Capitolo 21

 

Il re Artavasde di Armenia non poteva sconfiggere il possente esercito che Antonio inviò contro di lui, ma non si arrese docilmente e questo offrì ad Antonio alcune decenti battaglie per dare il battesimo di sangue alle reclute e portare alla massima forma i veterani. Ora che non toccava più vino, era tornato in grado di comandare una battaglia e questo riaccese anche la sua sicurezza. Cleopatra aveva ragione, il suo vero nemico era il vino. Sobrio e con una salute di ferro, riconobbe che l’anno precedente avrebbe fatto molto meglio a fermarsi a Carana con quel che restava dell’esercito, e aspettare lì gli aiuti di Cleopatra; invece aveva inflitto loro un’altra marcia di cinquecento miglia prima che ricevessero soccorso. Ma quel che era fatto, era fatto. Non aveva senso rimuginare sul passato, si disse l’Antonio ritemprato.

Tito governava la provincia d’Asia al posto di Furnio e Planco era rimasto in Siria, ma Enobarbo partecipava alla campagna, insieme a Canidio, che, come sempre, era il fidato braccio destro di Antonio. Al sicuro dentro Artaxata, l’esercito comodamente accampato, il suo umore bellicoso, cominciò a pianificare la sua mossa contro l’altro Artavasde. C’era il tempo di invadere e conquistare prima dell’inverno; l’Armenia era crollata e il suo re era prigioniero dall’inizio di luglio.

E poi, prima che potesse cominciare la sua avanzata nella Media Atropatene, Quinto Dellio era giunto ad Artaxata accompagnato da una numerosa carovana che comprendeva lo stesso re Artavasde di Media Atropatene, il suo harem, i figli, le suppellettili, un numero impressionante di tesori, inclusi un centinaio di imponenti cavalli medi e tutta l’artiglieria e le macchine da guerra che Antonio aveva perduto.

Molto compiaciuto di se stesso, non appena posò gli occhi su Antonio, Dellio mostrò la bozza dell’accordo che aveva concluso con il re Artavasde di Media.

Antonio era perplesso, la sua collera stava montando visibilmente. «Chi ti ha dato il diritto di negoziare a nome mio?» domandò.

La faccia da fauno assunse un’espressione sbigottita, gli occhi servili si spalancarono sorpresi. «Ma sei stato tu stesso, Marco Antonio! Non puoi non ricordare! Eri d’accordo con la regina Cleopatra che il metodo migliore per affrontare la Media Atropatene era di portare il suo re Artavasde dalla parte di Roma. Sei stato tu, sei stato tu, lo giuro!» Qualcosa nel suo atteggiamento convinse Antonio, ora del tutto confuso. «Non ricordo di aver dato un simile ordine» borbottò.

«Eri ancora malato» disse Dellio, asciugandosi il sudore dalla fronte. «Dev’essere stato così, perché hai dato proprio questo ordine.» «Sì, ero malato, questo lo ricordo. Che cosa è accaduto nella Media?» «Ho persuaso il re Artavasde che l’unica possibilità era di collaborare con Roma. I suoi rapporti con il re dei Parti si sono deteriorati dopo che Monase si è recato a Ecbatana per informare Fratee che i Medi si erano impossessati di tutte le tue salmerie, Monase si era aspettato di partecipare alla spartizione. A peggiorare le cose, Fraate è minacciato da nemici che hanno sangue medio per parte femminile.

Non è stato difficile per Artavasde di Media capire che tu avresti conquistato l’Armenia se lui non fosse accorso in suo aiuto. Cosa che non poteva fare, data la situazione nelle sue terre. Così ho parlato e parlato, fino a fargli capire che la sua migliore possibilità era di alleare il suo regno con Roma.» La rabbia di Antonio si spense; i ricordi cominciavano a riaffiorare. Era preoccupante, anzi, peggio, spaventoso. Quante altre decisioni, quanti ordini e dialoghi cruciali non ricordava?

