte lui nessuno voleva combattere. E le truppe non avrebbero neanche attaccato l’accampamento e marciato verso est. Lo stesso Canidio era scomparso mentre i plenipotenziari della legione negoziavano una pace con Ottaviano, che spedì a casa le reclute straniere e trovò dei fazzoletti di terra in Grecia e Macedonia per i romani.
«Perché non permetterò a nessuno di voi d’inquinare l’Italia con le vostre storie» disse Ottaviano ai rappresentanti della legione. «La mia politica è di clemenza, ma voi non tornerete mai a casa. Fate come il vostro padrone Antonio e imparate ad amare l’Oriente.» Caio Sosio fu costretto a prestare il giuramento di fedeltà, e fu avvertito di non contraddire mai la versione «ufficiale» che Ottaviano avrebbe fornito di Azio, qualunque essa risultasse essere. «Ti ho risparmiato a una sola condizione… il tuo silenzio sino alla pira funeraria. E ricorda che posso accenderla in qualsiasi momento.»
«Ho bisogno di camminare» disse Ottaviano ad Agrippa due nundinae dopo Azio, «e voglio compagnia, perciò non trovare scuse. Le operazioni di pulizia procedono a dovere, non c’è bisogno di te.» «Tu vieni prima di tutti e tutto, Cesare. Dove vuoi andare a passeggiare?» «Ovunque, basta che non sia qui. Puah! Il tanfo di feci, urina e di così tanti uomini è intollerabile. Potrei sopportarlo di più se ci fosse un pizzico di sangue, ma non c’è.
L’esangue battaglia di Azio!» «Allora prima galoppiamo, su verso nord finché non saremo abbastanza lontani da Ambracia da poter respirare.» «Idea eccellente!» Galopparono per due ore, spingendosi più lontano della pozzetta della Baia di Comaro; quando furono a ridosso della foresta, Agrippa si fermò accanto a un torrente che scintillava alla luce screziata del sole. Precipitava sul suo fondo roccioso a intervalli spumosi, e il suolo muschiato tutt’attorno effondeva un delicato odore di terra.
«Qui» disse Agrippa.
«Non possiamo camminare qui.»
«Lo so ma ci sono due belle rocce. Possiamo sederci uno di fronte all’altro, e parlare. Parlare, non camminare. Non è quello che volevi fare in realtà?» «E bravo Agrippa!» Ottaviano rise e si sedette. «Hai ragione come sempre. Qui c’è pace, solitudine, meditazione. L’unica fonte di disturbo è il torrente, ed è una melodia.» «Ho portato un otre di vino diluito, quel Falerno che tanto ti piace.» «Mio fidato Agrippa!» Ottaviano bevve, quindi passò l’otre all’amico. «Squisito!» «Alla salute, Cesare!» «Almeno in questi giorni non accuso attacchi d’asma.» Sospirò, allungando le gambe. «L’esangue battaglia di Azio… dieci navi nemiche su quattrocento a darsi battaglia, e solo due incendiate e affondate. Forse un centinaio di morti, a dire tanto.
È per questo ho tassato il popolo romano e quello d’Italia di un quarto del suo reddito, e in questo preciso momento si riscuote il tributo per il secondo anno? Sarò maledetto, forse addirittura fatto a pezzi quando, a fronte dei loro denari, potrò solo sfoggiare una battaglia che non è una battaglia. Non potrò neanche esibire Marco Antonio o Cleopatra! Mi hanno giocato, sono fuggiti su una nave. E io, come un idiota, ho creduto Antonio più corretto, ho indugiato per sconfiggerlo anziché precipitarmi a inseguirlo.» «Coraggio, Cesare, è tutto finito. Ti conosco, e questo significa che riuscirai a trasformare Azio in un trionfo.» «Sono giorni che mi scervello, e voglio verificare le mie idee con te perché tu mi risponderai sinceramente.» Raccolse una serie di sassolini e cominciò a disporli sulla sua roccia. «Non vedo altra alternativa se non quella di gonfiare Azio, sino a farla diventare qualcosa che Omero agognerebbe cantare. Le due flotte convergono come titani, si scontrano per tutto il fronte da nord a sud… ed ecco perché Poplicola, Lurio e gli altri sono morti. Solo Sosio è sopravvissuto. Facciamo credere ad Arrunzio che siano stati i suoi appelli a risparmiare Sosio… Adesso tu sai come stanno le cose.
