Capitolo 3

 

Cleopatra, il mento appoggiato sulla mano, osservava Cesarione chino sulle tavolette cerate con Sosigene alla sua destra, intento a controllare che cosa scriveva.

Non che il bambino ne avesse bisogno; Cesarione si confondeva di rado e non sbagliava mai. Il peso insopportabile dell’angoscia le si spostò nel petto, costringendola a deglutire dolorosamente. Guardare il figlio di Cesare era come guardare Cesare, che probabilmente a quell’età gli assomigliava come una goccia d’acqua: alto, aggraziato, capelli biondo oro, lungo naso bitorzoluto, labbra piene e beffarde con pieghe delicate agli angoli. Oh Cesare, Cesare! Come posso vivere senza di te? E ti hanno bruciato, quei barbari dei romani! Quando arriverà il mio momento, non vi sarà alcun Cesare con me nella tomba, pronto ad alzarsi e ad accompagnarmi nel Regno dei morti. Hanno messo le tue ceneri in un’urna e hanno costruito una tondeggiante mostruosità di marmo per collocarvele. Il tuo amico Caio Matio ha scelto l’epitaffio:

VENNI VIDI VICI

inciso in oro su lucida pietra nera. Ma non ho mai visto il tuo sepolcro né voglio vederlo. Ho solo un enorme grumo di dolore che non se ne va mai. Anche quando riesco a dormire, è lì a tormentare i miei sogni. Anche quando guardo tuo figlio, è lì a schernire le mie aspirazioni. Perché non ripenso mai ai momenti felici? Il lutto ha forse la tendenza a incombere sul vuoto del presente? Da quando quei romani ipocriti ti hanno assassinato, il mio mondo è ridotto in ceneri destinate a non mescolarsi mai con le tue. Pensa a questo, Cleopatra, e piangi.

Le preoccupazioni erano tante. Innanzitutto, il Nilo non tracimava. Per tre anni di fila l’acqua vivificatrice non si era allargata sui campi per bagnarli, penetrare nel terreno e ammorbidire i semi. La gente aveva cominciato a morire di fame. Poi era arrivata la peste, che era strisciata pian piano lungo il fiume dalle cataratte a Menfi, fino all’inizio del delta, per poi diffondersi nei suoi rami e nei suoi canali e infine raggiungere Alessandria.

E ho sempre preso le decisioni sbagliate, rifletté. La regina Mida su un trono d’oro ha compreso troppo tardi che il popolo non può mangiare l’oro. Nessuna quantità d’oro ha persuaso i siriani e gli arabi ad avventurarsi lungo il Nilo per prelevare i vasi di cereali che aspettavano su ogni pontile. Sono rimasti lì finché sono marciti, e poi non c’erano abbastanza schiavi per l’irrigazione a mano e i raccolti non hanno germinato. Ho guardato i tre milioni di abitanti di Alessandria e ho deciso che solo un milione avrebbe potuto sfamarsi, così ho emanato un editto che privava della cittadinanza gli ebrei e i metechi. Un editto che proibiva loro di comprare il frumento nei granai, un diritto esclusivo dei cittadini. Oh, che sommosse! E tutto per niente. La peste si è abbattuta su Alessandria e ha ucciso due milioni di persone senza distinzioni di cittadinanza. Sono morti i greci e i macedoni, coloro per cui avevo abbandonato gli ebrei e i metechi. Alla fine, vi era grano in abbondanza per i sopravvissuti, ebrei e metechi come pure greci e macedoni. Ho restituito loro la cittadinanza, ma ora mi detestano. Ho preso solo decisioni sbagliate. Senza la guida di Cesare, mi sono dimostrata una sovrana incapace.

Tra meno di due mesi mio figlio compirà sei anni e sono sterile, infeconda. Niente sorelle che Cesarione possa sposare, niente fratelli che lo sostituiscano qualora gli capiti qualcosa. Così tante notti d’amore con Cesare a Roma, eppure non sono rimasta incinta. Iside mi ha maledetta.

Apollodoro entrò di corsa, le maglie d’oro della catena d’ufficio che tintinnavano.

«Mia signora, una lettera urgente da Pitodoro di Tralle.» La mano si abbassò, il mento si sollevò. Cleopatra corrugò la fronte. «Pitodoro?

Che cosa vuole?» «Senza dubbio non oro» disse Cesarione, alzando lo sguardo dalla tavoletta e sorridendo. «È l’uomo più ricco della Provincia d’Asia.» «Pensa alle addizioni, figliolo!» lo rimproverò Sosigene.

Cleopatra si alzò dalla sedia e si avvicinò a una sezione di parete aperta dove l’illuminazione era buona. Un attento esame del sigillo di cera verde rivelò un piccolo tempio al centro e le parole FITO TRALLE lungo il bordo. Sì, sembrava autentico. Lo spezzò e srotolò la pergamena, scritta in una calligrafia da cui traspariva che nessuno scriba era stato messo a conoscenza del suo contenuto. Troppo disordinata.

 

 

«Faraone e Regina, Figlia di Amon Ra, chi ti scrive fu affezionato al divino Giulio Cesare per molti anni e rispettò la sua devozione nei tuoi confronti. Pur sapendo che i tuoi informatori ti tengono aggiornata su quanto accade a Roma e nel mondo romano, dubito che qualcuno di loro goda della fiducia di Marco Antonio. Naturalmente, saprai che lo scorso novembre Antonio ha viaggiato da Filippi a Nicomedia, dove ha incontrato molti re, principi ed etnarchi. Non ha fatto quasi nulla per cambiare la situazione in Oriente, ma ha ordinato il pagamento immediato di ventimila talenti d’argento.

L’ammontare del tributo ci ha sbalorditi tutti.

Dopo aver visitato la Galazia e la Cappadocia, è arrivato a Tarso. L’ho seguito con i duemila talenti d’argento che noi etnarchi della Provincia d’Asia eravamo riusciti a racimolare. Dove sono gli altri diciottomila? ha domandato. Credevo di essere riuscito a convincerlo che era impossibile trovare una simile somma, ma la sua risposta è stata quella cui siamo ormai abituati: versatemi altri nove anni di tributi anticipati, e vi perdonerò. Come se avessimo risparmiato dieci anni di tasse in vista di quel giorno! Si rifiutano proprio di ascoltare, questi governatori romani.

Ti chiedo scusa, grande regina, per averti tediato con i nostri problemi, e i nostri problemi non sono la ragione per cui redigo questa missiva in segreto. Ti scrivo per avvisarti che nel giro di pochissimi giorni riceverai la visita di un certo Quinto Dellio, un ometto avido e scaltro che è riuscito a conquistarsi la stima di Marco Antonio. I suoi sussurri all’orecchio di Antonio mirano a rimpinguarne il fondo di guerra, giacché il generale aspira a fare ciò che Cesare non ebbe il tempo di fare: soggiogare i Parti. La Cilicia Pedias viene rastrellata da un capo all’altro, i briganti vengono scacciati dalle loro roccaforti e i predoni arabi vengono rispediti dall’altra parte dell’Amanus. Manovre redditizie, ma non abbastanza, perciò Dellio ha suggerito ad Antonio di convocarti a Tarso e multarti di diecimila talenti d’oro per aver spalleggiato Caio Cassio.

Non vi è nulla che possa fare per aiutarti, cara e buona regina, oltre ad avvertirti che Dellio è già in cammino verso sud. Forse, sapendolo in anticipo, avrai il tempo di escogitare un piano per contrastare lui e il suo padrone.»

 

Cleopatra restituì la pergamena ad Apollodoro e prese a mordicchiarsi il labbro, gli occhi chiusi. Quinto Dellio? Un nome che non le diceva nulla, perciò non si trattava di un romano abbastanza influente da aver presenziato ai suoi ricevimenti, nemmeno a quelli più numerosi; lei non dimenticava mai un nome o il volto che lo accompagnava. Sarà stato un Vettio, un ignobile cavaliere servile e affascinante, proprio il tipo che poteva piacere a un bifolco come Marco Antonio. Quello sì che se lo ricordava! Alto e corpulento, muscoli come quelli di Ercole, spalle larghe quanto montagne e una brutta faccia il cui naso si sforzava di intersecare un mento piegato verso l’alto oltre una piccola bocca dalle labbra spesse. Le donne andavano in visibilio per lui perché si mormorava che avesse un pene gigantesco. Bel motivo per andare in visibilio! Gli uomini lo adoravano per i suoi modi schietti e cordiali e la sua fiducia in se stesso. Ma Cesare, di cui era cugino, ne era rimasto deluso. Soprattutto perché, ne era sicura, Antonio le aveva fatto visita di rado. Quando aveva assunto il controllo dell’Italia, aveva massacrato ottocento cittadini nel Foro Romano, un crimine che Cesare non era riuscito a perdonare. Poi aveva tentato di blandire i soldati di Cesare e aveva finito per fomentare un ammutinamento, spezzando il cuore al suo congiunto.

Naturalmente, gli informatori le avevano riferito che, secondo molti, Antonio aveva partecipato alla congiura per assassinare Cesare, anche se lei nutriva qualche dubbio in proposito; le poche lettere che le aveva scritto spiegavano che non aveva avuto altra scelta se non ignorare l’omicidio, giurare vendetta ai colpevoli e addirittura scusarne la condotta. E in quelle missive le aveva assicurato che appena le acque di Roma si fossero calmate, avrebbe raccomandato Cesarione al Senato come uno dei principali eredi di Cesare. Per una donna distrutta dal dolore, quelle parole erano state un balsamo. Aveva voluto crederci! Oh, no, Antonio non aveva detto che Cesarione sarebbe stato accettato dalla legge romana come erede di Cesare, ma solo che il suo diritto al trono egiziano sarebbe stato sancito dal Senato. In caso contrario, il bambino avrebbe dovuto affrontare gli stessi problemi che avevano tormentato il padre di Cleopatra, mai sicuro della sua permanenza sul trono perché Roma sosteneva che, in realtà, l’Egitto era un suo possedimento. Nemmeno lei aveva avuto grandi certezze finché Cesare era entrato nella sua vita. Ora era morto e suo nipote Caio Ottavio aveva usurpato più potere di quanto avesse mai fatto un ragazzo di diciotto anni. Con pazienza, astuzia e rapidità. All’inizio Cleopatra aveva preso in considerazione Ottaviano come possibile padre per i suoi futuri figli, ma il giovane l’aveva rifiutata in una breve lettera che la regina ricordava ancora a memoria.