«Informami dei dettagli, Dellio.» «Artavasde è venuto di persona, per ratificare la propria sincerità, con tanto di mogli e figli. Se acconsenti, desidera offrire la sua figlia Iotape, di quattro anni, in sposa al tuo figlio egiziano, Tolomeo Alessandro Elio. Altri cinque figli, compreso un maschio della sua moglie principale, saranno consegnati come ostaggi. Ci sono molti doni, dai cavalli medi a lingotti d’oro e gemme del suo regno, lapislazzulo, turchese, diaspro, corniola e cristallo di rocca. C’è anche tutta la tua artiglieria, i motori e i materiali bellici, persino l’ariete da ottanta piedi.» «Quindi tutto ciò che abbiamo perduto sono due legioni e le loro insegne.» Antonio mantenne un tono di voce neutro.

«No, le insegne sono con noi. A quanto pare Artavasde non le ha inviate subito a Ecbatana e quando stava per farlo, Monase aveva già messo Fraate contro di lui.» Sollevato, Antonio sghignazzò. «Questo certo non farà piacere al caro Ottaviano!

Ha fatto una gran cagnara a Roma per le mie quattro insegne perdute.»

L’incontro con Artavasde di Media rallegrò enormemente Antonio. Senza tante lungaggini e nessun rancore, i punti del trattato abbozzato da Dellio furono ratificati e sottoscritti con i sigilli di Roma e della Media Atropatene. Il tutto avvenne dopo che Antonio ebbe ispezionato accuratamente i doni contenuti in cinquanta carri, oro, pietre preziose, ceste di monete dei Parti, diverse ceste di gioielli squisiti. Ma forse il regalo che entusiasmò di più Antonio furono i cento poderosi cavalli, abbastanza alti e robusti da sopportare il peso di una catafratta. L’artiglieria e il materiale bellico era stato suddiviso, metà da portare in seguito a Carana con Canidio, metà da mandare in Siria. Canidio avrebbe svernato ad Artaxata con un terzo dell’esercito prima di installarsi a Carana.

Antonio si sedette per scrivere a Cleopatra ad Alessandria.

 

«Mi manchi tantissimo, mia piccola moglie, e sono ansioso di rivederti. Prima però andrò a Roma a celebrare il mio trionfo. Oh, che bottino! Almeno pari a quello di Pompeo Magno dopo aver sconfitto Mitridate. Questi regni orientali sono immersi nell’oro e nei gioielli, sebbene non contengano statue degne di Fidia o di altri greci. Una statua alta sei cubiti di Anaitis in oro massiccio è diretta a Roma per il tempio di Giove Ottimo Massimo, ed è solo una minima parte del bottino armeno.

Sarai felice di sapere che Dellio ha concluso il trattato che tanto desideravi, sì, Roma e la Media Atropatene sono alleate. Artavasde d’Armenia è mio prigioniero e parteciperà al mio corteo trionfale. È da molto tempo che un generale vittorioso non mostrava un monarca veramente reale e regnante di così elevata condizione.

Tutta Roma resterà stupita.

Mancano soltanto quindici giorni alle calende di Sestilio, ed entro breve partirò alla volta di Roma. Non appena concluso il mio trionfo, salperò per Alessandria, anche con mare d’inverno. Ci sono molte cose da organizzare, compresa una guarnigione per Artaxata. Ci lascerò Canidio e un terzo delle mie truppe. Con gli altri due terzi marcerò fino in Siria e li farò accampare intorno ad Antiochia e Damasco. La XIX Legione salperà con me alla volta di Roma per rappresentare il mio esercito nel mio trionfo, le lance e gli stendardi avvolti nel lauro. Sì, sono stato acclamato imperatore sul campo di Naxuana.

Sto molto bene, a parte dei vuoti di memoria che mi tormentano. Sai che non ricordo di aver mandato Dellio da Artavasde di Media? Devo affidarmi a te per avere conferma di altre cose quando mi verranno sottoposte all’attenzione.

Ti mando mille e mille baci, mia regina, e anelo a stringere tra le braccia il tuo corpo di scricciolo. Stai bene? Cesarione sta bene? E i nostri figli? Scrivimi ad Antiochia. Ci sarà tempo perché ti mando questa con un corriere al galoppo. Ti amo.»

 

Avendo stretto una tenera amicizia con una donna armena, Publio Canidio non era affatto dispiaciuto di svernare lì. La donna era imparentata alla lontana con la famiglia reale, parlava greco, era estremamente colta e, sebbene non più nel fiore degli anni, era molto bella.

La moglie romana di Canidio non era di origini elevate, sapeva leggere a stento e non rappresentava una vera compagnia. Climene pertanto sembrava a Canidio un dono degli dèi armeni che aveva conquistato, una persona speciale destinata a lui soltanto.