Antonio ha combattuto eroicamente a bordo dell’Antonia e stava vincendo la sua parte di combattimento quando, con la coda dell’occhio, ha visto Cleopatra lasciare con l’inganno la battaglia… e lui. Aveva ancora tanta di quella droga in corpo che è entrato improvvisamente nel panico, ha requisito una scialuppa ed è partito al suo inseguimento come un cane in calore dietro a una cagna. Molti dei suoi ammiragli l’hanno visto inseguire Cleopatra e gridarle.» Ottaviano alzò la voce in falsetto «“Cleopatra non lasciarmi!” Ovunque c’erano morti che galleggiavano, il mare rosso sangue, aste delle navi e sartie aggrovigliate sull’acqua, ma la scialuppa che ospitava Marco Antonio continuava ad attraversare quella carneficina sulla scia di Cleopatra.
Dopodiché gli ammiragli di Antonio si sono scoraggiati. E tu, Agrippa, superlativo in battaglia, hai sgominato i tuoi avversari.» «Finora regge» disse Agrippa, bevendo un altro sorso dall’otre di vino. «E dopo che cosa succede?» «Antonio raggiunge la nave di Cleopatra e sale a bordo. Chiedo venia per essere passato al presente… mi aiuta sempre quando sto ricamando qualcosa di cui non si saprà mai la verità» disse il maestro del ricamo. «Ma all’improvviso torna in sé, vede con gli occhi della mente il disastro che ha lasciato in maniera tanto vigliacca, insegnerò io a quell’irrumator di Antonio ad accusarmi di vigliaccheria per Filippi!
Adesso tocca a lui, vede il disastro che ha lasciato in maniera tanto vigliacca. Urla d’angoscia, si trae sulla testa il paludamentum, e resta per tre giorni seduto sul ponte senza muoversi. Cleopatra gli somministra degli antidoti, implorandolo di scendere sottocoperta nella sua cabina, ma lui non si muove, tanto è devastato per la sua codardia. Migliaia di uomini morti, ed è lui il responsabile!» «Sembra uno di quei dozzinali poemi epici che acquistano le giovinette» disse Agrippa.
«Sì, vero? Ma quanto vuoi scommettere che tutta Roma e l’Italia questo non lo acquisteranno?» «Non sono così stupido. Lo acquisteranno anche su carta preziosa. Quando Mecenate ci aggiungerà qualche frase aulica sarà impeccabile.» «Dovrebbe di sicuro addolcire il risentimento verso di me per essere andato in guerra. La gente vuole che i loro denari abbiano un valore.» «Argomento delicato, Cesare. Come pensi di pagare i tuoi debiti? Adesso che Cleopatra è stata sconfitta, non avrai più giustificazioni per continuare a imporre la tua tassa. E nello stesso tempo, se lei è viva, tu non avrai pace. Si armerà per riprovarci, con Antonio al suo fianco o meno. Lei vuole come padrone del mondo il presunto figlio del divo Giulio, e non Antonio. E dunque… i denari?» «Nell’immediato, ho intenzione di spremere i re clienti di Antonio sino a farli diventare color porpora di Tiro e fargli uscire gli occhi dalle orbite. E infine, invaderò l’Egitto.» Agrippa diede un’occhiata al sole fra gli alberi e si alzò. «E ora di tornare, Cesare.
Meglio non farci sorprendere qui al buio. A sentire Attico, e lui se ne intende, i boschi sono pieni di orsi e lupi.»