Marco Antonio, dagli occhi rossastri e dai ricciuti capelli rossicci, non più simile a Cesare di quanto Ercole fosse simile ad Apollo. Ora aveva messo gli occhi sull’Egitto, ma non per corteggiare il faraone. Voleva soltanto riempire il suo fondo di guerra con le ricchezze egiziane. Be’, non sarebbe mai successo. Mai!

«Cesarione, è ora che tu prenda una boccata d’aria» disse, sbrigativa. «Sosigene, ho bisogno di te. Apollodoro, trova Cha’em e portalo qui. Voglio convocare il consiglio.» Quando Cleopatra parlava con quel tono, nessuno osava contraddirla, e meno di tutti Cesarione, che si allontanò subito, fischiando per chiamare il suo cane, un cucciolo di nome Fido.

«Leggete questa» ordinò Cleopatra, recisa, quando il consiglio si fu riunito, porgendo la pergamena a Cha’em. «Leggetela tutti.» «Se Antonio porta le sue legioni, riuscirà a saccheggiare Alessandria e Menfi» osservò Sosigene, allungando la lettera ad Apollodoro. «Dopo la peste nessuno ha la forza di resistere. E non abbiamo nemmeno i numeri per resistere. Vi sono molte statue d’oro da fondere.» Cha’em era il sommo sacerdote di Ptah, il dio creatore, ed era una figura importante nell’esistenza di Cleopatra da quando la regina aveva dieci anni. Si era avvolto il corpo tonico e abbronzato in un’abbagliante veste di lino bianco da sotto i capezzoli fino a metà polpaccio, e intorno al collo portava una complessa serie di croci, catene e medaglioni nonché il pettorale che indicava la sua posizione. «Antonio non fonderà un bel niente» dichiarò con fermezza. «Andrai a Tarso, Cleopatra, lo incontrerai laggiù.» «Come un oggetto? Come un topo? Come una vigliacca che è stata fustigata?» «No, come una sovrana potente. Come il faraone Hat shepsut, così grande che il suo successore ne distrusse i cartigli. Armata di tutti gli stratagemmi e di tutta l’astuzia dei tuoi antenati. Come Tolomeo Sotere era il fratello naturale di Alessandro Magno, tu hai il sangue di molte divinità nelle vene. Non solo Iside, Hathor e Mut, ma anche Amon Ra da due vie: dalla discendenza dei faraoni e da Alessandro Magno, che era figlio di Amon Ra e dio a sua volta.» «Capisco dove vuole andare a parare Cha’em» intervenne Sosigene con aria meditabonda. «Questo Marco Antonio non è Cesare, perciò possiamo ingannarlo.

Devi persuaderlo a perdonarti. Dopo tutto, non hai aiutato Cassio, e lui non può dimostrare che tu l’abbia fatto. Quando questo Quinto Dellio arriverà, cercherà di intimorirti. Ma tu sei il faraone, nessun tirapiedi ha il potere di intimorirti.» «Peccato che la flotta che avevi mandato ad Antonio e Ottaviano sia stata costretta a tornare indietro» disse Apollodoro.

«Oh, quel che è fatto è fatto!» sbottò Cleopatra, spazientita. Si appoggiò allo schienale, assumendo all’improvviso un’espressione pensierosa. «Nessuno può intimorire il faraone, ma… Cha’em, chiedi a Tach’a di consultare i petali di loto nel suo catino. Antonio potrebbe tornarci utile.» Sosigene apparve meravigliato. «Maestà!» «Oh, dai, Sosigene, l’Egitto è più importante di qualsiasi essere vivente! Sono stata una sovrana mediocre, privata in continuazione di Osiride! Mi interessa forse che tipo d’uomo sia Antonio? Niente affatto! Antonio ha sangue giuliano. Se il catino di Iside dice che ne ha a sufficienza, forse potrei sottrargli più di quanto lui possa sottrarre a me.» «Vado subito» disse Cha’em, alzandosi.

«Apollodoro, la chiatta fluviale di Filopatore supererà un viaggio in mare fino a Tarso in questa stagione?» Il gran ciambellano aggrottò le sopracciglia.

«Non saprei, maestà.» «Allora tirala fuori dalla rimessa e mettila in mare.» «Figlia di Amon Ra, hai molte navi!» «Ma Filopatore ne ha costruite soltanto due e quella d’altura marcì cent’anni fa. Se voglio persuadere Antonio, il mio ingresso a Tarso dev’essere qualcosa che nessun romano ha mai visto, neppure Cesare.»

Per Quinto Dellio, Alessandria era la città più splendida del mondo. Erano trascorsi sette anni dai giorni in cui Cesare l’aveva quasi rasa al suolo, e Cleopatra l’aveva resa più magnifica che mai. Tutte le ville lungo il Viale dei Re erano state restaurate, il colle di Pan torreggiava sopra la rigogliosa vegetazione della città bassa, il quartiere sacro di Serapide era stato ricostruito in stile corinzio, e dove un tempo le torri d’assedio si spostavano gemendo su e giù per il Viale dei Canopi, sontuosi templi e istituzioni pubbliche smentivano le voci sulla peste e sulla carestia. Anzi, pensò erroneamente Dellio contemplando Alessandria dalla sommità del colle di Pan, per una volta in vita sua il grande Cesare ha ingigantito il grado di devastazione che aveva provocato.

Non aveva ancora visto la regina, che, l’aveva informato con sussiego un tipo altezzoso di nome Apollodoro, si era recata sul delta per visitare le fabbriche di carta.

Così gli avevano mostrato il suo alloggio (anche quello molto sfarzoso) e l’avevano per lo più abbandonato a se stesso. Per Dellio, ciò non significava semplicemente ammirare le meraviglie della città; si era portato dietro uno scriba che prendesse appunti con un largo stilo su tavolette cerate.

Al Sema, il legato ridacchiò di gioia. «Scrivi, Lastene! “La tomba di Alessandro Magno e di una trentina di Tolemei in un’area lastricata a secco con eccellente marmo blu dalle venature verde scuro… Ventotto statue d’oro a grandezza naturale… Un Apollo di Prassitele, marmo verniciato… Quattro opere in marmo verniciato di un artista sconosciuto, a grandezza naturale… Un dipinto di Alessandro Magno a Isso realizzato da Zeuxis… Un dipinto di Tolomeo Sotere realizzato da Nicias…” Smetti di scrivere. Il resto non è altrettanto interessante.» Al Serapeum, Dellio lanciò un grido entusiasta. «Scrivi, Lastene! “Una statua di Serapide alta circa trenta piedi, scolpita da Bryaxis e verniciata da Nicias… Un gruppo eburneo delle nove Muse scolpito da Fidia… Quarantadue statue d’oro, a grandezza naturale…”.» Si fermò per raschiare un’Afrodite d’oro e fece una smorfia.

«“Alcune, se non tutte, ricoperte anziché… be’… massicce… Un auriga con cavalli in bronzo realizzato da Mirone…” Smetti di scrivere. No, aggiungi semplicemente: “Eccetera, eccetera…”. Ci sono troppe opere mediocri per catalogarle tutte.» Nell’agorà, si arrestò davanti a un’enorme scultura di quattro cavalli impennati che trainavano un carro guidato da una donna… E che donna! «Scrivi, Lastene!

“Quadriga in bronzo raffigurante forse un’auriga di nome Bilistiche…” Smetti! Qui non c’è altro che roba moderna, ottima nel suo genere ma di nessun rilievo per i collezionisti. Oh, Lastene, proseguiamo!»

Fu così che vagò per la città, lo scriba che si lasciava dietro rotoli di pergamena come una falena i suoi escrementi. Splendido, splendido! A giudicare da ciò che vedo ad Alessandria, l’Egitto possiede tesori indicibili. Ma come farò a convincere Marco Antonio che otterremo di più vendendoli come opere d’arte che fondendoli? Pensa alla tomba di Alessandro Magno!, rifletté. Un unico blocco di cristallo di rocca, trasparente quasi quanto l’acqua. Come starebbe bene nel tempio di Diana a Roma!

Che uomo piccolo e buffo era Alessandro! Mani e piedi non più grandi di quelli di un bambino, e sulla testa quella che assomigliava a lana gialla. Una figura di cera, sicuramente, non la salma autentica. Ma avrei immaginato che, trattandosi di un dio, la sua effigie fosse grande almeno quanto Antonio! Nel Sema devono esservi lastre sufficienti per rivestire il pavimento della domus di un notabile romano. Per un valore di cento talenti, forse di più. L’avorio scolpito da Fidia… mille talenti, senza dubbio.

Il Recinto reale era un tale labirinto di palazzi che rinunciò a distinguerli l’uno dall’altro, e i giardini sembravano allungarsi all’infinito. Piccole cale graziose punteggiavano la riva oltre il porto e, in lontananza, la strada rialzata dell’Heptastadion collegava l’isola di Pharos alla terraferma. E oh, il faro! L’edificio più alto del mondo, molto più alto del Colosso di Rodi. Credevo che Roma fosse bella, rifletté Dellio, poi ho visto Pergamo e l’ho giudicata più bella, ma ora che ho visto Alessandria, sono stupefatto, semplicemente stupefatto. Antonio è venuto qui circa vent’anni fa, ma non l’ho mai udito parlare di questo luogo. Troppo occupato a saltare la cavallina per rammentarlo, suppongo.

La convocazione per incontrare Cleopatra lo raggiunse il giorno dopo, il che non gli dispiacque; aveva completato la stima delle ricchezze di Alessandria e Lastene l’aveva trascritta su carta di buona qualità, in due copie.

