Capitolo 10

 

Il trattato di Puteoli fu stipulato con Sesto Pompeo sul finire dell’estate. Antonio non svelò mai la sua opinione in proposito, ma Ottaviano sapeva che Sesto non si sarebbe comportato come un uomo d’onore; in cuor suo era un generale piacentino che si era ridotto a fare il pirata e che non era capace di tener fede alla parola data.

Sesto accettava di garantire libero passaggio al grano destinato all’Italia, e in cambio gli sarebbe stato ufficialmente riconosciuto il titolo di governatore di Sicilia, Sardegna e Corsica; avrebbe ricevuto anche il Peloponneso, mille talenti d’argento, e gli sarebbe stato riconosciuto il diritto di essere eletto console entro i successivi quattro anni, dopodiché, l’anno successivo, gli sarebbe succeduto come console Libone. Una farsa, come capì chiunque avesse un briciolo di cervello. Come doveva ridersela Sesto Pompeo, pensò Ottaviano, reduce dalla zuffa.

In maggio Scribonia, la moglie di Ottaviano, diede alla luce una bambina, Antonia.

Una delle clausole del trattato stipulato con Sesto Pompeo prevedeva che tutti gli esuli potessero tornare in patria, compreso Tiberio Claudio Nerone. Costui, convinto che il trattato di Brundisium non gli offrisse sufficiente protezione, se ne era stato ad Atene fino a quel momento e ora aveva deciso che sarebbe potuto tornare a Roma godendo di una relativa impunità. Fu difficile, dal momento che le finanze di Nerone si erano ridotte in modo allarmante, in parte per colpa sua, perché aveva investito poco saggiamente nelle società dei publicani che investivano le entrate della Provincia d’Asia e che erano stati estromessi dopo che Quinto Labieno e i suoi mercenari parti avevano invaso la Caria, la Pisidia e la Licia, tutte regioni assai ricche; e in parte per cause che non dipendevano direttamente da lui, anche se un uomo più intelligente sarebbe rimasto in Italia a incrementare la propria ricchezza anziché fuggire e affidare i propri beni a liberti greci senza scrupoli e a banchieri inetti.

Il Tiberio Claudio Nerone che tornò in patria all’inizio dell’autunno era così prostrato finanziariamente che si rivelò una ben povera compagnia per la moglie. Le sue risorse finanziarie gli permettevano a stento di affittare una portantina e un carro scoperto per il bagaglio. Benché avesse dato a Livia Drusilla il permesso di condividere il suo mezzo di trasporto, lei rifiutò senza nemmeno spiegargli il motivo della sua decisione, e cioè che i portantini erano così esili e malmessi che sarebbero stati a malapena in grado di sollevare la portantina con Nerone e suo figlio a bordo, e che detestava stare vicino al marito e al figlio. Così, mentre il convoglio si avviò a passo d’uomo, Livia Drusilla andò a piedi. Il tempo era splendido: il sole era caldo, la brezza fresca, c’era ombra in abbondanza, l’aria era pervasa dall’incantevole profumo dell’erba ingiallita e delle erbe aromatiche che i contadini coltivavano per scongiurare il pericolo della peste durante l’inverno. Nerone preferiva viaggiare tenendo il centro della strada, mentre Livia Drusilla procedeva sul ciglio, dove le margherite formavano un tappeto sotto i suoi piedi e si potevano spiccare i frutti dai rami dei peri e dei meli selvatici. Finché non avesse perso di vista Nerone nella lettiga, il mondo era suo.

A Teanum Sidicinum lasciarono la Via Appia per imboccare la Via Latina, che si snodava nell’entroterra; quelli che continuavano sulla Via Appia fino a Roma attraverso le Paludi Pontine rischiavano la vita, perché la regione era flagellata dalle febbri malariche.

Appena fuori Fregellae si fermarono in un modesto albergo in grado di offrire loro la possibilità di fare un vero bagno, cosa che Nerone ordinò immediatamente.

«Non vuotate la vasca dopo che l’avremo usata io e mio figlio» disse. «La userà mia moglie.» Quando furono nella loro camera, la guardò accigliato; con il cuore che le batteva improvvisamente più forte, Livia si chiese se la sua espressione avesse lasciato trapelare qualcosa, ma rimase ferma davanti a lui, schiva e deferente, pronta a ricevere quello che per lunga esperienza sapeva sarebbe stata una predica.

«Ci avviciniamo a Roma, Livia Drusilla, e devo chiederti di fare tutto il possibile per non spendere troppo» la istruì. «Il piccolo Tiberio avrà bisogno di un pedagogo, il prossimo anno, un esborso davvero sgradito, ma è compito tuo fare economia nel frattempo, così da rendere meno gravosa la spesa. Niente abiti nuovi, niente gioielli e assolutamente niente domestici speciali come parrucchieri o estetisti. Mi sono spiegato?» «Sì, marito mio» rispose rispettosa Livia Drusilla, sospirando in cuor suo. E non perché desiderasse un parrucchiere o altre cose del genere, ma perché anelava disperatamente ad avere un po’ di pace, una vita sicura e al riparo dalle critiche.

Voleva un rifugio in cui poter leggere quello che voleva, decidere cosa mangiare senza badare al costo, dove non sarebbe stata ritenuta responsabile di squallide appropriazioni indebite. Le sarebbe piaciuto essere adorata, e che i volti della gente si illuminassero nel sentire il suo nome. Come Ottavia, la celebrata moglie di Marco Antonio: statue che la raffiguravano si trovavano nelle piazze del mercato di Beneventum, Capua, Teanum Sidicinum. Che cosa aveva fatto, dopo tutto, tranne che sposare un triumviro? Eppure il popolo la osannava come fosse una dea, e pregava di poterla un giorno vedere mentre viaggiava da Roma a Brundisium. La gente andava in delirio per lei, e le attribuiva il merito della pace. Oh, se anche lei avesse potuto essere un’Ottavia! Ma chi si curava della moglie di un nobile patrizio se il suo nome era Tiberio Claudio Nerone?

Lui la stava fissando, sconcertato; sobbalzando, Livia Drusilla tornò alla realtà e si passò la lingua sulle labbra.

«C’è qualcosa che vorresti dirmi?» le domandò con freddezza lui.

«Sì, marito.» «Allora parla, donna!» «Aspetto un altro bambino. Un altro maschio, credo. I sintomi sono identici a quelli che avevo quando ero incinta di Tiberio.» La prima reazione fu di stupore, seguita a ruota dal disappunto. Gli angoli della sua bocca si incurvarono verso il basso, digrignò i denti. «Oh, Livia Drusilla! Non ci mancava che questa. Non posso permettermi un altro bambino, soprattutto non un altro maschio. È meglio che quando arriveremo a Roma tu vada dalla Bona dea e le chieda una medicina.» «Temo che potrebbe essere un po’ troppo tardi per questo, domine.» «Cacat!» imprecò selvaggiamente lui. «Da quanto tempo sei incinta?» «Quasi due mesi, credo. E quella medicina deve essere presa entro le sei nundinae, e io sono già nella settima.» «La prenderai comunque.» «Certo.» «Che scocciatura!» esclamò lui, prendendo a pugni l’aria. «Vattene, donna!

Vattene via e lasciami fare il bagno in santa pace.» «Vuoi ugualmente che Tiberio venga a farti compagnia?» «Tiberio è la mia gioia e la mia consolazione, certo che voglio!» «Allora io posso andare a fare una passeggiata per visitare l’antica città?» «Per quel che mi riguarda, moglie, puoi anche buttarti da una scogliera.»

Fregellae era stata una città fantasma per ottantacinque anni, dopo essere stata saccheggiata da Lucio Opimio per essersi ribellata a Roma al tempo in cui la penisola era un mosaico di popolazioni italiche inframmezzate da «colonie» di cittadini romani. L’ingiustizia di una tale disparità di trattamento aveva condotto infine le popolazioni italiche a unirsi per tentare di liberarsi dal giogo dei romani. Alla base del sanguinoso conflitto che seguì c’erano molteplici cause, ma la guerra cominciò con l’assassinio del nonno adottivo di Livia Drusilla, il tribuno della plebe Marco Livio Druso.

Forse proprio perché lo sapeva, con il cuore gonfio di tristezza e gli occhi pieni di lacrime, la nipote di Druso vagò tra mura crollate e vecchi edifici ancora in piedi. Oh, come osava Nerone trattarla in quel modo? Come poteva dare a lei la colpa della gravidanza, lui che se ne avesse avuto la possibilità non sarebbe mai andato a dormire nel suo letto? L’odio che nutriva nei suoi confronti si era centuplicato fin dai tempi di Atene; la moglie devota non era meno devota, ma detestava ogni singolo istante di quella devozione.

Sapeva tutto di suo nonno; quel che non sapeva era che cinquant’anni prima Lucio Cornelio Silla aveva passeggiato lungo quella stessa strada, chiedendosi a che cosa fosse servita quella carneficina, guardando i rossi papaveri concimati da sangue italico e romano, e le lucide calotte dei crani dalle cui orbite vuote occhieggiavano civettuole margherite gialle, ponendosi le domande a cui nessun uomo è mai stato capace di rispondere. Perché combattiamo guerre contro i nostri stessi fratelli? E come lui, mentre camminava, Livia Drusilla vide un romano avanzare verso di lei attraverso il velo delle lacrime, e si chiese se era vero o surreale. In un primo momento si guardò furtivamente intorno cercando un posto in cui nascondersi, ma poi, mentre lui si avvicinava, si sedette sullo stesso moncone di colonna che aveva usato come sedile Caio Mario, e attese che l’uomo la raggiungesse.

Indossava una toga con il bordo viola, e aveva una corona di folti capelli biondi; avanzava con passo aggraziato e sicuro, il corpo giovane e scattante sotto le vesti abbondanti. Poi, quando giunse a pochi passi da lei, mise a fuoco i suoi lineamenti. Il viso era liscio, bellissimo, severo e tuttavia gentile, e le iridi degli occhi erano d’argento cerchiato d’oro. Livia Drusilla lo fissò a bocca aperta.

Anche Ottaviano aveva sentito il bisogno di fuggire; a volte la gente lo stancava, anche se le loro intenzioni erano buone e la loro lealtà non era in discussione. E l’antica Fregellae si trovava vicino a Fabrateria Nova, la città che era stata costruita al suo posto. Assaporando la carezza del sole, alzò il viso verso il cielo senza nuvole e lasciò che la mente vagasse senza direzione, cosa che non faceva molto spesso.

Quelle rovine esercitavano su di lui uno strano fascino, forse per via della quiete; il ronzio delle api che aveva sostituito l’umano chiacchiericcio del mercato, il leggiadro cinguettio degli uccelli anziché gli strilli degli imbonitori. Pace! Meravigliosa e tanto agognata pace!

Forse fu perché aveva permesso alla sua mente quell’assaggio di libertà che si sentì pervadere da una sensazione di solitudine; per una volta nella sua indaffarata vita, si rese conto che non c’era nessuno che fosse lì solo per lui… sì, c’era Agrippa, ma non era quello il punto. Intendeva qualcuno che fosse solo per lui come una madre o una moglie, quel delizioso amalgama di femminilità e devozione che Ottavia dava ad Antonio o che sua madre, maledetta lei, aveva dato a Filippo il Giovane. Ma no, non avrebbe pensato ad Azia e al suo scostumato comportamento! Meglio pensare alla sorella, la più dolce donna romana che fosse mai vissuta. Perché una simile consolazione doveva essere data a un bifolco come Antonio? Perché non aveva anche lui la sua Ottavia, per quanto diversa potesse essere da sua sorella?