Circa trecento navi da guerra di Antonio erano rimaste intatte, anche se tutte le onerarie se n’erano andate con Cleopatra. All’inizio Ottaviano pensò di incendiarle fino all’ultima; si era innamorato delle piccole e letali liburniche, ed era convinto che in futuro tutta la guerriglia navale sarebbe stata liburnica. Le imponenti quinqueremi erano sempre più obsolete. Poi decise di tenere sessanta di quei leviatani di Antonio come deterrente contro la pirateria, in aumento all’estremità occidentale del Mare Nostrum. Le inviò al Forum Julii, la colonia marittima di veterani di Cesare sul tratto di costa dove la Provincia Gallica incontrava la Liguria. Le altre furono spiaggiate e bruciate ad Ambracia, lasciando tanti di quei becchi di speronamento che in molti casi dovettero essere bruciati a loro volta. I più grandiosi furono risparmiati per la decorazione di una colonna prospiciente il tempio del divo Giulio nel Foro Romano, mentre altri furono spediti in tutta Italia a ricordare ai contribuenti che la minaccia era stata del tutto reale.
Agrippa sarebbe tornato in Italia per cominciare a placare i veterani, che negli ultimi anni, dopo un servizio corredato da una vittoria, diventavano sempre violenti.
Anche il Senato fu rispedito a casa, e partì di buon grado; non era stato un confortevole soggiorno oltremare, anche per chi aveva popolato l’antisenato di Antonio. La clemenza era all’ordine del giorno; una volta che gli ammiragli di Antonio furono giustiziati, l’indiscusso governatore di Roma annunciò che solo tre uomini ancora latitanti avrebbero subito la decapitazione: Canidio, Decimo Turullio e Cassio Parmense, questi due perché erano gli ultimi assassini del divo Giulio rimasti in vita.
Ottaviano in persona progettò di far marciare le sue legioni via terra sino all’Egitto, facendo visita ai re clienti durante l’avanzata. Ma non era destino che fosse così. Da Roma giunse la voce convulsa che Marco, il figlio di Lepido, stava complottando per usurpare la vittoria di Azio. Dopo aver spedito le sue legioni a est sotto il comando di Statilio Tauro, Ottaviano stesso sfidò le burrasche invernali dell’Adriatico per tornare in Italia. La traversata fu la peggiore sin dai tempi di quella memorabile seguita all’assassinio del divo Giulio, ma adesso che l’asma aveva cessato di piagarlo, Ottaviano la superò ragionevolmente bene.
Da Brundisium viaggiò verso Roma lungo la Via Appia, al galoppo su un cisium trainato da quattro muli, e sulla Via Latina per Teanum Sidicinum così da evitare le Paludi Pontine infestate dalle febbri malariche. Giunse a destinazione nel giro di un nundinum, solo per scoprire che era stato un viaggio sprecato. Caio Mecenate si era occupato dell’insurrezione ancor prima dell’arrivo di Agrippa. Marco Lepido e sua moglie Servilia Vatia si erano suicidati.
«Che cosa strana» disse Ottaviano a Mecenate e Agrippa. «Una volta Servilia Vazia è stata mia fidanzata.» Come di consueto, i veterani erano inquieti e parlavano di rivolta. Ottaviano andò a trattare con loro attraversando a piedi e senza paura i vasti accampamenti intorno a Capua, indossando una toga e in testa una ghirlanda d’alloro. Sorridendo e salutando, proclamando ad alta voce il valore e la lealtà di chi era a portata d’orecchio, cercò gli uomini giusti e si sedette per un difficile negoziato. Siccome i rappresentanti di una legione erano sempre i soldati più incontentabili, perché erano tanto pigri quanto avidi, parlò di denari e di terra.
«Nel giro di altri sette od otto anni, la terra non farà parte della buonuscita dei veterani congedati» disse, «e quindi ringraziate che tutti voi qui presenti oggi otterrete un fazzoletto di terra. Sto per stabilire un aerarium militare, un tesoro separato e distinto da quello che ha sede sotto il tempio di Saturno a Roma. Lo stato vi verserà una somma di denari e quella somma sarà investita al dieci per cento.