Antonio e i suoi due terzi dell’esercito partirono diretti in Siria passando da Carana; Enobarbo li accompagnò fino ai Cancelli siriani di Amanus, da dove deviò via terra per la sua provincia, la Bitinia. Soltanto Dellio, Cinna, Scauro e un nipote del trucidato Crasso continuarono per Antiochia.

Qui giunto, Antonio trovò una lettera di Cleopatra.

 

«Che cosa intendi, Antonio, con trionfo a Roma? Sei impazzito? Ti sei scordato tutto? Allora lascia che ti rinfreschi la memoria.

Mi giurasti che saresti tornato da me ad Alessandria dopo la campagna armena, insieme al bottino. Mi giurasti che avresti esposto tali spoglie ad Alessandria. Non si fece parola di un trionfo a Roma, anche se suppongo di non poterti impedire di farlo, se devi. Ma giurasti che Alessandria sarebbe venuta prima di Roma e che le spoglie sarebbero state donate a me quale regina e faraona. Che cosa devi a Roma e a Ottaviano, dimmi un po’? Lui manovra senza sosta contro di te, e per quanto riguarda me, io sono la Regina delle Bestie, la nemica di Roma. Lo ripete tutti i giorni e il popolo romano è sempre più arrabbiato. Non gli ho fatto niente, ma a sentire Ottaviano sembra che io sia Medea e Medusa insieme. E adesso vuoi tornare a Roma e da Ottavia, per ungere il fratello di tua moglie e donare il bottino così faticosamente conquistato a una nazione che lo userà per distruggermi?

Penso sinceramente che tu sia matto, Antonio, per perdonare le offese che mi vengono gettate addosso in continuazione da Ottaviano e da Roma, per volerti ingraziare i nemici dell’Egitto celebrando il tuo trionfo nella tana dei serpenti romani. Sei del tutto privo di onore, per abbandonare me, la tua più fedele alleata, amica, e moglie!, a favore di gente che dileggia entrambi, che ti deride come mio burattino, che crede che io ti abbia coperto di abiti femminili e mi pavoneggi davanti a te con l’armatura di un soldato? Dicono che sei Achille nell’harem del re Licomede, la faccia dipinta, le gonne svolazzanti. Davvero vuoi mostrarti di fronte a persone che dicono certe cose alle tue spalle?

Giurasti che saresti tornato ad Alessandria e io esigo che tu mantenga la promessa, marito! I cittadini di Alessandria e il popolo ???d'Egitto hanno visto Antonio, certo, ma non come mio consorte. Ho disertato il mio regno per venire da te in Siria, portando con me una flotta intera di beni di conforto per i tuoi soldati romani. Posso ricordarti che sono stata io a pagare quella missione caritatevole?

Oh, Antonio, non mi abbandonare! Non scaricarmi come hai fatto con tante altre donne. Dicesti di amarmi, poi mi sposasti. Non puoi scaricare me, faraona e regina.»

 

Con mani tremanti, Antonio lasciò cadere la lettera come se fosse un tizzone ardente. Il frastuono esterno della città che si ridestava filtrava dalle imposte delle finestre del suo studio di Antiochia; raccapricciato, sbigottito, Antonio fissava il brillante rettangolo di luce che riempiva una di tali aperture, di colpo assalito da brividi di freddo, nonostante il calore dell’estate siriana.

Giurai? Giurai? Perché lo direbbe, se non fosse vero? Oh, che cosa è accaduto alla mia memoria? La mia mente è diventata come il formaggio delle Alpi, piena di buchi? Mi sembra così limpida e ultimamente so che è stata lucida. Sono tornato quello di un tempo, Sì, i due vuoti di cui sono venuto a conoscenza finora avvennero a Lueke Kome e Antiochia, durante la mia convalescenza dagli effetti del vino. Le mie omissioni si limitano a quel periodo e quel periodo solamente. Che cosa feci, che cosa dissi? Che cos’altro giurai?