La prima cosa che Dellio notò fu l’aria profumata, intrisa di incensi inebrianti che non aveva mai sentito; poi gli occhi presero il sopravvento sul naso, e il legato rimase a bocca aperta davanti alle pareti d’oro, al pavimento d’oro, alle statue d’oro, alle sedie e ai tavoli d’oro. Una seconda occhiata gli rivelò che l’oro era uno strato sottile come carta velina, ma la stanza brillava come il sole. Due muri erano tappezzati di dipinti che raffiguravano curiose piante e individui bidimensionali, in colori di ogni genere. Ad eccezione del porpora di Tiro. Di quello, nemmeno l’ombra.

«Tutti salutano i due faraoni, Sovrani delle Due Signore dell’Alto e del Basso Egitto, Sovrani del Falasco e dell’Ape, Figli di Amon Ra, Iside e Ptah!» tuonò il gran ciambellano, battendo il bastone d’oro per terra e producendo un suono cupo che costrinse Dellio a ricredersi sulla carta velina. Il pavimento sembrava massiccio.

Sedettero su due troni elaborati, la donna in cima alla pedana d’oro e il bimbo un gradino più in basso. Indossavano bizzarre vesti di lino bianco finemente pieghettato e portavano entrambi un’enorme acconciatura di smalto rosso intorno a un cono tubolare di smalto bianco. Oltre ai larghi collari di magnifiche gemme incastonate nell’oro, avevano bracciali, ampie cinture tempestate di pietre preziose intorno alla vita e sandali d’oro ai piedi. Avevano il volto cosparso di belletto (bianco quello della donna, rosso ruggine quello del piccino) e gli occhi attorniati da così tante linee nere e forme variopinte che guizzavano, sinistri quanti pesci muniti di zanne, come nessun occhio umano avrebbe certamente dovuto fare.

«Quinto Dellio» esordì la regina (il romano non aveva idea di cosa significasse il titolo “faraone”), «ti diamo il benvenuto in Egitto.» «Vengo come ambasciatore ufficiale dell’imperator Marco Antonio» replicò l’altro, intuendo come funzionavano le cose, «con saluti e omaggi per i troni gemelli dell’Egitto.» «Interessante» commentò Cleopatra, gli occhi che guizzavano, inquietanti.

«È tutto?» chiese il bambino, le cui pupille scintillavano più di quelle della madre.

«Mmm… Purtroppo no, Vostra Maestà. Il triumviro Marco Antonio richiede la vostra presenza a Tarso per rispondere ad alcune accuse.» «Accuse?» chiese il piccino.

«Si dice che l’Egitto abbia aiutato Caio Cassio, violando così il suo stato di amico e alleato del popolo romano.» «E questa sarebbe un’accusa?» intervenne Cleopatra.

«E anche molto grave, Vostra Maestà.» «Allora ci recheremo a Tarso per rispondervi di persona. Puoi andare, Quinto Dellio. Quando saremo pronti per partire, ti avviseremo.» Tutto qui. Niente inviti a cena, niente ricevimenti per presentarlo alla corte.

Doveva pur esserci una corte! Nessun monarca orientale era in grado di governare senza varie centinaia di adulatori che gli (o le) dicessero quanto fosse magnifico (o magnifica). Ma ecco che Apollodoro lo accompagnava fuori con decisione, a quanto pareva per abbandonarlo a se stesso.

«Il faraone salperà per Tarso» disse l’egiziano, «perciò hai due alternative, Quinto Dellio. Puoi mandare a casa i tuoi uomini via terra e viaggiare con loro oppure puoi mandare a casa i tuoi uomini via terra e salire a bordo di una delle navi reali.» Ah!, pensò il legato. Qualcuno li ha avvisati del mio arrivo. A Tarso c’è una spia.

L’udienza era uno stratagemma studiato per rimettere me e Antonio al nostro posto.

«Salperò» rispose, altezzoso.

«Saggia decisione.» Apollodoro si allontanò con un inchino e Dellio uscì ad andatura spedita per calmarsi i nervi, che erano stati messi a dura prova. Come osavano? Il colloquio non gli aveva dato l’opportunità di valutare il fascino femminile della regina e nemmeno di appurare se il bambino fosse davvero figlio di Cesare. Erano due bambole dipinte, più fredde del coso di legno che sua figlia si trascinava per tutta la casa come se fosse umano.

Il sole era cocente; forse, pensò Dellio, un bagno tra le increspature della deliziosa cala davanti al mio palazzo mi farà bene.

Non sapeva nuotare (cosa insolita per un romano), ma l’acqua alta fino alle caviglie era innocua. Scese alcuni gradini di calcare, quindi si appollaiò su un masso per slacciarsi le scarpe senatoriali color porpora.

«Hai voglia di fare una nuotata? Anch’io» disse una voce allegra, infantile ma profonda. «È il modo più divertente per sbarazzarsi di tutto questo sudiciume.» Sorpreso, Dellio si voltò e vide il re bambino, nudo ad eccezione di un perizoma, il viso ancora dipinto.

«Tu nuoti, io sguazzo» replicò.

Cesarione entrò fino alla vita, quindi si tuffò, avviandosi senza paura verso l’acqua profonda. Si immerse e riapparve con la faccia che era un curioso miscuglio di nero e rosso ruggine; poi si immerse ancora e riapparve di nuovo.

«Il belletto si scioglie nell’acqua, anche in quella salata» spiegò, strofinandosi il volto con entrambe le mani, il liquido che ora gli arrivava ai fianchi.

Ed ecco Cesare. Guardando il figlio, nessuno avrebbe potuto mettere in dubbio l’identità del padre. È questo il motivo per cui Antonio vuole presentarlo al Senato e chiedere a quest’ultimo di confermarlo re dell’Egitto? Se, a Roma, chiunque avesse conosciuto Cesare vedesse questo bambino, Cesarione raccoglierebbe clienti più rapidamente di quanto lo scafo di una nave raccolga crostacei. Marco Antonio vuole turbare Ottaviano, che sa solo scimmiottare Cesare calzando stivali dalle suole spesse ed esercitandosi a gesticolare. Cesarione è autentico; Ottaviano, una parodia. Oh, quanto sei astuto, Marco Antonio! Eliminare Ottaviano mostrando Cesare a Roma. I veterani si scioglieranno come neve al sole, e quelli sì che sono potenti.

Cleopatra, ripulita dal belletto regale grazie al metodo più ortodosso di una bacinella d’acqua tiepida, scoppiò a ridere. «Apollodoro, è meraviglioso!» esclamò, porgendo a Sosigene i documenti che aveva appena letto. «Dove li hai trovati questi?» domandò mentre l’altro li consultava, ridacchiando.

«Il suo scriba preferisce il denaro alle statue, Figlia di Amon Ra. Ne ha fatta una copia in. più e me l’ha venduta.» «Mi chiedo se Dellio si sia limitato a eseguire degli ordini. Oppure questo è solo un modo per dimostrare al suo padrone di valere il sale che ha sborsato?» «La seconda, Vostra Maestà» rispose Sosigene, asciugandosi gli occhi. «È così buffo! La statua di Serapide, verniciata da Nicias? Morì molto prima che Bryaxis versasse il bronzo nello stampo. E ha omesso l’Apollo di Prassitele nel ginnasio.

“Una scultura di scarso pregio artistico!” l’ha definita! Oh, Quinto Dellio, sei un idiota!» «Non sottovalutiamolo soltanto perché non distingue un Fidia da una copia di gesso napoletano» disse Cleopatra. «Quella lista mi dice che Antonio ha un disperato bisogno di denaro. Denaro che io, sia ben chiaro, non intendo dargli.» Cha’em entrò trotterellando, accompagnato da sua moglie.

«Tach’a, finalmente! Che cosa dice il catino riguardo ad Antonio?» Il viso liscio e bellissimo della donna restò impassibile; Tach’a era una sacerdotessa di Ptah, addestrata quasi fin dalla nascita a non tradire le sue emozioni.

«I petali di loto hanno formato un disegno che non avevo mai visto, Figlia di Ra. Per quante volte li abbia gettati nell’acqua, lo schema è rimasto sempre lo stesso. Sì, Iside approva Marco Antonio come padre dei tuoi figli, ma non sarà semplice e non accadrà a Tarso. In Egitto, soltanto in Egitto. Il suo seme è troppo diluito ed egli deve nutrirsi di succhi e frutti capaci di rafforzarlo.» «Tach’a, madre mia, se il disegno è così particolare, come puoi essere certa che sia questo il messaggio dei petali?» «Perché sono stata negli archivi sacri, faraone. Le mie letture sono soltanto le ultime in tremila anni.» «Dovrei rifiutarmi di andare a Tarso?» domandò Cleopatra a Cha’em.

«No, faraone. Le mie visioni dicono che Tarso è indispensabile. Antonio non è il dio venuto dall’Occidente, ma il suo sangue è in parte il medesimo. Sufficiente per il nostro scopo, che non è crescere un rivale per Cesarione! Ciò di cui tuo figlio ha bisogno è una sorella da sposare e alcuni fratelli che siano subordinati fedeli.» Cesarione entrò, lasciandosi dietro una scia d’acqua. «Mamma, ho appena parlato con Quinto Dellio» annunciò, buttandosi su un divano mentre Charmian, bofonchiando, correva a prendere dei teli.

«Davvero, e quando? Dove?» chiese Cleopatra, sorridendo.

Gli occhi grandi, più verdi di quelli di Cesare e privi del suo sguardo penetrante, si incresparono in un’espressione divertita. «Quando sono andato a nuotare. Stava sguazzando. Te lo immagini? Sguazzando! Mi ha detto di non saper nuotare e da quella confessione ho capito che non è mai stato un contubernalis in un esercito importante. È un soldato sedentario.» «La conversazione è stata interessante, figliolo?» «L’ho depistato, se è questo che intendi. Sospettava che qualcuno ci avesse avvertiti del suo arrivo, ma quando l’ho lasciato, ormai era certo di averci colti di sorpresa. A insospettirlo era stata la notizia che salperemo per Tarso. Così mi sono lasciato sfuggire che la fine di aprile è il periodo in cui tiriamo fuori tutte le navi dalle rimesse, le ispezioniamo alla ricerca di falle, le armiamo e addestriamo gli equipaggi.