Anche i soldati verseranno i contributi. Al momento i miei attuari stanno studiando quanti denari dovrà contenere per mantenersi solvente pur versando le pensioni.
Saranno pensioni generose, accompagnate da una somma fissa stabilita dalla carriera del singolo. Ma la terra è fuori questione.» «Basta ciance sul futuro!» disse Tornazio, il capogruppo, con studiata scortesia.
«Siamo qui per la terra e una cospicua buonuscita in denari… adesso, Cesare.» «So che è così» ribatté Ottaviano con tono cordiale, «ma non sono nella posizione di accontentarvi finché non andrò in Egitto e sconfiggerò la Regina delle Bestie. Lì si trova il bottino che potrà garantirvi quanto chiedete.» Alzò una mano. «No, Tornazio, no! È inutile litigare e ancor meno usare la violenza. Al momento Roma e io non abbiamo un sesterzio da darvi. Restando nell’accampamento avrete vitto e alloggio sicuro, ma se uno di voi dovesse dare in escandescenza, sarete trattati come traditori.
Aspettate! Siate pazienti! Avrete la vostra ricompensa, ma non ancora.» «Così non basta» esclamò Tornazio.
«Dovrà bastare. Ho promulgato editti in ogni città e cittadina della Campania.
Prevedono che, in caso qualche soldato cercasse di saccheggiarle e razziarle, saranno effettuate rappresaglie avallate dal Senato e dal popolo di Roma. Non tollereranno dei soldati ribelli, Tornazio, e dubito che avrete l’ascendente necessario su tutti i miei legionari per organizzare una rivolta in vasta scala.» «Stai fingendo» mormorò Tornazio.
«No, al contrario. In questo preciso momento sto per diramare degli editti in ogni accampamento nei dintorni di Capua. Con la notizia della situazione difficile in cui mi trovo e la richiesta di essere pazienti. Nel complesso, gli uomini sono ragionevoli.
Capiranno il mio punto di vista.» Tornazio e colleghi cedettero, e se ne restarono quieti dopo aver realizzato che la parte più consistente dei soldati era pronta ad attendere i due anni che Ottaviano aveva chiesto.
«Hai preso nota dei loro nomi?» domandò ad Agrippa.
«Certo, Cesare. Scompariranno in silenzio.»
«Speravo che potessi restare a casa» disse Livia Drusilla al marito.
«No, mia adorata, non era possibile sin dall’inizio. Non posso permettere a Cleopatra di ricominciare ad armarsi. Ora che il Senato è tornato, sono al riparo da eventuali insurrezioni. Quando i capuani capiranno che, per qualche motivo, i loro plenipotenziari non torneranno nei loro ranghi, si comporteranno correttamente. E con la presenza regolare di Agrippa a Capua, nessun senatore ambizioso sarà in grado di sollevare un esercito.» «La gente si sta abituando ad averti a capo di Roma» disse sorridendo. «Sento addirittura dire che porti fortuna, che sei uscito vittorioso da ogni avversità per proteggerli… prima Sesto Pompeo, e adesso Cleopatra. Antonio viene a malapena menzionato.» «Non ho idea di dove sia, perché non si trova ad Alessandria con quella donna.» Un mistero che si svelò non molti giorni dopo, quando giunse una lettera da Caio Cornelio Gallo in Cirenaica.