Si alzò e si mise a camminare, consapevole di uno scoramento, un senso di impotenza che non poteva addossare a nessuno, salvo se stesso. Nel gioioso impeto della ritrovata sicurezza, scomparse malinconia e rabbia, aveva visto con assoluta chiarezza dove dovesse condurre la sua strada, per riconquistare il proprio prestigio a Roma. Alessandria? L’Egitto? Che cos’erano se non luoghi stranieri governati da una regina straniera? Sì, lui l’amava, abbastanza da sposarla, ma non era né alessandrino né egiziano. Era romano. Ogni fibra del suo essere era romana. E quando era ad Artaxata si era convinto di poter ricucire gli strappi con Ottaviano.

Enobarbo e Canidio lo ritenevano entrambi possibile; anzi, Enobarbo aveva addirittura messo in dubbio i racconti di Cleopatra circa la presunta opera di discredito attuata da Ottaviano. Se davvero fosse così, aveva chiesto Enobarbo, come mai settecento senatori di Roma su mille erano ancora fedeli ad Antonio? Come mai i plutocrati e l’ordine equestre mantenevano ancora un legame così forte verso Antonio? Effettivamente le disposizioni da lui date in Oriente erano state messe in pratica con molta lentezza, ma ora erano in vigore, con enormi benefici per il commercio di Roma. Le casse dell’impero cominciavano a riempirsi. Questo il ragionamento di Enobarbo, confermato da Canidio.

Ora lì ad Antiochia non aveva nessuno dei due per farsi rassicurare; c’erano soltanto Dellio e un gruppo di uomini molto più giovani, nipoti e pronipoti di famosi personaggi scomparsi da tempo. Poteva fidarsi di Dellio? Non c’erano prove che dimostrassero il contrario, ma Dellio era animato dall’interesse personale e non aveva né etica né morale quando era stato mortalmente offeso, come nel caso di Ventidio e Samosata. Eppure… questo non aveva niente in comune con quella storia. Se almeno ci fosse stato Planco! Ma era andato nella Provincia d’Asia a fare visita a Tito. Non c’era nessuno a cui appellarsi, tranne Dellio. Almeno, pensò Antonio, Dellio è consapevole che ho avuto un vuoto di memoria. Potrebbe indicarmene altri.

«È vero che ho giurato di portare le spoglie della mia campagna ad Alessandria?» chiese a Dellio qualche istante più tardi.

Anche Dellio aveva ricevuto una lettera di Cleopatra, quindi sapeva come rispondere. «Sì, Marco Antonio, è così» mentì.

«Allora, per Giove, perché non me lo hai detto quando eravamo ad Artaxata, oppure durante il viaggio fin qui?» Dellio tossì impacciato. «Prima di raggiungere l’Amanus non ero in tua compagnia. Gneo Enobarbo mi disprezza.» «E dopo?» «Confesso che mi è passato di mente.» «Anche a te, eh?» «Capita a tutti.» «Quindi ho fatto quel giuramento?» «Sì.» «A quali dèi l’ho fatto?» «Tellus, Sol Indiges e Liber Pater.» Antonio sbuffò. «Ma come faceva Cleopatra a conoscerli?» «Non ne ho idea, Antonio, a parte che è stata la moglie di Cesare per diversi anni, parla latino come una romana e ha vissuto a Roma. Di sicuro ha avuto molte opportunità di sapere quali sono le divinità romane a cui giurano i romani.» «Allora sono legato. Terribilmente legato.» «Temo di sì.» «Come farò a dirlo agli altri?» «Non farlo» rispose Dellio con enfasi. «Sistema la XIX a Damasco, il clima è splendido lì, e poi informa i tuoi legati che andrai a Roma passando da Alessandria.

Senti la mancanza di tua moglie e vuoi mostrarle le spoglie di guerra.» «Questa è una menzogna.» «Credimi, Marco Antonio, è l’unico modo. Una volta raggiunta Alessandria, ci sono mille ragioni che possono impedirti di celebrare il tuo trionfo a Roma, malattia, crisi militare.» «Ma perché ho giurato!» esclamò Antonio stringendo i pugni.

«Perché te lo chiese Cleopatra e tu non eri abbastanza lucido da opporti.» Ecco! pensò Dellio, in questo modo se non altro ti ho ripagato, arpìa egiziana.