Che fortuna!, ho detto. Pronti per partire anziché annoiarci per un’eternità a riparare navi piene di buchi.» E non ha ancora compiuto sei anni, pensò Sosigene. Questo bambino ha ricevuto la benedizione di tutti gli dèi dell’Egitto.

«Non mi piace quel “noi”» osservò Cleopatra, corrugando la fronte.

Il visetto allegro e impaziente si rabbuiò. «Mamma! Non puoi dire sul serio!

Voglio venire con te… Devo venire con te!» «Qualcuno deve governare in mia assenza, Cesarione.» «Non io! Sono troppo giovane!» «Sei abbastanza grande, e niente storie. Tu non verrai a Tarso.» Un verdetto che frantumò la tipica vulnerabilità di un bimbo di cinque anni; lo pervase un dolore inconsolabile, la sofferenza che solo un bimbo può provare all’idea di essere escluso da un’esperienza nuova e desiderata con tanta intensità. Scoppiò in un pianto convulso, ma quando sua madre si avvicinò per confortarlo, la spinse via con tanta violenza da farla barcollare e corse fuori.

«Lo supererà» disse Cleopatra, tranquilla. «Perbacco, non è forte?» Lo supererà?, si chiese Tach’a, che aveva scorto un Cesarione diverso, determinato, dibattuto e sprofondato in una dolorosa solitudine. È Cesare, non Cleopatra, e lei non riesce a comprenderlo. Non è stata la possibilità di pavoneggiarsi come un re ad accendere in lui il desiderio di andare a Tarso, bensì la possibilità di vedere posti nuovi, di placare l’irrequietezza causata dal piccolo mondo in cui vive.

Due giorni dopo, la flotta era riunita nel Grande porto, con la gigantesca nave di Filopatore ormeggiata al molo nel modesto annesso soprannominato Porto reale.

«Per tutti gli dèi!» esclamò Dellio, incredulo. «In Egitto ogni cosa è forse più grande di quanto lo sia nel resto del mondo?»

«È quello che ci piace pensare» rispose Cesarione, che per qualche misterioso motivo aveva preso l’abitudine di seguirlo dappertutto.

«È una chiatta! Si capovolgerà e affonderà!» «È una nave, non una chiatta» lo corresse Cesarione. «Le navi hanno la chiglia, le chiatte no» proseguì come un maestro, «e la chiglia della Filopatore fu ricavata da un enorme cedro del Libano. All’epoca, la Siria era un nostro possedimento. La Filopatore fu costruita a regola d’arte, con un paramezzale, le sentine e uno scafo dal fondo piatto. Ha tantissimo spazio sottocoperta e… Vedi? Entrambe le file di scalmiere sono dotate di buttafuori. Nonostante ciò, non è sbilanciata. L’albero è alto cento piedi e il capitano Agatocle ha deciso di tenere a bordo la vela latina in caso il vento sia favorevole. Vedi la polena? Quello è Filopatore che procede davanti a noi.» «Sai parecchie cose» osservò Dellio, che anche dopo quella lezione continuava a non capire granché di navi.

«Le nostre flotte salpano per l’India e Taprobane. La mamma mi ha promesso che quando sarò grande, mi porterà al Sinus Arabicus per vederle partire. Come vorrei andare con loro!» Il bimbo si irrigidì all’improvviso, preparandosi per fuggire.

«Quella è la mia balia! È assolutamente disgustoso avere una balia!» E corse via, deciso a evitare la malcapitata, che non era all’altezza del suo pargolo.

Poco dopo, un servitore andò a chiamare Quinto Dellio; era giunto il momento di salire a bordo della sua nave, che non era la Filopatore. Il romano non sapeva se esserne lieto o dispiaciuto; nonostante gli alloggi lussuosi, il vascello della regina sarebbe senz’altro rimasto molto indietro rispetto agli altri.

Anche se Dellio non lo sapeva, i maestri d’ascia di Cleopatra avevano apportato alcune modifiche all’imbarcazione, che aveva superato benissimo diverse disavventure marittime. Misurava trecentocinquanta piedi da prua a poppa e quaranta nel baglio. Lo spostamento delle due file di rematori verso i buttafuori aveva aumentato lo spazio sottocoperta, ma il faraone non poteva certo alloggiare vicino ai marinai, così quell’area era stata assegnata alle centocinquanta persone che sarebbero salpate a bordo della Filapatore, la maggior parte delle quali impazziva quasi di terrore al solo pensiero di viaggiare per mare.

Il vecchio salone a poppa era diventato il regno del faraone, abbastanza grande per un’ampia camera da letto, un secondo locale per Charmian e Iras e una sala da pranzo contenente ventun divani. La fila di colonne dai capitelli a forma di loto era ancora al suo posto e terminava davanti all’albero in una piattaforma rialzata, coperta da un tetto di piastrelle in ceramica e sostenuta da un nuovo pilastro a ogni angolo. Lì davanti vi era un salone un po’ più piccolo di quello originario affinché Sosigene e Cha’em avessero le loro stanze. E ancora più avanti, sapientemente nascosta nella prua, vi era una cucina aperta. Durante le crociere fluviali il cibo veniva per lo più preparato a riva perché il fuoco era sempre un rischio su una nave di legno. Ma in mare non vi erano rive su cui cucinare.

Cleopatra aveva portato Charmian e Iras, due donne bionde di pura discendenza macedone che erano le sue compagne sin da quando era bambina. Avevano ricevuto l’incarico di scegliere trenta ragazze che seguissero il faraone a Tarso; le fanciulle avrebbero dovuto avere un bel viso e un corpo voluttuoso, ma nessuna di loro avrebbe dovuto essere una sgualdrina. La paga ammontava a dieci dracme d’oro, una piccola fortuna, ma non era stato il denaro a farle rassegnare all’ignoto, bensì i vestiti che avrebbero indossato a Tarso: leggeri tessuti d’oro e d’argento, broccati scintillanti di fili metallici, lini trasparenti di tutti i colori dell’arcobaleno, lane così sottili da aderire alle membra come se fossero bagnate. Una dozzina di bambini stupendi e quindici altissimi barbari dal fisico statuario erano stati acquistati ai mercati degli schiavi di Pelusium. Ogni uomo in mostra aveva un gonnellino ricamato in modo da ricordare la coda di un pavone; quest’ultimo, aveva deciso Cleopatra, sarebbe stato il tema della Filopatore, e per comprare le penne di pavone era stata spesa una quantità d’oro sufficiente a far piangere Antonio.

La flotta salpò alla vela il primo giorno di maggio, la Filopatore che, sprezzante, mostrava alle altre navi la sua cuffia di poppa. Gli etesii, gli unici venti che avrebbero potuto ostacolare l’avanzata verso nord, non soffiavano in quella stagione. Una vivace brezza sud orientale gonfiava le vele della flotta, semplificando la vita ai rematori. Nessuna tempesta li costrinse a fermarsi lungo il tragitto e il pilota della Filopatore, in testa al corteo, riconobbe senza esitazione ogni promontorio della costa siriana. Si recò da Cleopatra in prossimità del Capo di Herakleia, di fronte alla punta della coda di Cipro.

«Vostra Maestà, hai due alternative» disse, inginocchiandosi.

«Ossia, Palamede?» «Continuare a rasentare la costa siriana fino al Promontorium Rhosicum, per poi attraversare la sommità del Sinus Issicus verso le foci dei grandi fiumi della Cilicia Pedias. Questo significherebbe secche e barre di sabbia… Un’andatura lenta.» «E l’altra possibilità?» «Dirigerti subito verso il mare aperto e veleggiare quasi in direzione nord ovest (cosa possibile con questo vento) finché raggiungiamo la costa della Cilicia da qualche parte vicino alla foce del Cnido.» «In questo caso quale sarebbe la differenza in termini di tempo, Palamede?» «Difficile da dire, Vostra Maestà, ma forse ben dieci giorni. I fiumi della Cilicia Pedias avranno tracimato, un ulteriore svantaggio se rasenteremo la costa. Ma devi sapere che la seconda possibilità è rischiosa. Un fortunale o un mutamento nella direzione dei venti potrebbero spedirci ovunque tra la Libia e la Grecia.» «Correremo il rischio e viaggeremo in mare aperto.» E le divinità fluviali dell’Egitto, che forse Padre Nettuno non si aspettava di veder comparire sulle vaste distese del suo regno, si dimostrarono abbastanza potenti da guidare la flotta su una rotta sicura fino alla foce del Cnido. O forse Padre Nettuno, un vero dio romano, aveva stretto un patto con i suoi fratelli egiziani. Sia come sia, il decimo giorno di maggio le navi si riunirono al largo della barra del Cnido. Non era il momento giusto per attraversarla, con il fiume gonfio che ostacolava l’accesso; ora sì che i rematori si sarebbero guadagnati la paga! Il passaggio era segnalato con chiarezza da cataste di legna tra le quali alcune chiatte lavoravano instancabilmente per dragare sabbia e fango. Nessuno dei vascelli aveva un pescaggio profondo, soprattutto la tozza Filopatore, costruita per i viaggi fluviali. Nonostante ciò, Cleopatra ordinò che le altre navi la precedessero, perché voleva concedere a Dellio il tempo di informare Antonio del suo arrivo.

Il legato trovò Antonio in preda alla noia e all’irrequietudine, ma ancora sobrio.

«Ebbene?» domandò il generale, alzando lo sguardo. Una grossa mano indicò lo scrittoio, invaso da documenti e pergamene. «Guarda qui! E sono tutti conti da pagare o cattive notizie! Ci sei riuscito? Cleopatra verrà?» «Cleopatra è qui, Antonio. Ho viaggiato a bordo della sua flotta, che in questo momento si sta ormeggiando a valle. Venti triremi, tutte militari… Nessuna opportunità commerciale, temo.» La sedia scricchiolò; alzatosi, Antonio si avvicinò alla finestra con movimenti che rammentarono a Dellio quanto potessero essere aggraziati alcuni uomini robusti.