Si rese conto improvvisamente che un’altra persona stava passeggiando fra le desolate rovine di pietra di Fregellae, una donna che dopo averlo visto gli parve sul punto di fuggire; poi invece si sedette sul moncone di una colonna, le lacrime che le scintillavano sulle guance alla luce accecante. In un primo momento pensò fosse una visione, ma poi, fermandosi, si rese conto che era reale. Un visetto incantevole si volse verso di lui, poi tornò a fissare per terra. Due mani bellissime fluttuarono nell’aria per poi posarsi in grembo; non indossava gioielli, ma a parte questo non c’era nulla in lei che indicasse delle umili origini. Quella era una gran signora, se lo sentiva nelle ossa. Un qualche istinto dentro di lui si liberò dalla gabbia in cui era rinchiuso e gridò in tono così estatico che all’improvviso lui comprese il suo messaggio divino: quella donna gli era stata mandata dagli dèi, un dono che lui non poteva e non voleva respingere. Stava per innalzare a piena voce un ringraziamento al padre divino, poi scosse il capo. Parla con lei, spezza l’incantesimo.

«Ti disturbo?» domandò rivolgendole un sorriso radioso.

«No, no!» annaspò lei, asciugandosi l’ultima lacrima dal viso. «No.» Lui sedette ai suoi piedi, guardandola da sotto in su con un’espressione incuriosita, gli straordinari occhi improvvisamente colmi di tenerezza. «Per un istante ho creduto fossi la dea del mercato» le disse, «e ora scorgo un dolore che potrebbe essere dolore per il destino di Fregellae. Ma tu non sei una divinità… non ancora. Un giorno ti trasformerò in una dea.» Per tutti i numi! Livia Drusilla non capiva, anzi, lo credeva un po’ matto. Eppure in un istante, nell’infinitesimo spazio di tempo che un lampo impiega per colpire la terra, si innamorò di lui. «Avevo un po’ di tempo libero» gli disse, «e desideravo visitare le rovine. C’è così tanta pace qui… e io la desidero così tanto!» concluse con passione.

«Oh, sì, quando gli uomini non hanno più nulla a che fare con un luogo, esso è privato di tutto l’orrore. Emana la pace della morte. Ma tu sei ancora troppo giovane per prepararti a morire. Il mio pro prozio, Caio Mario, una volta incontrò un altro dei miei pro prozii, Silla, proprio qui in questo luogo desolato. La loro era una specie di tregua. Vedi, entrambi erano indaffarati a radere al suolo altri posti come Fregellae.» «E hai fatto lo stesso anche tu?» domandò lei.

«Non di proposito. Preferisco costruire piuttosto che distruggere. Anche se non ricostruirò mai Fregellae. È il mio monumento a te.» Altre follie! «Ti prendi gioco di me, e io non me lo merito.» «Come potrei prendermi gioco di te, dopo averti vista in lacrime? E perché piangevi?» «Autocommiserazione» spiegò onestamente lei.

«La risposta di una buona moglie. Perché sei una buona moglie, vero?» Livia Drusilla fissò la semplice vera d’oro che portava al dito. «Ci provo, ma a volte è dura.» «Non lo sarebbe, se fossi io tuo marito. Chi è lui?» «Tiberio Claudio Nerone.» Ottaviano emise un lieve fischio. «Ah, quello. E tu come ti chiami?» «Livia Drusilla.» «Di un’antica e onorata famiglia. E un’ereditiera.» «Non più. La mia dote si è dissipata.» «Vuoi dire che l’ha sperperata Nerone.» «Dopo la fuga, sì. Anche io in realtà appartengo alla gens Claudia.» «Allora tu e tuo marito siete cugini di primo grado. Avete figli?» «Uno di quattro anni.» Chinò lo sguardo. «E uno in grembo. Dovrò assumere la medicina» aggiunse. Ecastor! Perché mai stava raccontando quelle cose a un perfetto estraneo?

«E tu vuoi assumere quella medicina?» «Sì e no.» «Perché sì?» «Non mi piacciono né mio marito né il mio primogenito.» «E perché no?» «Perché ho la sensazione che non avrò altri figli. La dea Bona mi ha parlato quando ho offerto sacrifici al tempio, a Capua.» «Arrivo anche io da Capua, ma non ti ho vista laggiù.» «Nemmeno io ti ho visto.» Rimasero in silenzio, un silenzio dolce e sereno di cui facevano intrinsecamente parte il canto dell’allodola e il ronzio degli insetti nell’erba, come se persino il silenzio fosse stratificato.

Sono preda di un incantesimo, pensò Livia Drusilla. «Potrei rimanere seduta qui per sempre» sussurrò con voce roca.

«Anch’io, ma solo se tu fossi con me.»

Temendo che se lui avesse fatto il gesto di toccarla, lei non avrebbe avuto la forza di respingerlo, Livia Drusilla infranse deliberatamente l’incanto dicendo brusca: «Indossi la toga praetexta, ma sei troppo giovane. Significa che sei uno dei lacchè di Ottaviano?» «Io non sono un lacchè, io sono Cesare.» Livia Drusilla balzò in piedi. «Ottaviano? Tu sei Ottaviano?» «Mi rifiuto di rispondere a quel nome» replicò lui, ma senza astio. «Io sono Cesare, Divi Filius. Un giorno sarò Cesare Romolo per decreto del Senato ratificato dal popolo. Quando avrò annientato i miei nemici e non avrò rivali.» «Mio marito è tuo nemico giurato.» «Nerone?» Ottaviano rise, sinceramente divertito. «Nerone non è nessuno.» «È mio marito, l’arbitro del mio destino.» «Vuoi dire che sei di sua proprietà, insomma. Io lo conosco! Troppi uomini considerano le loro mogli quanto le bestie e gli schiavi. È un vero peccato, Livia Drusilla. Credo che una moglie dovrebbe essere la più preziosa collaboratrice di un uomo, non un pezzo d’arredamento.» «È così che consideri tua moglie?» domandò lei, alzandosi. «Una collaboratrice?» «Non quella che ho al momento, no. Non è abbastanza intelligente, povera donna.» Aveva la toga un po’ storta, così se la raddrizzò, sistemandone le pieghe. «Devo andare, Livia Drusilla.» «Anche io, Cesare.» Si incamminarono insieme verso la locanda.

«Sono diretto nella Gallia Transalpina» disse Ottaviano quando giunsero a una biforcazione del viottolo. «Avrei dovuto rimanerci a lungo, ma dopo averti conosciuta, non posso farlo. Tornerò prima che l’inverno finisca.» Sorrise, i denti candidi spiccavano nel viso abbronzato. «E quando tornerò, Livia Drusilla, ti sposerò.» «Sono già sposata, e fedele ai voti che ho pronunciato.» Si raddrizzò, commovente nella sua dignità. «Non sono Servilia, Cesare. Non verrò meno al mio giuramento, neanche per te.» «E proprio per questo che ti sposerò!» Ottaviano imboccò il viottolo alla sua sinistra senza voltarsi indietro, e tuttavia la sua voce risuonò con chiarezza. «Sì, e Nerone non divorzierebbe mai per permetterti di sposare uno come me, vero? Che situazione incresciosa! Come si può risolvere?»

Livia Drusilla lo seguì con lo sguardo finché non scomparve. Soltanto allora riacquistò l’uso delle gambe e cominciò a camminare. Cesare Ottaviano! Si trattava di un mucchio di stupidaggini, naturalmente; per quel che ne sapeva lei, diceva cose del genere a qualunque fanciulla che incontrasse. Il potere dava agli uomini un concetto esagerato della propria desiderabilità, bastava guardare come Marco Antonio avesse tentato di sedurla. L’unico problema con questo tipo di ragionamento era che lei aveva provato disgusto per Antonio, ma si era innamorata del suo rivale.

Un’occhiata, e si era sentita perduta.

Quando aveva offerto uova e latte al serpente sacro che dimorava nel tempio della Bona Dea, a Capua, questi era sbucato dalla sua fessura, scivolando fuori in un luccichio di squame trasformate dal sole in oro splendente, aveva annusato il latte, inghiottito entrambe le uova e poi sollevato la sua testa a cuneo per fissarla con occhi freddi, immobili. Lei aveva ricambiato quello sguardo senza timore, ascoltandolo parlare dentro di sé in una lingua sconosciuta, e aveva allungato la mano per accarezzarlo. Lui aveva posato il mento sopra le sue dita, facendo guizzare la lingua, e aveva detto… che cosa le aveva detto? Come attraverso una fitta nebbia grigia, si sforzò di ricordare, immaginò che il serpente avesse un messaggio per lei da parte della Bona Dea: che se fosse stata pronta a fare il sacrificio, la Bona Dea le avrebbe offerto in dono il mondo. Era stato il giorno in cui aveva avuto la certezza della nuova gravidanza. Nessuno vedeva mai il serpente sacro, che attendeva la notte per uscire a bere il suo latte e mangiare le sue uova. Ma a lei si era manifestato alla luce brillante del sole, un lungo rettile dorato spesso quanto il suo braccio. Bona Dea, Bona Dea, fammi dono del mondo e io ripristinerò il tuo culto, così com’era prima dell’intrusione degli uomini!

Nerone stava leggendo un fascio di rotoli di pergamena. Quando lei entrò, alzò lo sguardo, terribilmente accigliato. «Una passeggiata troppo lunga, Livia Drusilla, anche per una che gira tutto il giorno per strada.» «Mi sono fermata a conversare con un uomo alle rovine di Fregellae.» Nerone si irrigidì. «Le mogli non dovrebbero fare conversazione con gli estranei.» «Non si trattava di un estraneo. Era Caesar Divi Filius.» Questo provocò una diatriba che Livia Drusilla aveva udito già mille volte, per cui si reputò libera di congedarsi dal marito con la futile scusa che doveva usare l’acqua del bagno prima che si raffreddasse del tutto. Cosa che fece, sebbene le ci volle del coraggio dopo aver osservato lo strato di pelle morta e oleosi liquidi corporei che galleggiava in superficie, e odorato il tanfo di sudore. Conoscendo Nerone, probabilmente ci aveva urinato dentro; di certo, il piccolo Tiberio lo aveva fatto. Con un cencio, schiumò quanto più detriti le fu possibile, prima di immergersi nell’acqua appena tiepida. Pensando tra sé che sarebbe stata ben lieta di abbandonare la virtù propria di una buona moglie per qualunque uomo le avesse offerto un bagno caldo, pulito e profumato in una bella vasca di marmo. E dopo essere riuscita a scacciare dalla mente il pensiero di urina e sporcizia, sognò che quell’uomo fosse Cesare Ottaviano, e che avesse parlato sul serio.

Aveva parlato sul serio, anche se, tornando verso la casa del duumvir a Fabrateria, non smise un attimo di rimproverarsi per il più goffo approccio amoroso mai tentato.