«Non appena sono giunto a Cirene, Pinario si è arreso e mi ha consegnato la sua flotta e quattro legioni» scriveva Gallo. «Aveva ricevuto ordini da Antonio di marciare verso est e attraversare la Libia sino a Paretonio, ma a quanto pare non si baloccava con l’idea di emulare Catone Uticense scarpinando per centinaia di miglia lungo una costa desertica. Così si è fermato. Quando mi ha mostrato gli ordini ricevuti da Antonio, ho capito perché ha interrotto la marcia. Antonio vuole un’ultima battaglia, non è ancora finita per lui. Ho mandato a prendere delle navi onerarie, Cesare, e una volta arrivate caricherò a bordo le legioni e salperò per Alessandria, scortato dalla flotta di Pinario. Anche se sarà solo in primavera, e non prima di aver ricevuto il tuo ordine di partire. Oh, dimenticavo di dirti che anche Antonio voleva incontrare Pinario e le sue forze a Paretonio.» «Tipico del poeta» disse Agrippa con un grugnito. «Privo di logica.» «Come sta Attica?» domandò Ottaviano, cambiando argomento.
«Molto male, da quando il suo tata è caduto sulla spada. Che buffo. Si comporta più da vedova che non come sua figlia. Non mangia, beve troppo, trascura la piccola Vipsania come se la bambina non le piacesse. La sto facendo tenere d’occhio perché non voglio che si tagli le vene in bagno. Erediterò io i suoi denari. Ho cercato di persuaderla a lasciarli a Vipsania, tu non avresti alcuna difficoltà a ottenere un’esenzione dalla lex Voconia de mulierum hereditatibus, ma lei ha rifiutato. In ogni caso, se dovesse accaderle qualcosa, io darò il suo patrimonio in dote a Vipsania.» E così Ottavia ereditò l’ennesimo bambino; Attica ingerì il veleno e morì nell’agonia tre giorni dopo che Agrippa parlò di lei con Ottaviano, il quale permise a sua sorella di prendersi a carico Vipsania. Uomo di parola, Agrippa trasferì i fondi di Attica alla bambina, che la rese decisamente un ottimo partito.
Ottaviano aveva scoperto di nutrire una passione per i bambini che, seppure non potesse rivaleggiare con quella di Ottavia, era forte e protettiva. Quando Antillo cercò di fuggire e fu riportato a casa, non fu punito. E ogni volta che Ottaviano tornava a casa a pranzo, tutti i bambini partecipavano al pranzo. Siccome con l’arrivo di Vipsania erano in numero di dodici, Ottavia non aveva esagerato quando aveva detto al fratello di aver bisogno di altre due mani materne.
Per Livia Drusilla, era giunto il momento di pianificare i matrimoni dei vari bambini; mise Ottaviano alle corde e lo costrinse ad ascoltare.
«Certo, Antillo e Giulio dovranno trovare moglie altrove» disse, con quello sguardo competente e risoluto che inibiva ogni obiezione da parte di Ottaviano.
«Tiberio può sposare Vipsania. Lei ha un patrimonio immenso, e a lui piace.» «E Druso?» domandò lui.
«Tonilla. Anche loro si piacciono.» Si schiarì la gola e assunse un’aria severa.
«Marcello dovrebbe sposare Giulia.» Lui si accigliò. «Sono cugini primi, Livia Drusilla. Il divo Giulio non approvava le nozze fra cugini primi.» «Tua figlia, Cesare, è una regina senza corona. A prescindere da chi sarà suo marito, se lui non farà parte della famiglia, sarà per te una minaccia. Chi sposerà la figlia di Cesare sarà tuo erede.» «Hai ragione, come sempre.» Sospirò. «Ottimo, allora che siano Marcello e Giulia.» «Antonia è già sistemata con… Lucio Enobarbo. Non è la coppia che avrei scelto io, ma lei era per mano a suo padre quando è stato stilato il contratto di fidanzamento, e tu hai promesso di onorarlo.» «E la figlia di Azia, Marcia?» Detestava ancora pensare al tradimento della loro madre.
«Lascerò fare a te.» «Allora sposerà un emerito nessuno, preferibilmente un provinciale. Magari anche un socius. In fondo, Antonio ha maritato una figlia a un socius, Pitodoro di Tralle.
Rimane Marcella.» «Per lei pensavo ad Agrippa.» «Agrippa? Potrebbe essere suo padre!» «Lo so, sciocco! Ma lei è innamorata di lui, non te ne sei accorto? Tutta gemiti e sospiri e passa le giornate a guardare il suo busto che ha acquistato al mercato.»