«Dov’è? Mi auguro che tu abbia detto al capitano del porto di assegnarle gli ormeggi migliori.» «Sì, ma ci vorrà un po’ di tempo. La sua nave è lunga quanto tre antiche galee da guerra greche, perciò non la si può far scivolare tra due mercantili già ancorati. Il capitano del porto deve spostarne sette. Non è contento, ma lo farà. Ho parlato a tuo nome.» «Una nave abbastanza grande da ospitare un titano, eh? Quando la vedrò?» chiese Antonio, imbronciandosi.

«Domattina, circa un’ora prima dell’alba.» Dellio tirò un sospiro soddisfatto.

«Cleopatra è venuta senza protestare, e in pompa magna. Credo voglia fare colpo su di te.» «Allora mi assicurerò che non ci riesca. Troia presuntuosa!»

Ecco perché, quando il sole si levò sopra gli alberi a est di Tarso, Antonio, senza seguito, si avviò verso la sponda più lontana del Cnido in groppa a un cavallo grigio e avvolto in un mantello dello stesso colore. Vedere il nemico per primo era un vantaggio; l’aveva imparato guerreggiando con Cesare. Oh, com’è soave l’aria! Che cosa ci faccio in una città saccheggiata quando vi sono marce da organizzare e battaglie da combattere?, si domandò pur conoscendo la risposta. Sono rimasto per vedere se la regina d’Egitto avrebbe risposto alla mia convocazione. E quell’altra troia presuntuosa, Glafira, inizia a rimproverarmi adottando la tattica perfezionata dalle donne orientali: con la dolcezza e le lacrime, infarcite di sospiri e piagnucolii.

Oh, come mi manca Fulvia! Quando quella rimprovera un uomo, lui sì che se ne accorge. Fulvia ringhia, abbaia e ruggisce! Non disdegna neppure un ceffone, purché l’uomo non disdegni cinque unghie che gli artigliano il petto per rappresaglia.

Ah, ecco un buon punto d’osservazione! Scartò di lato e scivolò giù dal cavallo, dirigendosi verso una roccia piatta che si ergeva diversi piedi sopra la riva. Da lì avrebbe avuto una visuale perfetta della nave di Cleopatra, intenta a risalire il Cnido verso gli ormeggi. Antonio non era a più di cinquanta passi dal canale del fiume, così vicino al bordo da riuscire a distinguere un piccolo uccello sgargiante che nidificava nella grondaia di un magazzino lungo la banchina.

La Filopatore comparve strisciando su per il Cnido alla velocità di un tale che cammina spedito, lasciando Antonio a bocca aperta molto prima di essere arrivata alla sua altezza. Il generale scorse infatti una polena al centro di una nebbiosa aureola dorata e un uomo dalla pelle marrone che indossava un gonnellino bianco, un collare e una cintura d’oro e gemme nonché un’enorme acconciatura bianca e rossa. I piedi nudi sfioravano le increspature che si frangevano su entrambi i lati del rostro e la figura brandiva una lancia d’oro nella mano destra. Le polene erano diffuse, ma non così massicce o così incorporate nella prua. Quel tizio (un re dell’antichità?) era la nave e se la trascinava dietro come un mantello gonfio.

Ogni cosa pareva d’oro; il vascello era dorato dalla linea di galleggiamento fino alla punta dell’albero e ciò che non era d’oro era dipinto di blu e verde pavone, colori che luccicavano sotto una spruzzata d’oro. I tetti degli edifici in coperta erano rivestiti di piastrelle in ceramica blu e verde vivido e un’intera fila di colonne dai capitelli a forma di loto fiancheggiava il ponte. Persino i remi erano d’oro! E le pietre preziose brillavano dappertutto! Quella nave, da sola, valeva diecimila talenti!

I profumi si spandevano, le lire e i flauti suonavano e un coro cantava, il tutto gestito da mani invisibili; splendide fanciulle con vesti trasparenti lanciavano fiori da cestini d’oro e splendidi bimbi con gonnellini color pavone si appendevano ridendo alle cime candide come la neve. La vela gonfia, issata per aiutare i rematori a contrastare la corrente, era più bianca del bianco, ricamata con le teste intrecciate di due animali (un cobra dagli occhiali e un avvoltoio) e un curioso occhio che versava una lunga lacrima nera.

Le penne di pavone erano raggruppate ovunque, ma mai numerose come intorno a un’alta piattaforma d’oro davanti all’albero. Su un trono sedeva una donna avvolta in una veste di penne di pavone, la testa gravata dalla medesima corona bianca e rossa della polena. Le spalle le brillavano delle gemme di un ampio collare d’oro e una larga cintura dello stesso tipo le cingeva la vita. Incrociati sul petto, portava un bastone da pastore e un correggiato d’oro dipinto di blu lapislazzuli. Aveva il viso così truccato che era impossibile distinguerne i lineamenti; l’espressione era totalmente impenetrabile.

Il vascello gli passò così vicino da permettergli di vedere quanto fosse largo e sfarzoso; il ponte era rivestito di piastrelle in ceramica blu e verde in tinta con i tetti.

Una nave pretenziosa, una regina pretenziosa. Be’, pensò Antonio, assalito da una collera inspiegabile, le faccio vedere io chi comanda a Tarso!

Imboccò al galoppo il ponte verso la città, smontò da cavallo davanti al palazzo del governatore ed entrò chiamando a gran voce i servitori.

«Toga e littori, subito!» Così, quando l’eunuco Filo, il ciambellano della regina, andò a informare Marco Antonio dell’arrivo di Cleopatra, si sentì dire che il generale era nell’agorà, impegnato ad ascoltare le cause per conto del fiscus, e che non avrebbe potuto ricevere sua maestà fino all’indomani.

In effetti, quella era da giorni l’intenzione di Antonio; l’avviso era stato affisso formalmente nell’agorà, perciò quando prese posto nel tribunale, vide ciò che si era aspettato di vedere: cento contendenti, almeno altrettanti avvocati, varie centinaia di spettatori e diverse dozzine di venditori di bibite, spuntini, parasole e ventagli. Tarso era torrida già in maggio. Per quel motivo, la sua corte era riparata da una tenda cremisi con la scritta SPQR sulle alette frangiate disposte lungo i bordi a intervalli di qualche piede. Antonio sedeva in cima al tribunale di pietra, sulla sedia curule d’avorio, con dodici littori vestiti di cremisi su ogni lato e Lucilio a un tavolo zeppo di pergamene. L’attore più recente di quel dramma era un centurione canuto, fermo in un angolo, che aveva il petto carico di phalerae, armillae e collane metalliche e indossava una camicia di scaglie d’oro, schinieri d’oro e un elmo d’oro il cui ciuffo di crini scarlatti si allargava di lato come un ventaglio. Ma a intimorire il pubblico non erano le decorazioni per le imprese valorose che aveva compiuto, bensì lo spadone gallico che teneva tra le mani, la punta appoggiata per terra. L’arma rammentava ai cittadini di Tarso che Marco Antonio aveva l’imperium maius e poteva giustiziare chiunque per qualsiasi cosa. Se si metteva in testa di emanare un ordine di esecuzione, il centurione lo eseguiva sul posto. Non che Antonio avesse intenzione di uccidere una mosca o un ragno; gli orientali erano avvezzi a essere governati da persone che ammazzavano in maniera tanto capricciosa quanto regolare, dunque perché deluderli?

Alcune cause erano interessanti, alcune persino divertenti. Antonio le ascoltò tutte con l’efficienza e il distacco che tutti i romani parevano possedere, fossero essi membri della plebe o dell’aristocrazia. Un popolo che comprendeva la legge, il metodo, la procedura e la disciplina, anche se, rispetto a tanti altri, Antonio era meno dotato di quelle qualità tipicamente romane. Nonostante ciò, svolse il suo compito con determinazione, e talvolta con osservazioni velenose. Un’agitazione improvvisa tra la folla fece perdere l’equilibrio a un contendente proprio mentre era sul punto di cedere la parola al suo costosissimo avvocato lì accanto; Marco Antonio girò la testa, aggrottando le sopracciglia.

La moltitudine si era divisa, trasalendo di stupore, per consentire il passaggio di una piccola processione guidata da un uomo con la pelle color nocciola e il capo rasato, che portava una veste bianca e una profusione di catene d’oro intorno al collo.

Dietro di lui camminava il ciambellano Filo, abbigliato di lino blu e verde, il volto leggermente dipinto e il corpo scintillante di gemme. Ma non erano niente in confronto a ciò che li seguiva: una spaziosa portantina d’oro con il tetto di piastrelle in ceramica e ondeggianti ciuffi di penne di pavone sulle colonnine angolari. La trasportavano otto enormi uomini neri come l’uva, con la pelle della medesima sfumatura di viola. Indossavano gonnellini blu e verdi, collari e bracciali d’oro e accecanti acconciature nemes d’oro.

La regina Cleopatra attese che gli schiavi adagiassero con delicatezza la lettiga, quindi, senza aspettare che la aiutassero a scendere, sgusciò fuori con agilità e si avvicinò ai gradini del tribunale romano.

«Marco Antonio, mi hai convocata a Tarso. Eccomi qui» disse con voce chiara, eloquente.

«Non sei sulla lista delle cause di oggi, signora! Dovrai rivolgerti al mio segretario, ma ti prometto di fare in modo che il tuo nome sia il primo sull’elenco di domani» replicò Antonio con la cortesia dovuta a un monarca, ma senza deferenza.