Lo vedi cosa accade a sfidare gli dèi? si chiese, con un sorrisetto ironico. Io disprezzavo la sentimentalità sdolcinata, giudicavo deboli gli uomini che affermavano come un solo sguardo li avesse trafitti con il dardo di Cupido. Eppure eccomi qui, con una freccia piantata nel petto, innamorato perso di una ragazza che nemmeno conosco. Com’è possibile? Come ho potuto io, tanto razionale e distaccato, soccombere a un sentimento che è in conflitto con tutto ciò in cui credo? È stato il castigo di qualche dio, dev’essere per forza così! Altrimenti non avrebbe senso! Io sono razionale e distaccato! Dunque, perché avverto questo incredibile impeto di… di amore? Oh, lei mi ha turbato in modo insopportabile! Avrei voluto caricarmi sulle spalle tutte le sue pene, soffocarla di baci, restare insieme a lei per il resto della mia vita! Livia Drusilla. La consorte di un borioso individuo come Tiberio Claudio Nerone. Uscito fuori dalla stessa pattumiera, un altro claudiano. Il ramo dei Claudii che porta il cognomen Pulcro produce consoli e censori originali, indipendenti, eterodossi, mentre il ramo cognominato Nerone è celebre per generare nullità. E

Nerone è una nullità, un uomo arrogante, cocciuto e meschino che non acconsentirà mai a divorziare dalla moglie su ordine di Cesare Ottaviano.

Il viso di lei gli danzava davanti, lo faceva impazzire. Quegli occhi striati, i capelli neri, la pelle simile a latte cremoso, le labbra di un rosso intenso… Si trattava di un mero impulso sessuale, allora? Soffriva per caso dello stesso disturbo che metteva perennemente nei guai Marco Antonio? No, a questo non voleva credere. Qualunque cosa fosse quel sentimento sconosciuto, doveva esserci per esso una spiegazione migliore di un semplice prurito del pene. Forse, si disse Ottaviano mentre un calesse lo riportava a Roma, ciascuno di noi ha una compagna naturale, e io ho trovato la mia. Come le tortore. La moglie di un altro uomo, e incinta di suo figlio. Ma questo non fa alcuna differenza. Lei appartiene a me, a me!

Tenendosi stretto il suo segreto, scoprì ben presto che non c’era nessuno cui potesse confidarlo, se anche avesse voluto. Con le flotte cariche di grano ormeggiate al sicuro a Puteoli e Ostia, e il prezzo del frumento in ribasso, almeno per quell’anno, Antonio aveva deciso di trasferirsi di nuovo ad Atene, portando con sé Ottavia e la sua prole. Ottavia era forse l’unica persona su cui potesse fare assegnamento per risolvere quel dilemma sentimentale. Ma lei era chiaramente felice con Antonio, e immersa nei preparativi per il viaggio. C’era il rischio che si lasciasse sfuggire la cosa con il marito, il quale avrebbe esultato e cominciato a punzecchiarlo in maniera intollerabile. Ah ah, Ottaviano, anche tu ti fai guidare dall’uccello! A Ottaviano sembrava già di sentirlo. Perciò allontanò da sé il pensiero dell’andamento domestico antoniano e del proprio segreto non divulgato, e si domandò se Agrippa si sarebbe dimostrato capace di pronunciare sagge parole sull’argomento una volta raggiunta Narbo, non lontano dal confine ispanico e a un mese di viaggio da Roma.

Il suo stato d’animo lo tormentava, poiché la passione mal si addiceva a un individuo le cui abitudini cerebrali erano caratterizzate da una fredda logica e le cui emozioni venivano risolutamente soppresse. Confuso, irritabile, bramoso, Ottaviano perse l’appetito, e fu quasi sul punto di perdere anche la ragione. Calava di peso a vista d’occhio, come se l’aria calda di qualche fornace lo facesse evaporare, e non riusciva nemmeno più a pensare in greco. Pensare in greco era una sua manìa, qualcosa che faceva con ferrea determinazione proprio perché era tanto difficile. E tuttavia eccolo lì, con una cinquantina di comunicazioni da dettare in greco, costretto invece a dettarle in latino con brevi istruzioni ai suoi scrivani affinché le traducessero.

Mecenate non si trovava a Roma, il che era forse un bene, perciò toccava a Scribonia, alla vigilia della partenza di Ottaviano per la Gallia Transalpina, farsi animo per dire qualcosa.

Era stata felice durante tutto il periodo della sua tranquilla gravidanza, e aveva avuto un parto facile e veloce. La piccola Giulia era innegabilmente bella, dalle ciocche di capelli biondi ai grandi occhi azzurri, troppo chiari per diventare castani con il passare dei mesi. Non ricordando Cornelia come una gioia, Scribonia prestava le sue cure materne alla bimba, più che mai innamorata del suo riservato, meticoloso marito. Che lui non la amasse non era un dolore enorme, poiché la trattava gentilmente, con immancabile cortesia e rispetto, e le aveva promesso che, non appena si fosse ripresa completamente dal parto, sarebbe tornato a visitare il suo letto.

Fa’ che la prossima volta sia un maschio! pregava lei, facendo offerte a Juno Sospita, alla Magna Mater e a Spes.

Ma a Ottaviano era accaduto qualcosa tornando a Roma da una visita ai campi di addestramento delle legioni sparsi intorno alla città militare di Capua. Scribonia aveva occhi e orecchie per accorgersene, ma anche numerosi servitori, tra cui Caio Giulio Burgundino, domestico di Ottaviano e nipote di Burgundo, l’adorato liberto del divo Giulio. Sebbene non si allontanasse mai da Roma, in quanto sovrintendente della domus Hortensia, erano talmente tanti i suoi fratelli, sorelle, cugini, zie e zii nella clientela di Ottaviano, che qualcuno di loro era sempre al servizio del padrone durante i suoi viaggi. Così Burgundino riferì la notizia che Ottaviano aveva fatto una passeggiata a Fregelleae e ne era tornato di un umore mai visto prima. La punizione di un dio, era l’ipotesi avanzata da Burgundino, ma era soltanto una tra le tante.

Scribonia paventava una malattia mentale, poiché il calmo e controllato Ottaviano adesso era suscettibile, collerico e pronto a criticare cose che di solito ignorava. Se lo avesse conosciuto bene quanto Agrippa, avrebbe visto tutto ciò come una prova che detestava se stesso, e a ragione. A ogni modo, lei tentò di rammentargli che aveva bisogno della sua forza, quindi doveva mangiare.

«Hai bisogno della tua forza, caro, perciò devi mangiare» disse davanti al pasto particolarmente squisito che aveva scelto. «Domani partirai per Narbo, e non ti serviranno nessuna delle tue pietanze preferite. Per favore, Cesare, mangia!» «Tace!» scattò lui, scivolando via dal divano. «Cerca di essere più educata, Scribonia! Stai diventando una bisbetica.» Si bloccò, un piede sollevato da terra mentre un servo lottava per allacciargli il calzare. «Mmm! Una bella parola, questa!

Una vera bisbetica, un’orrenda bisbetica, una nuova bisbetica!» Da quel momento, finché non udì i rumori della sua partenza il mattino successivo, Scribonia non posò più gli occhi su di lui. Si mise a correre, le lacrime che le scorrevano sul viso, e arrivò appena in tempo per scorgere il suo capo dorato che scompariva nel calesse, il cappuccio alzato per ripararsi dalla pioggia battente. Cesare stava lasciando Roma, e Roma piangeva.

«Se n’è andato senza neppure salutarmi!» strillò a Burgundino, che era al suo fianco, la testa china.

Le porse un rotolo di pergamena, distogliendo lo sguardo da lei. «Domina, Cesare mi ha ordinato di consegnarvi questo.»

«Con la presente, io divorzio da te.

Le mie motivazioni sono le seguenti: indole bisbetica, età avanzata, cattive maniere, incompatibilità, e prodigalità eccessiva.

Ho dato disposizioni al mio domestico affinché trasferisca te e la nostra bambina nella mia vecchia casa alle Teste di Bue, nei pressi delle Curiae Veteres, dove risiederai e alleverai mia figlia come si conviene al suo alto rango. Dovrà ricevere la migliore delle istruzioni, non limitarsi a filare e tessere. I miei banchieri ti pagheranno un’indennità adeguata, e avrai il pieno godimento della tua dote. Tieni bene a mente che posso annullare in qualunque momento questo generoso accordo, e lo farò se mi giungerà voce che la tua condotta è immorale.

In tal caso, ti rimanderò da tuo padre e prenderò io stesso la custodia di Giulia, e non avrai il permesso di vederla.»

Era sigillato con la sfinge. Le scivolò dalle dita, di colpo intorpidite, e si lasciò cadere su una panca di marmo con la testa tra le ginocchia, lottando contro la debolezza.

«È finita» mormorò a Burgundino, in piedi accanto a lei.

«Sì, domina» disse lui con dolcezza; le era sempre stata simpatica.

«Ma io non ho fatto niente! Non sono una bisbetica! Non sono nessuna di quelle cose tremende che ha elencato! Età avanzata! Non ho ancora trentacinque anni!» «Gli ordini di Cesare sono che tu venga trasferita oggi stesso, domina.» «Ma non ho fatto niente! Non mi merito questo!» Povera signora, l’avete fatto irritare, pensò Burgundino, obbligato al silenzio dai suoi vincoli clientelari. Racconterà al mondo intero che siete una bisbetica per salvarsi la faccia. Povera signora! E povera piccola Giulia.

Marco Vipsanio Agrippa si trovava a Narbo perché gli Aquitani stavano creando dei problemi, costringendolo a insegnare loro che Roma sfornava ancora truppe eccellenti e generali di straordinaria competenza.

«Ho messo a sacco Burdigala, ma non l’ho bruciata» disse a Ottaviano quando il nobile personaggio arrivò, dopo un faticoso viaggio che lo aveva visto soccombere all’asma per la prima volta in due anni. «Niente oro o argento, ma una montagna di buone, robuste ruote di carro cerchiate in ferro, quattromila botti di ottima fattura, e quindicimila uomini sani da vendere come schiavi a Massilia. I venditori si sfregano le mani dalla contentezza, è da un po’ di tempo che sul mercato non si vede merce di prima qualità. Non pensavo fosse opportuno rendere schiavi anche donne e bambini, ma posso sempre farlo, se lo desideri.» «No, se tu lo desideri. I profitti che derivano dagli schiavi spettano a te, Agrippa.» «Non durante questa campagna, Cesare. I maschi frutteranno duemila talenti, per i quali ho in mente un impiego migliore che riporli nella mia borsa. Le mie necessità sono semplici, e tu mi terrai sempre d’occhio.» Ottaviano si raddrizzò sulla sedia, gli occhi che brillavano. «Un piano! Tu hai un piano! Illuminami!» Per tutta risposta, Agrippa si alzò per prendere una mappa e la spiegò sul suo sobrio scrittoio. Ottaviano si chinò sulla carta e vide che raffigurava in dettaglio l’area intorno a Puteoli, il principale porto della Campania, un centinaio di miglia a sud est di Roma.

«Verrà il giorno in cui avrai navi da guerra a sufficienza per sbarazzarti di Sesto Pompeo» disse Agrippa, premurandosi di usare un tono di voce neutrale.

«Quattrocento navi, secondo i miei calcoli. Ma dove c’è un porto abbastanza grande da accoglierne almeno la metà? Brundisium. Tarentum. Tuttavia, entrambi questi porti sono separati dalla costa dell’Etruria dallo Stretto di Messana, dove Sesto sta in perenne attesa. Perciò non possiamo ancorare le nostre flotte né a Brundisium né a Tarentum. Quanto ai porti del Mare Etrusco, Puteoli è troppo congestionata dal traffico commerciale, Ostia è piena di zone paludose, Surrentum è sovraffollata di barche da pesca, e Cosa è necessaria per rivestire d’acciaio i lingotti di ferro provenienti da Ilva. Inoltre, sono vulnerabili agli attacchi di Sesto, se anche potessero ospitare quattrocento grandi navi.» «Ne sono consapevole» disse Ottaviano stancamente; l’asma lo aveva indebolito.