«Non durerà. Agrippa non è adatto a una giovinetta.» «Gerrae! Lei è bruna, Attica era d’un castano scialbo… lei è morbida, Attica era spigolosa… lei è bellissima, Attica era… insomma, banale. E le nozze lo innalzerebbero al rango della prima famiglia di Roma, dov’è giusto che stia.
Altrimenti come ci arriverebbe?» Si rese conto di essere stato battuto. «D’accordo, mia cara. Marcella sposerà Agrippa. Ma non prima che lei abbia compiuto diciotto anni, il che le offrirà un altro anno per disinnamorarsi di lui. In tal caso, Livia Drusilla, il matrimonio non si farà, e dunque per il momento non ne parleremo. Intesi?» «Alla perfezione» mormorò lei.
A corto di denari, ma fiducioso di riceverne una certa quantità dai re clienti, Ottaviano salpò per Efeso e la raggiunse a maggio, nello stesso momento in cui arrivarono le sue legioni e la cavalleria.
Tutti i re clienti erano lì, compreso Erode, che trasudava fascino e virtù.
«Sapevo che avresti vinto, Cesare, ecco perché ho resistito a tutte le blandizie è prepotenze di Antonio» disse, sempre più grasso e più simile a un rospo.
Ottaviano lo squadrò divertito. «Oh, non si può negare che tu sia un tipo scaltro» disse. «Immagino tu pretenda delle ricompense.» «Certo, ma nessuna che non giovi anche a Roma.» «Elencamele.» «I giardini di balsamo di Gerico, i giacimenti di asfalto della Palude di Asfaltide, la Galilea, l’Idumea, entrambe le sponde del Giordano e la costa del Mare Nostrum che si estende dal fiume Eleutherus a Gaza.» «In altre parole, tutta la Coele Syria.» «Sì. Ma i tuoi tributi saranno pagati il giorno stabilito, e i miei figli e nipoti saranno inviati a Roma per essere educati come romani. Nessun re cliente è più fedele di me, Cesare.» «O più furbo. D’accordo, Erode, accetto le tue condizioni.» Ad Archelao Sisene, le sue donazioni ad Antonio, nel complesso, non si materializzarono mai, fu concesso di mantenere la Cappadocia e si vide affidare la Cilicia Tracheia, parte dell’assegnazione di Cleopatra. Aminta di Galazia mantenne la Galazia, ma la Paflagonia fu assorbita dalla provincia romana di Bitinia, mentre Pisidia e Licaonia passarono alla Provincia d’Asia. Anche a Polemone di Ponto, che era riuscito a salvaguardare i confini orientali dai Medi e dai Parti, fu concesso di mantenere il proprio regno, che si estese sino a comprendere l’Armenia Parva.
Nessuno degli altri se la cavò altrettanto bene, neanche lontanamente, e qualcuno perse la testa. La Siria sarebbe stata provincia di Roma sino al confine con la Giudea, mentre le città di Tiro e Sidone erano libere dal controllo diretto, in cambio di tributi.
Malco di Nabatea perse l’asfalto, ma nient’altro; in cambio di quello che Ottaviano riteneva un atto d’indulgenza, Malco avrebbe vigilato sulle flotte egiziane nel Sinus Arabicus occupandosi di eventuali attività insolite nella zona.
Cipro fu annessa alla Siria, la Cirenaica a Grecia, Macedonia e Creta. Il territorio di Cleopatra si era ridotto al solo Egitto.
E a giugno, Ottaviano e Statilio Tauro caricarono l’esercito a bordo delle onerarie, con destinazione Pelusio, l’ingresso dell’Egitto. Austro, il vento del sud, era in ritardo, così la navigazione fu possibile. Cornelio Gallo si sarebbe avvicinato ad Alessandria dalla Cirenaica. Tutto era in movimento per la sconfitta finale di Cleopatra, la Regina delle Bestie.