Dentro, Cleopatra ribolliva. Come osava quello zoticone romano trattarla come chiunque altro! Era andata all’agorà con l’intento di smascherarlo per il bifolco che era e ostentare la sua immensa influenza e autorità davanti agli abitanti di Tarso, che avrebbero compreso la sua posizione e non avrebbero giudicato troppo bene Antonio per averle sputato addosso, anche se solo in senso metaforico. Quello non era il Foro e quelli non erano uomini d’affari romani (che se n’erano andati tutti, considerando la regione poco redditizia). Erano persone simili alla gente di Alessandria, sensibili alle prerogative e ai diritti dei monarchi. Vi dispiace farvi da parte per la regina d’Egitto?

No, ne sarebbero stati onorati! Si erano recati tutti al molo per ammirare la Filopatore ed erano andati all’agorà dando per scontato che le cause sarebbero state posticipate.

Senza dubbio Antonio aveva pensato che avrebbero apprezzato la sua democrazia nel dare loro la precedenza, ma non era così che funzionava il cervello orientale. Erano sgomenti e infastiditi, colmi di disapprovazione. Restando con tanta umiltà ai piedi del tribunale, Cleopatra voleva dimostrare al popolo quanto fossero arroganti i romani.

«Grazie, Marco Antonio» disse. «Se non hai impegni per cena, magari potresti raggiungermi sulla mia nave questa sera? Diciamo al crepuscolo? È più piacevole mangiare dopo che l’afa ha abbandonato l’aria.» La fissò, una scintilla di rabbia negli occhi; in qualche modo, l’aveva fatto passare dalla parte del torto, lo leggeva sui volti degli spettatori, intenti a strisciare e inchinarsi, mantenendo le distanze dal personaggio reale. A Roma l’avrebbero assalita, ma qui? Mai, a quanto pareva. Maledetta donna!

«Non ho impegni per cena» replicò, reciso. «Aspettati di vedermi al crepuscolo.» «Ti manderò la mia portantina, imperator Antonio. Per favore, sentiti libero di invitare Quinto Dellio, Lucio Poplicola, i fratelli Saxa, Marco Barbazio e altri cinquantacinque amici.» Cleopatra risalì agilmente sulla lettiga; i portantini la sollevarono e si girarono, perché quello non era un semplice divano, bensì aveva una testa e una coda affinché l’occupante fosse ben visibile.

«Procedi, Melanto» ordinò Antonio al contendente che l’arrivo della regina aveva bloccato a metà frase.

L’altro, sconcertato, si voltò con espressione impotente verso il suo costosissimo avvocato, le braccia allargate in un gesto confuso. Al che quello dimostrò la sua competenza riprendendo il discorso come se non vi fosse stata alcuna interruzione.

I servitori di Marco Antonio impiegarono un po’ di tempo per trovare una tunica abbastanza pulita da essere indossata per la cena su una nave; le toghe erano troppo ingombranti e occorreva sempre togliersele. Non erano adatti nemmeno gli stivali (le sue calzature preferite), troppo laboriosi da allacciare e slacciare. Oh, se solo avesse avuto un serto da mettersi sulla testa! Cesare si era ornato delle foglie di quercia in tutte le occasioni pubbliche, ma solo un estremo coraggio durante i combattimenti gli aveva conferito quel privilegio in gioventù. Come Pompeo Magno, per quanto fosse stato intrepido, Antonio non aveva mai conquistato una corona.

La portantina aspettava. Fingendo che fosse tutto molto divertente, il generale salì e ordinò alla sua frotta di amici, impegnati a ridere e scherzare, di camminare intorno alla lettiga. Quest’ultima suscitò ammirazione, ma non quanto i servitori, un’affascinante rarità; gli uomini neri non venivano messi in vendita nemmeno nei più ricchi e affollati mercati degli schiavi. In Italia erano così rari che gli scultori li prendevano al volo, ma reperivano per lo più donne e bambini, e quasi mai di sangue puro come i portantini di Cleopatra. La bellezza della loro pelle, l’avvenenza dei loro visi, la dignità del loro portamento erano stupefacenti. Quanto clamore avrebbero suscitato a Roma! Anche se, pensò Antonio, la regina li avrà senz’altro portati con sé quando viveva laggiù. Solo che non li ho mai visti.

La passerella, notò, era d’oro a eccezione dei parapetti, del più pregiato legno di cedro, e il ponte piastrellato era cosparso di petali di rosa che spandevano un lieve profumo quando qualcuno li calpestava. Tutti i piedistalli che sostenevano un vaso d’oro pieno di penne di pavone o un’inestimabile opera d’arte erano criselefantini, ossia di avorio delicatamente intagliato e intarsiato d’oro. Splendide fanciulle di cui si intravedevano le membra flessibili sotto vesti sottili come carta velina li accompagnarono lungo il ponte tra le colonne, fino a due grandi battenti d’oro lavorati a bassorilievo; dentro, vi era un’enorme stanza con le persiane spalancate per far entrare anche il più debole filo d’aria. Le pareti erano di cedro, gli intarsi formavano motivi magnifici ed. elaborati, il pavimento era coperto da uno spesso tappeto di petali di rosa.

Vuole farsi beffe di me!, pensò Antonio. Vuole farsi beffe di me!

Cleopatra lo aspettava, avvolta in strati di mussola trasparente i cui colori variavano dall’ambra scura dei veli sottostanti al giallo più chiaro di quelli esterni.

L’abito non era greco né romano né asiatico, ma una creazione tutta sua, con la vita alta, le gonne scampanate e il bustino così aderente da sottolineare i piccoli seni; le braccia esili erano ammorbidite da maniche vaporose che finivano in corrispondenza dei gomiti per fare spazio ai braccialetti sugli avambracci. Intorno al collo, la regina portava una catena d’oro da cui penzolava, racchiusa in una gabbia di finissimi fili d’oro, un’unica perla del colore e delle dimensioni di una fragola. Lo sguardo di Antonio ne fu subito attirato; l’uomo restò a bocca aperta, gli occhi che si alzavano verso il volto di Cleopatra, sbalorditi.

«Conosco quel ciondolo» disse.

«Sì, suppongo di sì. Molti anni fa, quando Cesare ruppe il fidanzamento di Bruto con sua figlia, lo regalò a Servilia per corromperla. Ma Giulia mori, poi morì anche Bruto, e Servilia perdette tutto il suo denaro durante la guerra civile. Il vecchio Faberius Margarita lo valutò sei milioni di sesterzi, ma quando lei si risolse a venderlo, ne chiese dieci. Che sciocca! Ne avrei pagati venti pur di averlo. Ma i dieci milioni non furono sufficienti a saldare tutti i suoi debiti, ho sentito dire. Bruto e Cassio persero la guerra, e questo la privò di una parte della sua fortuna, quindi Vatia e Lepido la ridussero sul lastrico, il che la privò del resto.» Aveva parlato in tono divertito.

«È vero che in questo periodo riceve una pensione da Attico.» «E la moglie di Cesare si è suicidata, ho saputo.» «Calpurnia? Be’, Pisone, suo padre, voleva darla in sposa a qualche arricchito disposto a sborsare una fortuna per il privilegio di andare a letto con la vedova di Cesare, ma lei si è rifiutata. Pisone e la sua nuova moglie le hanno reso la vita un inferno e Calpurnia non sopportava l’idea di abbandonare la Domus Publica. Così si è tagliata le vene.» «Povera donna. Mi è sempre piaciuta. Se è per questo, mi piaceva anche Servilia.

Quelle che detestavo erano le mogli degli uomini nuovi.» «La Terenzia di Cicerone, la Valeria Messala di Pedio, la Fabia di Irzio. Non posso darti torto» replicò Antonio con un sorriso.

Mentre parlavano, le ragazze condussero ai loro posti gli amici affascinati che il visitatore aveva portato con sé; quando ebbero finito, Cleopatra lo prese per il braccio e lo guidò fino al divano che formava il fondo della U, cedendogli il locus consularis.

«Ti dispiace se non chiamiamo un terzo compagno?» domandò.

«Per nulla.» Appena si fu accomodato, arrivarono i primi, una tale varietà di prelibatezze che alcuni famosi buongustai romani batterono le mani, estasiati. Minuscoli uccelli da mangiare con le ossa e tutto il resto, uova riempite con paste indescrivibili, gamberetti grigliati, gamberetti al vapore, gamberetti allo spiedo e cotti a fuoco vivo con funghi e capperi giganteschi, ostriche e pettini portati al galoppo dalla costa, altre cento pietanze altrettanto squisite e preparate per essere gustate con le dita. Poi arrivarono i secondi, agnelli interi arrostiti sullo spiedo, capponi, fagiani, carne di cucciolo di coccodrillo (superba, esclamarono i buongustai), stufati e brasati conditi in molti modi e interi pavoni arrosto disposti su piatti d’oro con tutte le penne ricollocate nell’ordine esatto e le code aperte a ventaglio.

«Ortensio servì il primo pavone arrosto durante un banchetto a Roma» raccontò Antonio, ridendo. «Cesare disse che aveva il sapore di un vecchio stivale dell’esercito, solo che lo stivale era più tenero.» Cleopatra ridacchiò. «Non mi meraviglia! Era contento se gli davi una manciata di ceci, lenticchie o piselli secchi cucinati con uno zampetto di maiale sotto sale. Non era certo un amante della buona cucina!» «Una volta inzuppò il pane nell’olio rancido e non se ne accorse.» «Ma tu, Marco Antonio, apprezzi il buon cibo.» «Sì, talvolta.» «Il vino viene da Chio. Non dovresti mescolarlo con l’acqua.» «Voglio restare sobrio, signora.» «Perché?» «Perché un uomo che tratta con te ha bisogno di tutte le sue facoltà mentali.» «Lo considero un complimento.» «Il tempo non ha migliorato il tuo aspetto» osservò Antonio quando arrivarono i dolci, indifferente a come una donna avrebbe potuto accettare quella notizia.

«Il mio fascino non è mai stato racchiuso nel mio aspetto» ribatté Cleopatra, tranquilla. «A Cesare piacevano la mia voce, la mia intelligenza e il mio titolo reale.