Picchiò un pugno sulla cartina. «È inutile! Inutile!» «C’è un’alternativa, Cesare. Ci penso da quando ho iniziato a visitare i cantieri navali.» La mano grossa e ben proporzionata di Agrippa volteggiò sulla mappa, l’indice puntato su due piccoli laghi nei pressi di Puteoli. «Ecco la nostra risposta, Cesare. Il lago Lucrino e il lago Averno. Il primo è poco profondo e le sue acque sono riscaldate dai Campi Flegrei. Il secondo è senza fondo, e l’acqua è così fredda da portarti dritto all’Oltretomba.» «Be’, è molto tenebroso e lugubre, comunque» osservò Ottaviano, che era più o meno uno scettico religioso. «Nessun agricoltore sarà disposto ad abbattere la foresta circostante per paura di provocare la collera dei lemures.» «La foresta deve sparire» tagliò corto Agrippa. «Ho intenzione di collegare il lago Lucrino all’Averno scavando diversi grandi canali. Poi demolirò la diga che impedisce al mare di riversarsi nel Lucrino, causando un’inondazione. L’acqua di mare passerà nei canali e poco per volta renderà salato il lago Averno.» Nel volto di Ottaviano si leggevano sgomento e incredulità. «Ma… ma la diga è stata costruita sulla lingua di terra che separa il lago Lucrino dal mare, per assicurarsi che le acque lacustri siano esattamente della giusta temperatura e salinità per allevare le ostriche» fece presente, il pensiero rivolto al fiscus. «Lasciar entrare il mare significherebbe distruggere completamente i banchi di ostriche… Agrippa, ti ritroverai con centinaia di allevatori di ostriche che reclameranno a gran voce la tua cittadinanza, il tuo sangue e la tua testa!» «Riavranno le loro ostriche quando sconfiggeremo Sesto una volta per tutte» replicò seccamente Agrippa, per nulla preoccupato di mandare in rovina un’attività che esisteva da generazioni. «Quello che distruggerò, potranno ricostruirlo in seguito.

Se le cose andranno secondo le mie previsioni, avremo un’enorme distesa di acque calme e riparate dove ormeggiare le nostre flotte. Non solo, potremo anche addestrare gli equipaggi e i fanti all’arte delle battaglie in mare senza doverci preoccupare di un’incursione da parte di Sesto. L’ingresso sarà troppo stretto per permettere il passaggio di più di due navi alla volta. E per essere certi che non si apposti al largo in attesa che noi usciamo con due navi alla volta, realizzerò due grosse gallerie tra l’Averno e la spiaggia di Cumae. Le nostre imbarcazioni potranno impunemente percorrere queste gallerie e sbucare fuori per attaccare Sesto sul fianco.» L’improvvisa presa di coscienza fu per Ottaviano scioccante quanto un tuffo nell’acqua gelida. «Sei pari a Cesare» disse lentamente, talmente sbalordito da dimenticarsi di chiamare il padre adottivo divo Giulio. «Questo è un progetto cesariano, un capolavoro di ingegneria.»

«Io pari al divo Giulio?» Agrippa appariva sorpreso. «No, Cesare, l’idea è frutto del buon senso, e la sua attuazione sarà il risultato del duro lavoro, non di talento ingegneristico. Passando da un cantiere navale all’altro, ho avuto molto tempo per riflettere. E ho trascurato il fatto che le galee non possono muoversi da sole. Di certo avremo alcune flotte già stabilite e pienamente equipaggiate, ma forse per due terzi si tratterà di vascelli nuovi senza equipaggio. Le galee che ho commissionato sono per gran parte delle “cinque”, sebbene abbia preso delle “tre” dai cantieri non attrezzati per costruire qualcosa lungo sessanta metri e largo più di sette al baglio.» «Le quinqueremi sono goffe da manovrare» notò Ottaviano, rivelando di non essere un completo ignorante quando si trattava di galee da battaglia.

«Sì, ma le “cinque” offrono un vantaggio in termini di dimensioni e possono portare due minacciosi rostri di solido bronzo. Ho optato per le “cinque” modificate, non più di due uomini per remo in tre banchi, due, due, e uno. Ampio spazio sul ponte per un centinaio di fanti, oltre che per catapulte e baliste. Con trenta banchi in media per lato, fanno trecento rematori per ogni vascello. Più trenta marinai.» «Inizio a comprendere il tuo problema. Ma di certo l’hai già risolto. Trecento volte trecento rematori, un totale di novantamila. E anche quarantacinquemila fanti e ventimila marinai.» Ottaviano si stiracchiò come un gatto beato. «Non sono un generale delle truppe o un ammiraglio delle flotte, ma sono un maestro della nobile scienza romana della logistica.» «Quindi preferiresti avere centocinquanta fanti per nave invece di cento?» «Oh, credo proprio di sì. Per sciamare sul nemico come formiche.» «Ventimila uomini mi basteranno per iniziare» disse Agrippa. «Intendo cominciare costruendo il porto, e a tale scopo, qualcuno deve fare pressione sugli ex schiavi che vagano per l’Italia in cerca di latifundia che i tuoi funzionari agrari non hanno frazionato per i veterani. Li pagherò con i miei profitti della vendita degli schiavi, vitto e alloggio compresi. Se si dimostreranno bravi, in seguito potranno addestrarsi come rematori.» «Un impiego a incentivo» osservò Ottaviano con un sorriso. «Un’idea brillante. I poveri disgraziati non hanno i mezzi per tornare a casa, quindi perché non offrire loro riparo e pancia piena? Prima o poi finirebbero in Lucania a fare i briganti. Così è molto meglio.» Fece schioccare la lingua. «Sarà un’operazione lenta, assai più lenta di quanto avessi sperato. Quanto ci vorrà, Agrippa?» «Quattro anni, Cesare, incluso quello a venire, ma non quello in corso.» «Sesto non resterà fedele al patto nemmeno per un terzo di questo tempo.» Le folte ciglia dorate si abbassarono, nascondendo gli occhi. «Soprattutto ora che ho divorziato da Scribonia.» «Cacat! Perché mai?» «È una tale bisbetica che non sopporto più di vivere con lei. Qualunque cosa io voglia, lei è contraria. Così si mette a brontolare. E brontola, brontola, brontola…» Lo sguardo penetrante di Agrippa era inchiodato sul volto di Ottaviano. Dunque il vento è cambiato. Soffia da una direzione che non riconosco. Cesare sta tramando qualcosa, i segni sono inconfondibili. Ma quale intrigo richiede il divorzio da Scribonia? Bisbetica? Brontolona? Così di punto in bianco? Non prendermi in giro, Cesare.

«Avrò bisogno di parecchi uomini per sovrintendere ai lavori sui laghi» disse. «Ti spiace se li scelgo io? Probabilmente ingegneri militari delle mie legioni. Ma dovranno essere tutelati da qualcuno di influente. Un propretore, se nei hai qualcuno d’avanzo.» «No, ma ho un proconsole disponibile.» «Un proconsole? Non Calvino, ahimè! È un peccato che tu lo abbia mandato in Spagna. Sarebbe stato perfetto.» «C’è bisogno di lui, in Spagna. Truppe ammutinate.» «Lo so. I guai laggiù sono iniziati con Sertorio.» «Sertorio era più di trent’anni fa! Come si fa a incolparlo?» «Ha arruolato gli abitanti del luogo e insegnato loro a combattere come romani.

Perciò ora le legioni spagnole sono per lo più così… spagnole. Combattenti feroci, ma non hanno assorbito la disciplina romana bevendo il latte della loro madre. È uno dei motivi per cui non tenterò lo stesso esperimento nelle Gallie, Cesare. Ma tornando all’argomento, chi, allora?» «Sabino. Se anche ci fosse una provincia che implora un nuovo governatore, e non c’è, Sabino non la vorrebbe. Preferisce restare in Italia e partecipare alle manovre della flotta, quando avranno luogo.» Ottaviano sogghignò. «Non sarà edificante ascoltarlo quando scoprirà che mancano ancora quattro anni. Non gli affiderei delle legioni, ma ritengo che sarà un eccellente sovrintendente degli ingegneri incaricati del progetto di Portus Julius. È così che chiameremo il tuo porto.» Agrippa rise. «Povero Sabino. Non riuscirà mai a farsi perdonare il pasticcio combinato in quella battaglia, mentre Cesare stava conquistando la Gallia Transalpina.» «Era presuntuoso allora, ed è presuntuoso adesso. Lo manderò da te per essere istruito sul da farsi. Sarai qui a Narbo?» «No, a meno che non arrivi in fretta, Cesare. Parto per la Germania.» «Agrippa! Dici sul serio?» «Sì. Gli Svevi sono in fermento e si sono abituati alla vista di quel che è rimasto del ponte di Cesare sul Rhenus. Non che abbia intenzione di servirmene. Ne costruirò uno mio, più a monte. Gli Ubii prendono il cibo dalle mie mani, perciò non voglio mettere in allarme loro o i Cherusci. Quindi mi inoltrerò in territorio svevo.» «E nella foresta?» «No. Potrei farlo, ma le truppe hanno paura della Bacenis, troppo tenebrosa e lugubre. Pensano che ci sia un germanico dietro ogni albero, per non parlare di orsi, lupi e bisonti.» «E c’è? Ci sono?» «Dietro alcuni, ma non temere, Cesare, sarò prudente.»

Poiché era opportuno che l’erede di Cesare si mostrasse alle legioni galliche, Ottaviano si fermò abbastanza a lungo da far visita a ciascuna delle sei legioni accampate nei dintorni di Narbo, passando tra i soldati e rivolgendo loro il vecchio sorriso di Cesare; molti di essi erano veterani delle guerre galliche, tornati ad arruolarsi per pura e semplice noia della vita da civili.

Bisogna darci un taglio, pensò Ottaviano durante i suoi giri, la mano destra ridotta in polpa da tutte quelle calorose strette di mano. Alcuni di questi uomini sono ormai diventati dei possidenti degni di considerazione dopo una dozzina di arruolamenti; vengono congedati, riscuotono dieci iugera a testa e l’anno seguente tornano per un’altra campagna. Dentro, fuori, dentro, fuori, accumulando ogni volta nuova terra.

Roma deve avere un esercito permanente, con soldati che prestino servizio per vent’anni senza congedo. Poi, alla fine, riceveranno una pensione in denaro invece che terreni. L’Italia è grande, e stanziarli nelle Gallie, nelle Spagne, in Bitinia o da qualsiasi altra parte non è di loro gradimento; sono romani, e desiderano trascorrere la vecchiaia in patria. Il mio divino padre stanziò la Decima intorno a Narbo perché si era ribellata, ma dove sono ora quegli uomini? Be’, nelle legioni di Agrippa.

Un esercito dovrebbe stare dove ci sono i pericoli, pronti a combattere in un nundinum. Bisogna finirla di mandare pretori a fare opera di reclutamento, di equipaggiare e addestrare truppe in fretta e furia vicino a Capua per poi spedirle ad affrontare subito il nemico dopo una marcia di mille miglia. Capua continuerà a fungere da area di addestramento, ma non appena un soldato è giudicato soddisfacente, dovrebbe immediatamente raggiungere qualche frontiera per unirsi a una legione già presente sul posto. Caio Mario aprì le legioni all’arruolamento dei capite censi nullatenenti, oh, quanto lo odiavano i boni per questo! Per i boni, gli «uomini buoni», i capite censi non avevano nulla da difendere, né terre né proprietà.