Con un sospiro Antonio si batté le mani sulle ginocchia. «Ebbene, se devo andare ad Alessandria, farò meglio a partire prima del ritorno di Planco. Lui mi farebbe più domande dei giovani Cinna e Scauro.» «Andrai via terra?» «Con tutto quel bottino, non ho scelta. Mi farò scortare dalla legione di Gerusalemme.» Antonio sghignazzò selvaggiamente. «Posso convocare Erode, per scoprire esattamente che cosa sta succedendo.» Dieci miglia al giorno in settembre, senza tregua dal sole siriano fino a fine ottobre e forse oltre; l’interminabile convoglio di carri avanzava lento verso sud da Antiochia e, all’altezza del fiume Eleutherus, passò nel territorio ora appartenente a Cleopatra.

Fu un viaggio di ottocento miglia che richiese due mesi e mezzo, con Antonio che procedeva caparbio a piedi o a cavallo a passo con la carovana, ma non del tutto oziosamente. Ogni tanto compiva escursioni per andare a visitare tutti i potentati, compresi gli ufficiali alessandrini che Cleopatra aveva messo a capo dei propri territori. In questo modo faceva credere a quanti seguivano la sua odissea con una certa perplessità che stava utilizzando il viaggio come scusa per controllare la situazione nella Siria meridionale. Gli etnarchi di Tiro e Sidone fecero le loro rimostranze, ora che erano del tutto circondati da possedimenti egiziani; Cleopatra aveva fissato delle barriere di dazio su tutte le strade che partivano da quei due grandi empori e tassava tutte le merci che uscivano per via di terra.

Il re Malco di Nabatea si spinse fino ad Accho Ptolemais per lamentarsi amaramente delle disposizioni fissate da Cleopatra riguardo ai giacimenti di bitume che Antonio le aveva dato.

«Non mi interessa che sia tua moglie, Marco Antonio» disse un Malco irato, «è una donna spregevole! Avendo scoperto che le spese generali rendono il bitume poco proficuo, ha avuto la temerarietà di rivendermi i miei giacimenti per la bellezza di duecento talenti l’anno! Che Erode è incaricato di raccogliere! Oh, non per sé, a nome della regina. È perfida, perfida!» «Che cosa ti aspetti da me?» domandò Antonio, consapevole di non poter fare niente e disprezzandosi per questo.

«Sei suo marito, e triumviro di Roma! Ordinale di restituirmi i miei giacimenti gratuitamente. Appartengono ai nabatei da tempo immemorabile.» «Mi spiace, ma non posso aiutarti» disse Antonio. «Roma non ha più il controllo dei tuoi giacimenti di bitume.»

L’altra parte coinvolta in questa situazione, Erode, fu convocato da Antonio a Joppa. Stessa sorte era toccata pure a lui; poteva riavere i suoi giardini balsamici, per duecento talenti l’anno, ma solo se raccoglieva anche i duecento talenti dal re Malco.

«È disgustoso!» esclamò rivolgendosi ad Antonio. «Disgustoso! Quella donna si merita di essere fustigata. Tu sei suo marito, devi punirla!» «Se fossi tu suo marito, Erode, di sicuro l’avresti già fustigata» disse Antonio, ammirato dall’astuzia di Cleopatra nel tenere acceso l’odio tra Erode e Malco. «I romani non frustano le mogli, temo, né puoi venire a lamentarti con me. Io ho ceduto i giardini balsamici di Gerico alla regina Cleopatra, quindi devi vedertela con lei.»

«Le donne!» rispose infuriato Erode.

«Questo mi porta ad altre cose diverse dai balsami» dichiarò Antonio con la voce di un governatore romano, «che però hanno a che fare con le donne. Mi è giunta voce che hai nominato un sadduceo di nome Ananeel come sommo sacerdote degli ebrei non appena tu sei salito sul trono. Se non sbaglio, però, tua suocera, la regina Alessandra, voleva quel posto per suo figlio Aristobulo di sedici anni. Non è così?» «Sì!» sibilò Erode con la massima malignità. «E, guarda caso, chi è l’amica più cara di Alessandra? Ma Cleopatra, è ovvio! Quelle due hanno cospirato contro di me, sapendo che sono troppo nuovo su questo trono per fare ciò che mi piacerebbe tanto, assassinare quella vecchia ficcanaso di Alessandra. Oh, è stata molto svelta a ingraziarsi Cleopatra! Una garanzia a vita! Ma ti chiedo, un sommo sacerdote di sedici anni? Ridicolo! E poi lui è asmoneo, non sadduceo. È stata la prima mossa di Alessandra nel suo abile gioco per riprendersi il mio trono per suo figlio.» Erode protese le mani. «Ti giuro, Marco Antonio, ho dovuto fare i salti mortali per tenere a bada i parenti di mia moglie.» «Però poi ti sei piegato ai desideri di tua suocera, a quanto ho saputo.» «Sì, sì, lo scorso anno ho nominato Aristobulo sommo sacerdote. Non che la cosa sia servita granché a lui o a sua madre.» Erode assunse l’espressione di un prigioniero ingiustamente condannato. «Alessandra e Cleopatra ordirono una congiura per dare l’impressione che Aristobulo fosse in pericolo di vita, tutte sciocchezze! Lui doveva fuggire da Gerusalemme e dalla Giudea e rifugiarsi in Egitto. Dopo qualche tempo sarebbe dovuto tornare con un esercito per usurpare il mio trono, il trono che mi hai dato tu!» «Ho sentito qualcosa al riguardo» disse Antonio cauto.