Apprezzava soprattutto il fatto che imparassi le lingue con la sua stessa facilità. Mi ha insegnato il latino, e io gli ho insegnato il demotico e l’egiziano classico.» «Il tuo latino è impeccabile.» «Quello di Cesare era tale. Ecco perché lo è anche il mio.» «Non hai portato suo figlio.» «Il mio bambino è faraone. L’ho lasciato a governare.» «A cinque anni?» «Quasi sei, anche se ha la saggezza di un sessantenne. Un bimbo meraviglioso.

Confido che manterrai la promessa e lo presenterai al Senato come erede di Cesare in Egitto? La sua permanenza in carica dev’essere indiscussa, perciò Ottaviano deve capire che Cesarione non rappresenta una minaccia. Solo un buon re cliente di sangue mezzo romano che non può essergli di alcun vantaggio a Roma. Il destino di mio figlio è in Egitto e Ottaviano deve rendersene conto.» «Ne convengo, ma i tempi non sono maturi per portare Cesarione a Roma e ratificare i nostri trattati con l’Egitto. Vi sono problemi in Italia e non posso interferire con qualunque cosa Ottaviano faccia per risolverli. Ha ereditato l’Italia in base al nostro accordo di Filippi. L’unica cosa che voglio ottenere da quel luogo sono le truppe.» «Essendo romano, non ritieni di avere una certa responsabilità per quanto accade nella penisola, Antonio?» domandò Cleopatra, corrugando la fronte. «È saggio e opportuno lasciare che l’Italia soffra così tanto per la carestia e le differenze economiche tra uomini d’affari, proprietari terrieri e veterani? Tu, Ottaviano e Lepido non avreste dovuto rimanere in Italia e risolvere prima i suoi problemi? Ottaviano è solo un ragazzo, non può avere la saggezza o l’esperienza necessarie. Perché non aiutarlo anziché ostacolarlo?» Proruppe in una risata roca e colpì il cuscino. «Nulla di tutto ciò mi avvantaggia, ma penso di continuo al caos che Cesare lasciò ad Alessandria e a come ho dovuto convincere tutti i cittadini a collaborare invece di mettere una classe contro l’altra. Ho fallito perché non mi sono resa conto che le guerre sociali sono disastrose. Cesare mi diede dei consigli, ma non sono stata abbastanza perspicace da sfruttarli. Se dovesse succedere di nuovo, tuttavia, saprei come comportarmi. E quanto avviene in Italia mi rammenta le mie tribolazioni.

Dimentica le divergenze con Ottaviano e Lepido, lavorate insieme!» «Preferirei morire che dare un briciolo d’aiuto a quel ragazzo borioso!» ribatté Antonio tra i denti.

«Il popolo è più importante di un ragazzo borioso.» «No, non è vero! Spero che l’Italia muoia di fame e farò tutto il possibile per accelerare il processo. Ecco perché tollero Sesto Pompeo e i suoi ammiragli.

Impediscono a Ottaviano di sfamare la penisola, e meno tasse pagano gli uomini d’affari, meno denaro ha Ottaviano per comprare le terre in cui sistemare i veterani.

Con i proprietari terrieri che agitano le acque, Ottaviano annegherà.» «Roma ha costruito un impero sul popolo italico da sopra il Padus giù fino alla punta del Bruttium. Non ti accorgi che, insistendo per reclutare truppe in Italia, in realtà affermi che nessun altro luogo è in grado di produrre soldati così abili? Ma se il paese muore di fame, moriranno anche loro.» «No, non è così» la contraddisse subito Antonio. «La carestia li spinge solo ad arruolarsi di nuovo. È un aiuto.» «Non per le donne che partoriscono i bambini destinati a trasformarsi in soldati così abili.» «Gli uomini vengono pagati e mandano i soldi a casa. Quelli che muoiono sono inutili: liberti greci e donne anziane.» Cleopatra, mentalmente esausta, si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi.

Conosceva bene le emozioni che conducevano ad assassinare qualcuno; suo padre aveva strangolato la sua primogenita per conservare il trono e avrebbe ucciso anche lei se Cha’em e Tach’a non l’avessero nascosta a Menfi quando era adolescente. Ma il pensiero di seminare volontariamente la carestia e le malattie tra il suo popolo le era del tutto estraneo. Quegli uomini litigiosi e appassionati possedevano una spietatezza che pareva non avere confini. Non c’era da meravigliarsi che Cesare fosse morto per mano loro. Il loro prestigio personale e familiare era più importante di intere nazioni, e in quello assomigliavano a Mitridate il Grande più di quanto volessero sentirsi dire. Se ciò significava che un membro della famiglia doveva morire, avrebbero camminato su un mare di morti. Adottavano ancora la politica di una minuscola città stato, senza capire, le sembrava, che la minuscola città stato si era tramutata nella più potente macchina militare e commerciale della storia.

Alessandro Magno aveva collezionato più conquiste, ma alla sua morte quell’impero era svanito come fumo in un cielo sterminato; i romani avevano conquistato un po’ qua e un po’ là, ma avevano consacrato tutto a un’idea di nome Roma, per la maggior gloria di quell’idea. Eppure non comprendevano che l’Italia era più importante delle faide personali. Cesare gliel’aveva ripetuto in continuazione: l’Italia e Roma erano la medesima entità. Ma Marco Antonio non sarebbe stato d’accordo.

La regina era tuttavia riuscita a capire un po’ meglio che tipo di uomo fosse il suo ospite. Ah, ma ora era troppo stanca per prolungare la serata! Vi sarebbero state altre cene, e se i suoi cuochi fossero ammattiti per inventare nuovi piatti, che impazzissero pure.

«Ti prego di scusarmi, Antonio. Vado a letto. Resta finché vuoi. Filo si prenderà cura di te.» Un attimo dopo, era sparita. Aggrottando le sopracciglia, Antonio si domandò se andarsene o rimanere e decise di andarsene. La sera successiva avrebbe dato un banchetto in onore di Cleopatra. Creaturina singolare! Come una di quelle fanciulle che affamavano il loro corpo proprio all’età in cui avrebbero dovuto mangiare. Anche se quelle erano ragazze anemiche e deboli, mentre la regina era molto forte. Mi chiedo, pensò con un’improvvisa punta di divertimento, come se la cavi Ottaviano con la figlia di Fulvia e Clodio. Quella sì che è una fanciulla affamata! Ha addosso meno carne di un moscerino.

L’invito di Cleopatra a una seconda cena giunse l’indomani, mentre Antonio si apprestava ad andare in tribunale, dove sapeva che la regina non si sarebbe ripresentata. I suoi amici erano così sazi delle prelibatezze egiziane che aveva abbreviato la colazione a base di pane e miele, arrivando all’agorà prima di quanto si aspettassero i contendenti. Una parte di lui era ancora furibonda per la piega che Cleopatra aveva dato alla discussione più seria, e non avevano affrontato l’argomento del suo presunto sostegno a Cassio. Ci sarebbero voluti uno o due giorni, ipotizzò, ma quanto aveva visto non prometteva nulla di buono, perché era palese che la regina non era intimorita.

Quando tornò al palazzo del governatore per lavarsi e rasarsi in vista dei festeggiamenti di quella sera a bordo della Filapatore, trovò Glafira ad aspettarlo.

«Non ero stata invitata ieri?» domandò con un filo di voce.

«No.» «E sono stata invitata oggi?» «No.»

«Devo forse inviare un biglietto alla regina per informarla che sono di sangue reale e che sono tua ospite qui a Tarso? Se lo facessi, estenderebbe senz’altro l’invito anche a me.» «Potresti farlo, Glafira» replicò Antonio, sentendosi allegro all’improvviso, «ma non servirebbe a niente. Fai i bagagli. Ti rispedisco a Comana domani all’alba.» Le lacrime scesero come pioggia.

«Oh, smettila di frignare, donna!» urlò Antonio. «Otterrai quello che vuoi, ma non ora. Continua a piagnucolare e forse non otterrai niente.»

Antonio accennò a Cassio solo la terza sera, durante la terza cena a bordo della Filopatore. Non capiva come i cuochi riuscissero a preparare un piatto nuovo dietro l’altro, ma i suoi amici erano smarriti in un’estasi di sapori che lasciava loro poco tempo per osservare la coppia sul lectus medius. Di certo Antonio e Cleopatra non si scambiavano profferte amorose, e poiché quell’eventualità era fuori questione, la vista di quelle splendide fanciulle era di gran lunga più eccitante, anche se alcuni ospiti mostrarono molto più interesse per i bambini.

«Domani dovresti cenare al palazzo del governatore» disse Antonio, che non si era abbuffato pur avendo mangiato bene in tutte e tre le occasioni. «Concedi ai tuoi cuochi un po’ di meritato riposo.» «Come vuoi» acconsentì la regina con indifferenza; piluccava il cibo, servendosi porzioni da uccellino.

«Ma prima che onori il mio alloggio con la tua presenza reale, Vostra Maestà, reputo opportuno chiarire la questione dell’aiuto che hai fornito a Caio Cassio.» «Aiuto? Quale aiuto?» «Quattro ottime legioni romane non ti sembrano un aiuto?» «Mio caro Marco Antonio» rispose Cleopatra, strascicando le parole in tono stanco, «quelle quattro legioni hanno marciato verso nord al comando di Aulo Allieno, che, sono stata indotta a credere, era un legato di Publio Dolabella, l’allora governatore legittimo della Siria. Poiché Alessandria era minacciata dalla peste e dalla carestia, sono stata lieta di cedere ad Allieno le quattro legioni lasciate lì da Cesare. Se ha deciso di mutar bandiera dopo aver superato il confine siriano, non è colpa mia. La flotta che ho mandato a te e a Ottaviano è naufragata durante un fortunale, ma non ho donato flotte a Caio Cassio più di quanto gli abbia donato denaro, grano o altre truppe. Ammetto che Serapione, il mio viceré di Cipro, ha inviato aiuti a Bruto e Cassio, ma sarò felice di giustiziarlo. Non ha agito su mio ordine, il che lo rende un traditore dell’Egitto. Se non sarai tu a giustiziarlo, ci penserò io sulla via del ritorno.» «Bah» grugnì Antonio, accigliandosi. Sapeva che Cleopatra aveva detto la verità, ma non era quello il suo problema; il suo problema era come travisare le parole della sua interlocutrice affinché sembrassero menzogne. «Posso produrre schiavi disposti a testimoniare che Serapione ha agito su tuo ordine.» «Spontaneamente o sotto tortura?» domandò la regina con freddezza.