Tuttavia, si rivelarono soldati ancor più valorosi dei vecchi possidenti, e oggi le legioni romane sono composte esclusivamente da capite censi. Una volta i proletarii non avevano niente da offrire a Roma salvo i propri figli; adesso offrono a Roma il loro coraggio e le loro vite. Una mossa brillante, Caio Mario!

Il Divus Julius era un tipo strano. I suoi legionari lo adoravano già molto tempo prima che fosse deificato, ma non si prese mai il disturbo di avviare i cambiamenti chiesti a gran voce dall’esercito. Non pensava nemmeno a esso come a un esercito, ma come a delle legioni. Ed era un uomo fedele alla costituzione, al mos maiorum, restìo a modificarlo, malgrado i boni affermassero il contrario. Ma il Divus Julius si sbagliava sul mos maiorum.

Un nuovo mos maiorum è atteso da troppo tempo. L’espressione indica il modo in cui le cose si sono sempre fatte, ma il popolo ha la memoria corta, e un nuovo mos maiorum non tarderà a diventare una venerata reliquia. È tempo di una diversa struttura politica, più adatta a governare un impero tanto esteso. Posso io, Caesar Divi Filius, accettare di essere tenuto in ostaggio da un pugno di uomini decisi a privarmi del mio potere politico? Il divo Giulio ha permesso che ciò gli accadesse, e ha dovuto attraversare il Rubicone come ribelle per salvarsi. Ma un buon mos maiorum non avrebbe consentito a Catone l’Uticense, ai Marcelli e a Pompeo Magno di spingere il mio divino padre nell’illegalità. Un buon mos maiorum lo avrebbe tutelato, poiché non aveva fatto nulla che quel tronfio e ripugnante Pompeo Magno non avesse già fatto una dozzina di volte. Un classico caso di una legge per questo, Magno, ma un’altra legge per quello, Cesare. Il cuore di Cesare si è spezzato per quella macchia sul suo onore, così come si era spezzato quando la Nona e la Decima si erano ammutinate. Nessuna delle due cose sarebbe avvenuta se avesse tenuto d’occhio e controllato meglio tutto, dai suoi folli avversari politici ai suoi inetti parenti. Be’, a me questo non succederà! Ho intenzione di cambiare il mos maiorum e il modo in cui Roma è governata affinché si adattino a me e alle mie esigenze. Non sarò proscritto. Non scatenerò una guerra civile. Ciò che devo fare, lo farò in maniera legittima.

Parlò di tutto questo con Agrippa durante il pranzo, nel suo ultimo giorno a Narbo, ma non discusse del suo divorzio, di Livia Drusilla o del dilemma che doveva affrontare. Poiché vedeva chiaramente, come nel bagliore del sole estivo, che Agrippa non doveva essere coinvolto nelle sue tribolazioni sentimentali. Erano un fardello inadatto ad Agrippa, che non era il suo gemello o il suo divino padre, ma il comandante militare e il pubblico funzionario che lui stesso aveva nominato. Il suo invincibile braccio destro.

Perciò baciò Agrippa su entrambe le guance e salì a bordo del suo calesse per il lungo viaggio verso casa, reso ancor più lungo dalla sua decisione di visitare ogni altra legione presente nella Gallia Transalpina. Tutti dovevano vedere e incontrare l’erede di Cesare; tutti dovevano essere personalmente legati a lui. Perché chissà dove o quando avrebbe avuto bisogno della loro fedeltà?

Malgrado quel programma estenuante, fu di ritorno ben prima della fine dell’anno, le sue priorità disposte mentalmente in un ordine preciso, alcune delle quali estremamente urgenti. Ma la prima della lista era Livia Drusilla. Soltanto una volta sistemata quella faccenda avrebbe potuto rivolgere il pensiero a questioni più importanti. Poiché di per sé non era una cosa importante; doveva il suo potere solo a una debolezza insita in lui, una carenza che non riusciva a comprendere, tanto che aveva rinunciato a provarci. Perciò era meglio farla finita e togliersi il pensiero.

Mecenate era di nuovo a Roma, felicemente sposato alla sua Terenzia, la cui prozia, la vedova spaventosamente brutta del nobile Cicerone, approvava appieno la scelta di un uomo così affascinante e di buona famiglia. Essendo di qualche anno più vecchia di Cicerone, aveva ormai superato la settantina, ma continuava ad amministrare la sua immensa fortuna con pugno di ferro e un’enciclopedica conoscenza delle leggi religiose che le permetteva di sottrarsi al pagamento delle tasse. La guerra civile di Cesare contro Pompeo Magno aveva portato alla dispersione e alla rovina della sua famiglia; l’unico ancora in vita era suo figlio, un irascibile ubriacone che lei disprezzava. Perciò c’era spazio per un uomo nel suo vecchio e duro petto, e Mecenate ci si era comodamente sistemato. Chissà, forse un giorno avrebbe ereditato il suo patrimonio. Sebbene in privato avesse detto a Ottaviano di essere convinto che la vecchia sarebbe sopravvissuta a tutti loro, e che avrebbe trovato il modo di portare i suoi soldi con sé quando infine fosse giunta la sua ora.

Così Mecenate era disponibile per intavolare la trattativa con Nerone; l’unico problema era che Ottaviano non aveva ancora fatto parola con anima viva della sua passione per Livia Drusilla, nemmeno con Mecenate. Il quale lo avrebbe ascoltato con aria grave, poi avrebbe cercato di persuaderlo a rinunciare a quella bizzarra unione. Né, data l’ottusità e l’intrattabilità di Nerone, Mecenate avrebbe goduto dei suoi consueti vantaggi. Nella sua mente, Ottaviano aveva equiparato la sua finora platonica relazione con l’intimità delle funzioni corporee: nessuno deve vedere o sentire. Gli dèi non espellono, e lui era figlio di un dio, e un giorno sarebbe a sua volta diventato un dio. C’erano parecchi aspetti della religione di stato che lui liquidava come fesserie, ma il suo scetticismo non si estendeva al divo Giulio o alla propria condizione, a cui non pensava alla maniera greca. Non c’era nessun divo Giulio che se ne stava in cima a una montagna o dimorava nel tempio che Ottaviano stava costruendo per lui al Foro; no, il divo Giulio era una forza incorporea che, aggiunta al pantheon di forze, aveva accresciuto l’autorità romana, la potenza romana, la supremazia militare romana. Parte di essa pervadeva Agrippa, ne era certo. E molta di essa pervadeva anche lui; poteva sentirla scorrere impetuosa nelle sue vene, e aveva imparato il trucco di unire le dita a guglia per aumentare ulteriormente quella forza.

Un uomo simile confessava le sue debolezze a un altro uomo? No, non lo faceva.

Poteva confessare le sue frustrazioni, i suoi affanni, i suoi momenti di depressione.

Mai però le debolezze o i difetti del suo carattere. Di conseguenza, servirsi di Mecenate era fuori discussione. Avrebbe dovuto condurre le trattative di persona.

Il ventitreesimo giorno di settembre era il suo compleanno, e ne aveva festeggiati ventiquattro. Una nebbia era calata sugli anni immediatamente successivi all’assassinio del suo divino padre; non rammentava affatto come avesse trovato la forza di intraprendere la sua carriera, conscio che alcuni dei suoi atti erano dovuti alla follìa della gioventù. Ma avevano avuto un esito positivo, ed era questo a restargli impresso nella memoria. La vittoria di Filippi rappresentava uno spartiacque, poiché ricordava con chiarezza cristallina tutto ciò che era avvenuto in seguito. Sapeva perché. Dopo Filippi aveva affrontato Antonio e aveva vinto. Una semplice richiesta: la testa di Bruto. Era stato allora che il suo futuro si era svelato all’occhio della mente, e lui aveva visto la sua strada. Antonio si era arreso dopo un’esibizione in cui era passato da una rabbia terrificante a un pianto patetico. Sì, si era arreso.

Gli incontri con Antonio non erano stati numerosi da allora, ma ogni volta si era scoperto più forte, finché, in occasione dell’ultimo, aveva detto quello che pensava senza la minima esitazione nella voce. Non era più un pari di Antonio; era il suo superiore. Forse perché il divo Giulio non era mai riuscito a spezzarlo, gli tornò in mente Catone l’Uticense, e capì infine ciò che il divo Giulio aveva sempre saputo: che nessuno può spezzare un uomo che pensa di non avere difetti. Bastava levare Catone l’Uticense dall’equazione e avevi… Tiberio Claudio Nerone. Un altro Catone, ma un Catone privo di intelletto.

Si recò a far visita a Nerone a un’ora del mattino che lo avrebbe visto arrivare dopo che l’ultimo dei suoi clienti se n’era andato, ma prima che potesse uscire ad annusare l’umida aria invernale e vedere cosa stava accadendo al Foro. Se Nerone fosse stato un avvocato illustre, avrebbe potuto difendere qualche nobile briccone dall’accusa di peculato o frode, ma il suo patrocinio non era particolarmente apprezzato; rappresentava i suoi amici in quarta o quinta posizione se glielo chiedevano, ma nessuno lo aveva fatto di recente. La sua cerchia era ristretta, composta di aristocratici incapaci come lui, gran parte dei quali aveva preferito seguire Antonio ad Atene piuttosto che restare nella Roma delle tasse e delle sommosse di Ottaviano.

Sarebbe stata un’enorme soddisfazione per Nerone rifiutarsi di vedere quel visitatore indesiderato, ma la buona educazione e la forma gli imponevano di farlo.

«Cesare Ottaviano» disse con freddezza, alzandosi in piedi, ma senza spostarsi da dietro il suo scrittoio né tendere la mano. «Accomodati, te ne prego.» Non gli offrì né vino né acqua, si limitò a sprofondare di nuovo nella sedia e a fissare quel volto odioso, così liscio e spaventosamente giovane. Gli ricordava che lui aveva superato i quarantacinque e non era stato ancora console; nell’anno di Filippi, era stato pretore, senza giovare alla carriera di nessuno, men che meno alla propria. Se non fosse riuscito a incrementare le sue fortune, non sarebbe mai diventato console, perché per farsi eleggere occorreva distribuire cospicue tangenti. Quasi cento persone si sarebbero candidate per l’ufficio di pretore l’anno seguente, e il Senato parlava di lasciarne sessanta o più al loro posto. Cosicché, ci sarebbe stata una valanga di ex pretori a disputarsi ogni consolato per la generazione a venire.

«Che cosa vuoi, Ottaviano?» domandò.

Sputa il rospo, è meglio così. «Voglio tua moglie.» La risposta lasciò Nerone senza parole; sgranò gli occhi scuri, spalancò la bocca, si senti soffocare e dovette alzarsi goffamente in piedi e correre verso la brocca dell’acqua. «Stai scherzando» disse infine, il petto ansante.

«Assolutamente no.» «Ma… ma è ridicolo!» Poi le implicazioni di quella richiesta si fecero strada nella sua mente. Con la bocca serrata, tornò a sedersi allo scrittoio, le mani strette attorno a una dozzinale coppa di ceramica; il suo servizio di calici e caraffe dorate era svanito.

«Vuoi mia moglie?» «Sì.» «Che mi tradisca è già abbastanza brutto, ma con te…!» «Non ti è stata infedele. L’ho incontrata una sola volta, alle rovine di Fregellae.» Decidendo che la richiesta di Ottaviano non era di tipo carnale, ma piuttosto un mistero, Nerone chiese: «Perché la vuoi?».

«Per sposarla.» «Allora è stata infedele! Il bambino è tuo! Che sia maledetta, quella cunnus! Be’, non l’avrai facilmente, lurido cazzone! Andrà fuori da casa mia, e la sua vergogna verrà sparsa ai quattro venti!» Dalla coppa, tenuta da mani tremanti, si rovesciò dell’acqua.

«È innocente, non ha commesso alcun peccato, Nerone. Te lo ripeto, l’ho incontrata solo una volta, e dall’inizio alla fine si è comportata con il massimo decoro… Ha dei modi così squisiti! Hai saputo scegliere bene. Ecco perché voglio che diventi mia moglie.» Qualcosa negli occhi solitamente opachi di Ottaviano suggeriva che stava dicendo la verità; con l’apparato cerebrale ormai al limite delle sue possibilità, Nerone ricorse alla logica. «Ma le persone non vanno in giro a chiedere agli uomini le loro mogli! È assurdo! Che cosa ti aspetti che dica? Non so cosa dire! Non puoi fare sul serio!

Questo genere di cose non si fanno! Tu che hai un pochino di sangue nobile, Ottaviano, dovresti saperlo che non si fanno!» Ottaviano sorrise. «Per come la so io» disse in tono normale, «una volta un senescente Quinto Ortensio andò a trovare Catone l’Uticense e gli chiese se poteva prendere in sposa sua figlia, all’epoca poco più che una bambina. Catone rispose di no, perciò lui gli chiese una delle sue nipoti. Catone rispose di no, allora Quinto Ortensio gli chiese sua moglie. E Catone rispose di sì. Le mogli, vedi, non sono dello stesso sangue, sebbene ammetta che la tua lo è. Quella moglie era Marcia, la mia sorellastra. Ortensio pagò un prezzo esorbitante per averla, ma Catone non prese un soldo. Il denaro andò tutto al mio patrigno, Filippo, che era cronicamente al verde.

Un epicureo del genere più dispendioso. Forse se vedessi la mia richiesta sotto la luce con cui Catone vide quella di Ortensio, ti sembrerebbe più credibile. Se preferisci, credi, come Ortensio, che Giove mi abbia fatto visita in sogno per dirmi che devo sposare tua moglie. Catone lo considerò un motivo ragionevole. Perché tu non dovresti?» Un nuovo pensiero si affacciò nella mente di Nerone mentre ascoltava quelle parole: aveva di fronte un pazzo! Per il momento era abbastanza tranquillo, ma chi poteva sapere quando sarebbe esploso? «Chiamerò i miei servi e ti farò buttare fuori!» dichiarò, ritenendo la frase, così formulata, non troppo incendiaria e tale da provocare una reazione violenta.

Ma prima che potesse aprire bocca per chiamare aiuto, il suo ospite si protese sullo scrittoio e lo afferrò per il braccio. Nerone rimase immobile, come un topo trafitto dallo sguardo del basilisco.

«Non farlo, Nerone. O almeno lasciami finire, prima. Non sono fuori di senno, ti do la mia parola. Mi comporto come un matto? Voglio semplicemente sposare tua moglie, il che rende necessario che tu divorzi da lei. Ma non nella vergogna. Usa come pretesto dei motivi religiosi, tutti li accetteranno e l’onore sarà salvo per entrambe le parti. In cambio della cessione di questa perla di valore inestimabile, mi impegno ad alleviare le tue attuali difficoltà finanziarie. Anzi, le farò sparire meglio di un mago di Samo. Andiamo, Nerone, non ti piacerebbe?» Di colpo distolse lo sguardo e lo concentrò oltre la spalla destra di Ottaviano, e il suo volto sottile e saturnino assunse un’espressione furba. «Come fai a sapere delle mie difficoltà finanziarie?» «Tutta Roma lo sa» rispose freddo Ottaviano. «Avresti dovuto servirti di Oppio o dei Balbi. Gli eredi di Flavio Emicillo sono un branco di furbacchioni, chiunque, tranne uno sciocco, poteva accorgersene. Sfortunatamente, si dà il caso che tu sia uno sciocco, Nerone. Ho sentito il mio divino padre ripeterlo in diverse occasioni.» «Che cosa sta succedendo?» urlò Nerone, asciugando con una salvietta l’acqua che aveva versato, come se con quella futile operazione potesse cancellare la confusione dell’ultimo quarto d’ora. «Ti stai prendendo gioco di me? È così?» «Niente affatto, te lo assicuro. Tutto ciò che ti chiedo è di divorziare subito da tua moglie per motivi religiosi.» Frugò nella toga e ne estrasse un pezzo di carta piegato.

«I motivi sono spiegati in dettaglio qui dentro, per risparmiarti un mal di testa sforzandoti di pensarne qualcuno. Nel frattempo, prenderò accordi con il Collegio dei Pontefici e i Quindecemviri per il mio matrimonio, che intendo celebrare il prima possibile.» Si alzò in piedi. «Ovviamente, non occorre dire che avrai la custodia di entrambi i tuoi figli. Non appena il secondo verrà al mondo, te lo affiderò. È un peccato che non possano conoscere la madre, ma lungi da me il proposito di ostacolare il diritto di un uomo verso i suoi figli.» «Ah… uhm… ah…» fece Nerone, incapace di assimilare l’abilità con cui era stato manovrato.

«Immagino che la sua dote sia ormai solo un lontano ricordo» osservò Ottaviano con una punta di disprezzo nella voce. «Pagherò i tuoi debiti insoluti, in forma anonima, ti verserò la somma di cento talenti all’anno e ti aiuterò a corrompere se punterai al consolato. Anche se non sono in grado di garantire che sarai eletto.

Nemmeno i figli degli dèi possono arginare in modo efficace la piena dell’opinione pubblica.» Si avviò verso la porta, poi si voltò. «Manderai Livia Drusilla alla Casa delle Vestali non appena avrai divorziato da lei. Quando lo avrai fatto, il nostro affare sarà concluso. I primi cento talenti sono già depositati presso i Balbi. Una banca seria.» Detto questo, uscì, chiudendosi piano la porta alle spalle.

Nerone rimase seduto, cercando per quanto poteva di dare un senso a quanto era accaduto, il che aveva principalmente a che vedere con la soluzione dei suoi problemi economici. Sebbene Ottaviano non lo avesse detto espressamente, un salutare istinto di autoconservazione gli suggerì che aveva due alternative: raccontare tutto al mondo intero o tacere per sempre. Se avesse parlato, i debiti sarebbero rimasti insoluti e non avrebbe ricevuto la rendita promessa. Se avesse tenuto la bocca chiusa, sarebbe riuscito a raggiungere la posizione che gli competeva nel ceto più elevato di Roma, il che valeva per lui più di qualunque moglie. Perciò, avrebbe taciuto.

Aprì il pezzo di carta consegnatogli da Ottaviano e lesse con penosa lentezza le poche righe della singola colonna. Sì, sì, questo avrebbe salvato il suo onore!

Religiosamente impeccabile. Poiché gli era venuto in mente che, nel caso Livia Drusilla fosse stata condannata come moglie infedele, lui avrebbe portato le corna e sarebbe stato oggetto di scherno. Un vecchio con una moglie giovane e bella, poi arriva un giovanotto e… Oh, così non va! Che il mondo pensasse pure quel che gli pareva del fallimento del suo matrimonio; lui si sarebbe comportato come se non fosse occorso nulla di più salace di un impedimento di tipo religioso. Prese un pezzo di carta e iniziò a redigere l’atto di divorzio, dopodiché fece chiamare Livia Drusilla.

Nessuno aveva pensato di avvertirla della visita di Ottaviano, perciò lei appariva come sempre, remissiva e modesta, la quintessenza della buona moglie. Bella, decise Nerone osservandola. Sì, era bella. Ma perché aveva acceso le fantasie di Ottaviano?

Benché lui fosse un nuovo ricco, di certo la scelta non gli mancava. Il potere attirava le donne come una fiamma le falene, e Ottaviano era potente. Che cosa aveva notato in lei in un solo incontro che sei anni di matrimonio non avevano rivelato al marito?

Nerone era cieco, oppure Ottaviano si ingannava? La seconda spiegazione doveva essere quella giusta.

«Sì, domine?» Lui le porse l’atto. «Divorzio immediatamente da te, Livia Drusilla, per motivi religiosi. A quanto pare, un verso nel nuovo supplemento ai Libri Sibillini è stato interpretato dai Quindecimviri come attinente al nostro matrimonio, che va quindi sciolto. Devi impacchettare le tue cose e recarti subito alla Casa delle Vestali.» Lo choc la ammutolì, le intorpidì le membra, le annebbiò la mente. Ma rimase ben salda, senza vacillare; l’unico segno esteriore del colpo ricevuto era l’improvviso pallore del volto.

«Potrò vedere i bambini?» domandò, non appena ne fu capace.

«No. Questo ti renderebbe nefas.» «Quindi dovrò rinunciare alla creatura che porto in grembo.» «Sì, non appena verrà al mondo.» «Che ne sarà di me? Mi restituirai la dote?» «No, neppure in parte.» «E allora come farò a vivere?» «Non è più un problema che mi riguarda. Ho avuto istruzioni di mandarti alla Casa delle Vestali, questo è tutto.»

Livia Drusilla fece dietrofront e tornò al suo minuscolo regno, ingombro di oggetti che detestava, dalla rocca al telaio, usati per filare e tessere stoffe che nessuno portava mai, perché lei non era un’esperta di quelle arti né ambiva a diventarlo. Il luogo era maleodorante in quel periodo dell’anno; avrebbe dovuto legare dei mazzi di pulicaria per tenere alla larga gli insetti nocivi, ed era in ritardo di una nundinae perché odiava quell’incombenza. Oh, bei giorni quelli in cui Nerone gli dava qualche sesterzio per prendere in prestito dei libri alla biblioteca di Attico! Adesso tutto si era ridotto a filare, tessere e legare mazzi.

Il bambino cominciò a tirare violenti calci, tale e quale al fratello. Era passata forse un’ora da quando aveva smesso di sferrare colpi, facendo esercizio a sue spese.

Ben presto il suo intestino si sarebbe ribellato e avrebbe dovuto correre alla latrina, sperando che non ci fosse nessuno a sentirla. La servitù non la considerava degna di attenzione, sapendo che Nerone non la considerava degna di attenzione. Con un turbine di pensieri in testa, sedette sullo sgabello che usava per tessere e osservò dalla finestra il portico e, più in là, il peristilio in rovina.

«Stai fermo tu… cosa!» urlò al bambino.

Come per magia, il martellamento cessò, perché non ci aveva pensato prima?

Adesso poteva mettersi a pensare.

Libertà, e giunta da una direzione che nessuno si sarebbe mai sognato, lei men che meno. Un verso nell’ultimo dei Libri Sibillini! Sapeva che cinquant’anni prima Lucio Cornelio Silla aveva ordinato ai Quindecimviri di cercare in tutto il mondo i frammenti dei Libri Sibillini, andati parzialmente bruciati, che ci facevano quei frammenti lontano da Roma? Ma lei aveva sempre pensato a questa raccolta di astrusi distici e quartine come a qualcosa di assolutamente etereo, senza alcuna relazione con la gente comune e gli eventi normali. Terremoti, guerre, invasioni, incendi, la morte di uomini potenti, la nascita di bambini destinati a salvare il mondo… di questo si occupavano i libri profetici.