«Spontaneamente.» «Per una minuscola quantità dell’oro che tu brami più di quanto facesse Mida. Dai, Antonio, siamo franchi! Sono qui perché il tuo favoloso Oriente è ridotto sul lastrico a causa di una guerra civile romana e a un tratto l’Egitto assomiglia a un’enorme gallina capace di deporre enormi uova d’oro. Be’, scordatelo!» sbottò Cleopatra.

«L’oro dell’Egitto appartiene all’Egitto, che gode della condizione di amico e alleato del popolo romano e non ha mai tradito la vostra fiducia. Se vuoi l’oro egiziano, dovrai strapparmelo con la forza, al comando di un esercito. E anche in quel caso rimarresti deluso. La piccola e patetica lista dei tesori di Alessandria compilata da Dellio è solo un uovo d’oro all’interno di un mucchio imponente. E quel mucchio è nascosto così bene che non lo troverai mai. Né otterrai quell’informazione torturando me o i miei sacerdoti, che sono gli unici a sapere dov’è.» Quello non era il discorso di una persona disposta a lasciarsi intimidire!

Cercando un lievissimo tremore nella voce di Cleopatra e una lievissima tensione nelle sue mani o nel suo corpo, Antonio non ne vide traccia. Peggio ancora, da varie affermazioni di Cesare aveva appreso che il tesoro dei Tolomei era davvero occultato con tanta astuzia da impedire ai profani di rinvenirlo. Le opere nell’elenco di Dellio avrebbero senz’altro spuntato diecimila talenti, ma gli serviva molto di più. E marciare o salpare con l’esercito alla volta di Alessandria gli sarebbe costato alcune migliaia di talenti. Oh, maledetta donna! Le minacce e le intimidazioni non la indurranno a cedere. Devo dunque adottare una tattica diversa. Cleopatra non è Glafira.

Così, il mattino dopo, di buon’ora, un messaggio informò la regina che il banchetto di quella sera sarebbe stato una festa in costume.

«Ma ti do un suggerimento» diceva il biglietto. «Se ti travestirai da Afrodite, ti accoglierò nei panni del nuovo Dioniso, il tuo compagno naturale nella celebrazione della vita.» Cleopatra si abbigliò dunque alla maniera greca, avvolgendosi in vaporosi strati di rosa e carminio. I capelli marrone topo erano pettinati come al solito, divisi in molte strisce dalla fronte alla nuca, dove era raccolta una piccola ciocca. La gente scherzava dicendo che assomigliavano alla scorza di un cantalupo e non aveva tutti i torti. Se mai una donna come Glafira avesse visto la regina con le insegne faraoniche, avrebbe detto ad Antonio che quell’acconciatura insignificante le consentiva di portare con facilità la doppia corona bianca e rossa dell’Egitto. Quella sera, tuttavia, Cleopatra indossava un corto velo decorato di lustrini e intrecciato di fiori e aveva deciso di adornarsi con petali sul collo, sul corpetto e intorno alla vita. In una mano, stringeva un pomo d’oro. L’abito non era molto elegante, ma quel particolare non disturbò Marco Antonio, non molto esperto di abbigliamento femminile. Il solo scopo per cui aveva dato quella cena “in costume” era mostrare se stesso nella luce migliore.

Rappresentando il nuovo Dioniso, era nudo dalla vita in su e da metà coscia in giù.

Si era drappeggiato le parti basse in un inconsistente pezzo di mussola viola sotto il quale un perizoma confezionato con cura rivelava la possente sacca che conteneva i suoi leggendari genitali. A quarantatré anni era ancora in splendida forma, il fisico erculeo uscito indenne da eccessi più numerosi di quelli cui la maggior parte degli uomini si abbandonava nel doppio del tempo. I polpacci e le cosce erano massicci, ma le caviglie erano snelle e i pettorali sporgevano sopra un ventre piatto e muscoloso. Solo la testa sembrava stonare, perché il collo taurino la faceva apparire troppo piccola. La frotta di fanciulle che la regina si era portata dietro lo guardò e trasalì, ardendo di desiderio.

«Perbacco, il tuo guardaroba non è molto fornito» osservò Cleopatra, indifferente.

«Dioniso non necessitava di granché. Tieni, prendi un acino» disse Antonio, porgendole il grappolo che teneva in mano.

«Tieni, prendi una mela» replicò lei, allungando il braccio.

«Sono Dioniso, non Paride. “Paride, sciagurato Paride, bello solo di aspetto!

Sempre pazzo per le donne, vile seduttore!”» citò Antonio. «Vedi? Conosco Omero.» «Brucio di ammirazione.» Cleopatra si stese sul divano; Antonio le aveva riservato il locus consularis, un gesto che i membri più conservatori della sua cerchia non avevano apprezzato. Le donne erano donne.

Antonio fece un tentativo, ma il suo abbigliamento succinto non suscitò alcuna reazione da parte della regina. Qualunque fosse lo scopo della sua vita, non era certo il lato fisico dell’amore, su questo non c’erano dubbi. Anzi, Cleopatra trascorse quasi tutta la sera a giocherellare con il pomo d’oro, che infilò in un calice colmo di vino rosato, meravigliandosi di come il blu del vetro conferisse al metallo un’impercettibile sfumatura viola, soprattutto quando mescolava il liquido con una delle sue dita ben curate.

Alla fine, disperato, Antonio puntò tutto su un unico lancio di dadi: Venere, dovevano tirare in ballo Venere. «Mi sto innamorando di te» dichiarò, accarezzandole il braccio.

La regina lo ritrasse come per scacciare un insetto fastidioso. «Gerrae!» ringhiò.

«Non sono stupidaggini!» protestò lui, indignato, alzandosi a sedere. «Mi hai stregato, Cleopatra.» «Sono state le mie ricchezze a stregarti.» «No, no! Se fossi una mendicante, non me ne importerebbe nulla!» «Gerrae! Mi scavalcheresti come se non esistessi.» «Ti dimostrerò il mio amore! Mettimi alla prova!» La risposta fu immediata. «Mia sorella Arsinoe si è rifugiata nel quartiere di Artemide a Efeso. Su di lei incombe una condanna a morte legalmente pronunciata ad Alessandria. Giustiziala, Antonio. Quando sarà morta, riposerò meglio e tu mi piacerai di più.» «Ho un’altra proposta» disse lui, il sudore che gli imperlava la fronte. «Permettimi di fare l’amore con te. Qui, subito!» Cleopatra inclinò la testa, spostando il velo di petali. A Dellio, che li osservava con attenzione dal suo divano, sembrava una fiorista alticcia decisa a vendere qualcosa.

Un occhio giallo oro chiuso, l’altro che scrutava Antonio con aria meditabonda. «Non a Tarso» dichiarò quindi, «e non finché mia sorella è in vita. Vieni in Egitto con la testa di Arsinoe e ci penserò su.» «Non posso!» esclamò Antonio, ansimando. «Ho troppo lavoro da fare! Perché credi che sia sobrio? In Italia si prepara una guerra e quel maledetto ragazzo se la cava meglio di quanto si aspettassero tutti quanti… Non posso! E come puoi chiedere la testa di tua sorella?» «Lo faccio con gusto. Lei vuole la mia da anni. Se i suoi piani andranno in porto, sposerà mio figlio, quindi mi staccherà il capo dalle spalle in un batter d’occhio. Ha puro sangue tolemaico nelle vene ed è abbastanza giovane da avere figli quando Cesarione sarà abbastanza grande. Io sono nipote di Mitridate il Grande… un’ibrida.

E mio figlio è ancora più ibrido. Per molti abitanti di Alessandria, Arsinoe rappresenta un ritorno alle giuste discendenze. Se io voglio vivere, lei deve morire.» Scivolò giù dal divano, liberandosi del velo e strappandosi corde di gigli e tuberose dal collo e dalla vita. «Grazie per la splendida festa e grazie per questo illuminante viaggio. Filopatore non si era mai divertito tanto negli ultimi cento anni. Domani io e lui salperemo per l’Egitto. Vieni a trovarmi laggiù. E passa da mia sorella a Efeso. È una tale oca. Se ti piacciono le arpìe e le gorgoni, la adorerai.»

«Forse l’hai spaventata, Antonio» commentò Dellio, apprendendo una parte di quella conversazione il mattino successivo, mentre la Filopatore immergeva i remi d’oro nell’acqua e si apprestava a partire.

«Spaventata? Quella vipera insensibile? Assurdo!» «Non pesa più di un talento, mentre tu devi pesarne più o meno quattro. Forse teme di essere schiacciata a morte.» Ridacchiò. «O di essere scopata a morte! Con te, non si può escludere nemmeno questo.» «Cacat! Non ci avevo mai pensato!» «Corteggiala con le lettere, Antonio, e continua a occuparti dei tuoi doveri di triumviro a est dell’Italia.» «Cerchi di farmi pressione, Dellio?» «No, no, certo che no!» si affrettò a rassicurarlo l’altro. «Voglio solo ricordarti che la regina d’Egitto non è più all’orizzonte, mentre altri individui e avvenimenti sì.» Antonio sgomberò lo scrittoio dalle scartoffie con un gesto così furioso che Lucilio si mise subito a quattro zampe per raccoglierle. «Sono stufo di questa vita, Dellio!

Che l’Oriente marcisca. È giunto il momento del vino e delle donne.» Dellio guardò giù, Lucilio guardò su e si scambiarono un’occhiata eloquente. «Ho un’idea migliore, Antonio» disse il primo. «Perché non sbrigare una montagna di lavoro quest’estate e poi trascorrere l’inverno ad Alessandria, alla corte della regina Cleopatra?»