Benché avesse domandato a Nerone di che cosa sarebbe vissuta, Livia Drusilla non si preoccupava di questo. Se gli dèi si erano degnati di prestarle attenzione, come chiaramente avevano fatto, e di liberarla da quell’orribile matrimonio, allora non avrebbero permesso che finisse ad adescare gli uomini fuori dal tempio di Venere Erucina, o che morisse di fame. L’esilio nella Casa delle Vestali doveva essere una sistemazione temporanea; una Vestale veniva iniziata all’età di sei o sette anni, e doveva mantenersi vergine per i trent’anni del suo ufficio, poiché la sua verginità rappresentava la fortuna di Roma. Né le Vestali ospitavano mai altre donne, lei doveva essere davvero speciale! Ciò che le riservava il futuro non poteva immaginarlo, né ci provava. Le bastava sapere che era libera, che la sua vita finalmente andava da qualche parte.

Aveva un piccolo baule in cui riponeva i suoi pochi abiti ogniqualvolta doveva mettersi in viaggio; quando, meno di un’ora dopo, il domestico venne a informarsi se era pronta per la camminata dal Germalo del Palatino fin giù al Foro Romano, il baule era pieno e legato con delle corde, e lei si era avvolta in un caldo mantello per ripararsi dal freddo e dalla neve che minacciava di cadere. Si affrettò, per quanto le consentivano le calzature dalle alte suole di sughero (utili per impedire il contatto dei piedi con occasionali mucchietti di letame), sulla scia del domestico, che trasportava il baule lamentandosi ad alta voce con tutti quanti delle sue disgrazie. Scendere i gradini delle Vestali richiese un certo tempo, ma dopo c’era un breve percorso in piano che passava accanto al piccolo e rotondo Aedes Vestae, fino all’ingresso laterale della metà della Domus Publica riservata alle Vergini Vestali. Qui una serva consegnò il baule a una robusta donna gallica, dopodiché la condusse in una stanza con un letto, un tavolo e una sedia.

«Latrine e bagni sono lungo questo corridoio» la informò la governante, poiché era questa la sua funzione. «Non dovete consumare i pasti con le sacre signore. Cibo e bevande vi saranno serviti qui. La vestale maxima dice che potete fare i vostri esercizi nel giardino, ma non nelle ore in cui lo usano loro. Mi è stato detto di chiedervi se vi piace leggere.» «Sì, mi piace leggere.» «Quali libri preferite?» «Qualunque cosa in latino o in greco che le sacre signore giudichino adatto» rispose Livia Drusilla, bene educata.

«Avete altre domande, domina?» «Soltanto una. Devo condividere l’acqua del bagno?»

Trascorsero tre nundinae in una quiete irreale coperta da fiocchi di neve.

Consapevole che la presenza di una donna incinta doveva essere contraria a tutti i precetti delle Vestali, Livia Drusilla non fece nessun tentativo per vedere le sue ospiti, né alcuna di esse, neppure la vestale maxima, venne a farle visita. Passava il tempo leggendo, camminando su e giù per il giardino, e lavandosi in estasi nell’acqua calda e pulita. Le Vestali godevano di servizi assai migliori di quelli offerti dalla domus di Nerone; i sedili delle latrine erano di marmo, le vasche da bagno di granito egiziano, e il cibo era squisito. Scoprì che nel menù era compreso il vino.

«Fu il pontefice massimo Enobarbo a rinnovare l’Atrium Vestae, sessant’anni fa» spiegò la governante, «e poi il pontefice massimo Cesare fece installare il riscaldamento a ipocausto in tutti gli ambienti di soggiorno e nelle stanze dei documenti.» Schioccò la lingua. «Il piano interrato era adibito a deposito dei testamenti, ma il pontefice massimo Cesare progettò di utilizzarne una parte per realizzare il miglior ipocausto di Roma. Oh, quanto ci manca!» Un nundinium dopo l’Anno Nuovo, la governante le portò una lettera. Dopo averla distesa e bloccata tra due fermacarte di porfido, Livia Drusilla si dispose alla sua lettura, resa facile dal puntino sopra ogni nuova parola. Perché i copisti di Attico non facevano altrettanto?

 

«Saluti a te, Livia Drusilla, amore della mia vita. Come questa mia ti dirà, io, Caesar Divi Filius, non ti ho dimenticata dopo il nostro incontro a Fregellae. Ci è voluto un po’ di tempo per escogitare un modo per liberarti di Tiberio Claudio Nerone senza scandalo o infamia. Ho dato istruzioni al mio liberto. Eleno, di esaminare il nuovo Libro Sibillino finché non avesse trovato un verso che si potesse considerare attinente a te e Nerone. Di per sé, questo era insufficiente.

Doveva anche scovare un verso che si addicesse a te. e a me, impresa più ardua.

Quest’uomo eccellente, sono davvero lieto di averlo di nuovo con me dopo un anno di prigionia con Sesto Pompeo, è assai meglio come studioso che come ammiraglio o generale. Sono talmente felice di poterti scrivere questo che mi sento come Icaro che si libra in aria. Ti prego, mia Livia Drusilla, non buttarmi giù! La delusione mi ucciderebbe, se già non lo avesse fatto la caduta. Ecco il verso tuo e di Nerone:

 

Marito e moglie, nera come la notte

Uniti son di Roma la rovina

Separarli in fretta bisogna

O Roma andrà per sempre alla deriva

 

Il nostro a confronto è rose di Campania:

 

Un figlio di un dio, bello e dai capelli d’oro

Dovrà prendere in sposa la madre di due,

Nera come la notte, di una coppia naufragata

Insieme ricostruiranno Roma

 

Ti piace? A me è piaciuto, quando l’ho letto. Eleno è un tipo in gamba, un esperto di manoscritti. L’ho promosso al rango di segretario capo.

Il diciassettesimo giorno di questo mese, gennaio, tu e io ci uniremo in matrimonio. Quando ho portato i due versi ai Quindecimviri, di cui faccio parte, essi hanno convenuto che la mia interpretazione era quella autentica. Ogni ostacolo e impedimento è stato spazzato via, ed è stata approvata una lex curiata che sancisce il tuo divorzio da Nerone e la nostra unione.

La vestale maxima, Apuleia, è mia cugina, e ha acconsentito a darti asilo finché non ci sposeremo. Ho promesso che, non appena Roma sarà in piedi, separerò le Vestali dal pontefice massimo nella loro casa. Ti amo.»

 

Livia Drusilla spostò i fermacarte e lasciò che il rotolo di pergamena si riavvolgesse, quindi si alzò e sgusciò fuori dalla porta. La scala di pietra che portava al piano interrato non era molto distante. Percorse svelta il corridoio, la raggiunse, e fu dabbasso prima che qualcuno potesse vederla. Nell’Atrium Vestae la servitù era formata esclusivamente da donne libere, incluse quelle che spaccavano la legna e la buttavano nelle caldaie, dove si trasformava in carbone. Sì, era fortunata! Il rifornimento era stato completato, ma non era ancora il momento di rastrellare i tizzoni ardenti nell’ipocausto che riscaldava i piani superiori. Come un’ombra, si avvicinò alla caldaia più vicina e gettò il rotolo tra le fiamme.

Perché l’ho fatto? si chiese quando fu di nuovo al sicuro nella sua stanza, ansante per lo sforzo. Oh, andiamo, Livia Drusilla, lo sai il perché! Perché lui ha scelto te, e nessuno dovrà mai sospettare che ti ha accordato la sua fiducia così presto. Questa è una casa abitata da donne, dove ogni cosa è affare di tutte. Non avrebbero osato rompere il suo sigillo, ma non appena avessi voltato le spalle, si sarebbero affrettate a leggere la mia lettera.

Potere! Mi darà potere! Mi vuole, ha bisogno di me, mi sposerà! Insieme ricostruiremo Roma. Il Libro Sibillino dice la verità, non importa quale penna abbia scritto il verso. Se i miei versi sono qualcosa su cui basarsi, allora tutte le altre migliaia di versi devono essere molto sciocchi. Ma nessuno ha mai preteso che un profeta in estasi debba essere Catullo o Saffo. Una mente ben allenata può coniare corbellerie del genere in un batter d’occhio.

Oggi sono le None. Tra dodici giorni sarò la sposa di Caesar Divi Filius; non posso salire più in alto di così. Perciò è d’uopo che io lavori per lui con tutte le mie forze, perché se lui cade, cado anch’io.

Il giorno delle nozze, finalmente vide la vestale maxima, Apuleia. Quella donna incuteva timore reverenziale, eppure non aveva nemmeno venticinque anni. Ma così andavano talvolta le cose nel Collegio delle Vestali; diverse di loro raggiungevano i trentacinque anni, l’età in cui venivano messe a riposo, più o meno nello stesso momento, lasciando il posto a sacerdotesse più giovani. Apuleia aveva davanti ancora almeno dieci anni come vestale maxima, e si stava diligentemente trasformando in una gentile tiranna. Nessuna giovane e graziosa Vestale sarebbe stata accusata di aver perso la verginità sotto il suo regno! Se ritenuta colpevole, sarebbe stata seppellita viva con una brocca d’acqua e una pagnotta di pane, ma era da molto tempo che questa punizione non veniva inflitta, poiché le Vestali davano grande valore al loro status e gli uomini erano loro più estranei di un cavallo africano a strisce.

Livia Drusilla alzò lo sguardo; Apuleia era molto alta. «Spero ti renda conto» disse la vestale maxima con aria truce, «che noi sei Vestali abbiamo messo Roma in pericolo accogliendo una donna gravida nella nostra casa.» «Me ne rendo conto, e ti ringrazio.» «I ringraziamenti sono irrilevanti. Abbiamo fatto le offerte ed è tutto a posto, ma per nessuno, eccetto il figlio del Divus Julius, avremmo acconsentito a darti asilo. È un segno della tua estrema virtù che non sia capitato nulla di male a noi o a Roma.

Tuttavia, mi sentirò più sollevata quando sarete sposati e fuori di qui. Se il pontefice massimo Lepido fosse stato in sede, forse ti avrebbe rifiutato il nostro sostegno, ma Vesta, dea del Focolare, dice che sei necessaria a Roma. Anche i nostri libri dicono questo.» Tirò fuori una veste dritta e maleodorante, di un deprimente color marrone pallido. «Vestiti, adesso. Le piccole Vestali hanno tessuto per te questa veste con lana che non è mai stata follata o tinta.» «Dove devo andare?» «Poco lontano. Solo fino al tempio nella Domus Publica che condividiamo con il pontefice massimo. Non è stato più usato per cerimonie pubbliche da quando il pontefice massimo Cesare vi è stato esposto solennemente dopo la sua crudele morte.

A officiare sarà Marco Valerio Messala Corvino, il sacerdote più anziano attualmente a Roma, ma ci saranno i flamines e il Rex Sacrorum.» Con la pelle che le pizzicava per via della squallida camicia di crine, Livia Drusilla seguì la sagoma vestita di bianco di Apuleia attraverso le enormi stanze in cui le Vestali assolvevano i loro faticosi doveri testamentari, poiché avevano in custodia diversi milioni di testamenti di cittadini romani in tutto il mondo, e potevano trovarne uno in particolare nel giro di un’ora.

Una piccola Vestale di dieci anni che non smetteva di emettere sciocchi risolini aveva acconciato i capelli di Livia Drusilla in sei ciocche e le aveva posto sulla fronte una corona fatta di sei giri di lana. Sopra di questa andava posato un velo che rendeva cieche le sue nove parti, tanto era spesso e ruvido. Niente tessuti color zafferano e rosso acceso, abbastanza fini da passare attraverso la cruna di un ago da rammendo, per questa sposa! Sembrava vestita per sposare Romolo, non Caesar Divi Filius.

Essendo privo di finestre, il tempio era un intrico di oscurità e pozze di luce gialla, terribilmente sacro e, immaginò Livia Drusilla, infestato dalle ombre di tutti gli uomini che avevano foggiato la religione di Roma nel corso di mille anni, partendo da Enea, Numa Pompilio e Tarquinio Prisco, appostati in quel luogo al fianco del pontefice massimo Enobarbo e del pontefice massimo Cesare, che osservavano in silenzio dalle tenebre impenetrabili di ogni fessura.

Lui stava aspettando, senza amici che lo accompagnassero. Lei lo riconobbe soltanto dallo scintillio dei capelli, un guizzante punto focale sotto un enorme lampadario a bracci con almeno cento stoppini. Più indietro c’erano diversi uomini che indossavano toghe variopinte, alcuni vestiti in laena e apex, con calzature senza lacci o fibbie. Livia Drusilla riprese fiato quando finalmente comprese: quello era un matrimonio secondo la forma antica, la confarreatio. Lui la sposava per la vita; la loro unione non avrebbe mai potuto essere sciolta, diversamente da una normale. Le mani di Apuleia la spinsero su un sedile a due posti coperto da una pelle di pecora, mentre il Rex Sacrorum faceva altrettanto con Ottaviano. Altre persone stavano nell’ombra, ma non riusciva a vedere chi fossero. Poi Apuleia, che fungeva da pronuba, lanciò un enorme velo sui due sposi. Magnificamente abbigliato con una toga a strisce porpora e cremisi, Messala Corvino unì insieme le loro mani e pronunciò alcune parole in una lingua arcaica che Livia Drusilla non aveva mai udito prima. Quindi Apuleia spezzò una focaccia di mola salsa e ne diede metà a ciascuno affinché la mangiassero, aveva uno sgradevole sapore di sale e farina di farro che toglieva l’appetito.

Ma la parte peggiore fu il sacrificio che seguì, una caotica lotta tra Messala Corvino e un porcello urlante che non era stato adeguatamente drogato, di chi era la colpa, chi non voleva questo matrimonio? Il maiale sarebbe di sicuro fuggito se non fosse stato per lo sposo, che balzò fuori da sotto il velo e agguantò la bestia per la zampa posteriore, ridendo piano tra sé. Era esultante.

In qualche modo, il rito giunse al termine. Coloro chiamati a testimoniare e verificare l’atto di confarreatio, cinque membri dei Livii e cinque degli Ottavii, si dileguarono in fretta. Un debole grido di «Feliciter!» si levò nell’aria pesante, fetida di sangue.

Fuori, sulla Sacra Via, era in attesa una portantina, dentro la quale Livia Drusilla venne fatta entrare da alcuni uomini che reggevano delle torce, poiché la cerimonia si era protratta fino a tarda sera. Posò il capo su un morbido cuscino e abbassò le palpebre. Una lunga giornata per una donna che stava entrando nell’ottavo mese! Ce n’era forse mai stata un’altra che avesse passato un’esperienza analoga? Di certo il suo era un caso unico negli annali di Roma.

Così si appisolò, mentre la portantina sobbalzava e scricchiolava lungo la strada che saliva al Palatino, e dormiva profondamente quando le tendine si aprirono lasciando penetrare il bagliore delle torce.

«Cosa…? Dove…?» domandò confusa, mentre delle mani la aiutavano a uscire.

«Siete a casa, domina» rispose una voce femminile. «Venite con me. È pronto un bagno. Cesare vi raggiungerà più tardi. Io sono la più importante delle vostre domestiche, e il mio nome è Sofonisba.» «Sono affamata!» «Ci sarà del cibo, domina. Ma prima, un bagno» disse Sofonisba, dandole una mano a levarsi il maleodorante abito nuziale.

È un sogno, pensò Livia Drusilla, mentre veniva condotta in un’ampia stanza che conteneva un tavolo, due sedie e, spinti negli angoli, tre sdruciti e bitorzoluti divani.

Mentre si accomodava su una sedia, fece il suo ingresso Ottaviano, seguito da numerosi servitori che portavano piatti e vassoi, tovaglioli, coppe lavadita e cucchiai.

«Ho pensato di mangiare in stile rustico, seduti a tavola» disse, occupando l’altra sedia. «Se usassimo un divano, non potrei guardarti negli occhi.» I suoi occhi, dorati nel lume della lampada, brillavano misteriosamente. «Blu scuro, con piccole strie fulve. Stupefacente!» Si allungò per prenderle la mano, la baciò. «Devi essere affamata, perciò dacci dentro» disse. «Oh, questo è uno dei più grandi giorni della mia vita! Ti ho sposata, Livia Drusilla, confarreatio. Non c’è possibilità di fuga.» «Non voglio fuggire» replicò lei, addentando un uovo bollito e poi una fetta di croccante pane bianco intinta nell’olio. «Stavo davvero morendo di fame.» «Assaggia un polletto. Il cuoco l’ha spalmato di miele e acqua.» Calò il silenzio mentre lei mangiava e lui tentava di farlo, impegnato a osservarla e notando che aveva gusti raffinati e maniere squisite. E le sue mani avevano forme perfette, con dita affusolate e unghie ovali e ben curate; sembravano fluttuare quando si muovevano. Mani incantevoli, bellissime! Anelli, dovrà portare anelli stupendi.

«Una strana prima notte di nozze» notò lei quando non riuscì più a inghiottire un altro boccone. «Hai intenzione di venire a letto con me, Cesare?» Lui parve inorridito. «No, certo che no! Non riesco a pensare a niente di più ripugnante, per me come per te. Ci sarà tempo a sufficienza, piccola mia. Anni e anni.

Prima devi dare alla luce il figlio di Nerone, e ristabilirti. Quanti anni hai? Quanti ne avevi quando hai sposato Nerone?» «Ho ventun anni, Cesare. E ho sposato Nerone che ne avevo quindici.» «È disgustoso! Nessuna fanciulla dovrebbe prendere marito a quindici anni, non è romano. Diciotto è l’età giusta. Non mi stupisco che fossi tanto infelice. Ti giuro che con me non sarai infelice. Avrai tempo libero e amore.»

L’espressione di lei cambiò, divenne frustrata. «Ne avevo fin troppo di tempo libero, Cesare; questo era il mio maggiore problema. Leggere e scrivere lettere; filare, tessere… Niente che avesse importanza! Voglio un’occupazione di qualche tipo, un lavoro vero! Nerone aveva poche domestiche al suo servizio, ma l’Atrium Vestae brulicava di falegnami, stuccatori, piastrellisti, muratori, medici, dentisti… ed erano tutte donne! C’era persino un veterinario donna venuto a curare il cagnolino di Apuleia. Sapessi quanto le invidiavo!» «Spero che il cagnolino fosse una femmina» disse lui, ridendo.

«Naturalmente. Gattine e cagnette. Fanno una bella vita nell’Atrium Vestae, credo.

Tranquilla. Ma le Vestali hanno parecchio lavoro da fare, e da quel che ha detto la governante, ne sono ossessionate. Chiunque valga qualcosa deve avere un lavoro, e visto che io non ce l’ho, non valgo nulla. Ti amo, Cesare, ma cosa farò quando tu non sarai qui?» «Non resterai in ozio, questo te lo prometto. Perché pensi che abbia sposato te, tra tutte le donne? Perché ti ho guardata negli occhi e ho visto lo spirito di un’autentica compagna di lavoro. Ho bisogno di una vera assistente al mio fianco, nelle cui mani possa letteralmente affidare la mia vita. Ci sono molte questioni delle quali non ho tempo di occuparmi, questioni più adatte a una donna, e quando saremo insieme nel nostro letto, chiederò il consiglio di una donna… tu. Le donne vedono le cose in maniera diversa, e questo è importante. Tu sei colta ed estremamente intelligente, Livia Drusilla. Credimi sulla parola, intendo farti lavorare.» Adesso toccava a lei sorridere. «Come fai a sapere che possiedo tutte queste qualità? Uno sguardo ai miei occhi può suggerire ipotesi infondate.» «Ero impegnato con il tuo spirito.» «Sì, capisco.» Ottaviano si alzò di scatto, poi tornò a sedersi. «Volevo accompagnarti a stenderti su quel divano» disse, «ma per le tue ossa sarebbe più una punizione che un sollievo.

Perciò, ecco il tuo primo compito, Livia Drusilla: arreda questa basilica e rendila un luogo degno del primo uomo di Roma.» «Ma non è un lavoro da donne comprare mobili! È privilegio dell’uomo.» «Non mi interessa di chi è il privilegio, io non ho il tempo di farlo.» Immagini di stili e combinazioni di colori si affollarono nella mente della novella sposa. Era raggiante. «Quanto denaro posso spendere?» «Quanto è necessario. Roma è povera e io ho speso buona parte della mia eredità per alleviare le sue pene, ma non sono ancora indigente. Legno di tuia, criselefantino, ebano, smalti, marmo di Carrara… qualsiasi cosa ti piaccia.» All’improvviso sembrò ricordarsi di qualcosa, e balzò in piedi. «Torno tra un attimo» disse.

Quando riapparve, aveva in mano qualcosa avvolto in un panno rosso, che depose sul tavolo. «Aprilo, mia adorata moglie. È il tuo regalo di nozze.» Dentro il panno c’erano un paio di orecchini e una collana di perle color chiaro di luna, sette fili collegati a una coppia di placche d’oro che si agganciavano dietro il collo. Gli orecchini avevano ciascuno sette nappine di perle unite a una piastrina d’oro che si appoggiava al lobo, con un gancetto saldato sulla parte posteriore.

«Oh, Cesare!» mormorò lei, rapita.

«Sono meravigliosi!» Lui fece un largo sorriso, deliziato dalla sua gioia. «Siccome sono rinomato per la mia parsimonia, non ti dirò quanto costano questi gioielli, ma ho avuto fortuna. Faberio Margarita li ha appena portati a Roma. Le perle sono così ben abbinate che ritiene siano stati realizzati per una regina, Egitto o Nabatea, suppongo, poiché le perle provengono da Taprobane. Ma non hanno mai ornato un collo o delle orecchie reali, visto che sono stati rubati. Probabilmente molto tempo fa. Faberio li ha trovati a Cyprus e li ha acquistati per… Be’, non quanto li ho pagati io, ma non a buon mercato, comunque. Te ne faccio dono perché io e il vecchio Faberio crediamo che nessuno li abbia mai indossati, o apprezzati. Perciò spetta a te portarli come loro prima proprietaria, meum mel.» Livia Drusilla lasciò che Ottaviano le mettesse la collana al collo e le infilasse i gancetti nei buchi delle orecchie, poi s’alzò affinché lui potesse ammirarla, talmente piena di gioia da non riuscire a parlare. La perla a forma di fragola di Servilia impallidiva al confronto, sette interi giri di perle! La vecchia Clodia aveva una collana con due fili, ma neppure Sempronia Atratina poteva sfoggiarne più di tre.

«È ora di andare a letto» disse lui in tono vivace, prendendola per il gomito. «Hai il tuo appartamento personale, ma se ne desideri uno diverso, non so che tipo di vista preferisci, non devi fare altro che dirlo a Burgundino, il nostro domestico. Ti piace Sofonisba? È sufficiente?» «Mi sembra di vagare nei Campi Elisi» fece lei, consentendogli di guidarla. «Tanti fastidi e spese soltanto per me! Cesare, ti ho amato al primo sguardo, ma ora so che ogni giorno passato con te ti amerò un po’ di più.»