«Or dunque, ben lungi dal vero che il giovane Aristobulo accettasse di buon grado il mio invito a fare una scampagnata.» Erode sospirò con aria afflitta. «Venne tutta la famiglia, compresa Alessandra, sua figlia mia moglie, la mia amatissima madre, un’allegra comitiva, te lo assicuro. Scegliemmo un bel punto dove il fiume si allarga a formare una pozza, molto profonda in alcuni punti, ma niente affatto pericolosa se non si è troppo avventurosi. Aristobulo fu troppo avventuroso, volle nuotare senza esserne capace.» Le spalle carnose salirono e scesero. «Devo aggiungere altro?

Doveva essere finito in una buca, perché d’un tratto spuntava dall’acqua solo la sua testa e lui si mise a gridare aiuto. Molte tra le guardie si tuffarono per soccorrerlo, ma era troppo tardi. Era annegato.» Antonio considerò la storia, sapendo che Cleopatra lo avrebbe interrogato in proposito al suo ritorno. Sapeva benissimo che era stato Erode a provocare la morte «accidentale», ma grazie agli dèi non c’erano prove per dimostrarlo. Le donne, davvero! Questo viaggio verso sud stava rivelando molti risvolti sconosciuti di Cleopatra, non come persona, ma come sovrana. Avida di espandersi, avida di dominio, abile nel seminare inimicizia tra i suoi nemici, disposta persino a diventare amica di una regina vedova il cui marito e i cui figli avevano guerreggiato contro Roma. E com’era stata brava a manovrare anche lui, Antonio, per ottenere ciò che voleva.

«Non vedo come un annegamento accidentale possa essere imputato a te, Erode, soprattutto se, come hai detto, è successo tutto sotto gli occhi della madre del ragazzo e di tutta la famiglia.» «Cleopatra mi voleva processare e giustiziare, giusto?» «Era scontenta, questo sì. Ma visto che io e te non ci siamo, ehm, incrociati a Laodicea, dove avrei potuto reagire in maniera diversa, non ho trovato prove che inducano a pensare a una tua responsabilità nell’accaduto. Inoltre, la nomina del sommo sacerdote spetta a te. Puoi chiamare chi ti pare. Ma posso chiederti di non trasformarlo in un incarico a vita?» «Splendido!» esclamò Erode raggiante. «Anzi, non mi limiterò a questo. Terrò le sacre regalie in mio possesso e le presterò al sommo sacerdote tutte le volte che la legge di Mosè richiede che le indossi. Si dice che siano magiche, pertanto non voglio che se ne vada tra la gente tutto vestito e agiti gli animi contro di me. Te lo giuro, Antonio, non cederò il mio trono! Quando vedi Cleopatra, diglielo.» «Ti garantisco che Roma non approverà nessuna rinascita asmonea in Giudea» dichiarò Antonio. «La casa reale asmonea ha portato soltanto guai, puoi chiederlo a chiunque dall’ultimo Aulo Gabinio in giù.»

Il convoglio proseguì il suo cammino, che si fece particolarmente arduo per Antonio superata Gaza; da lì la strada si inoltrava in un territorio arido che rendeva assai difficile dissetare molte centinaia di buoi. Non era più possibile continuare lungo la costa a causa del delta del Nilo, una distesa di paludi e corsi d’acqua insuperabili che si estendeva per centocinquanta miglia. L’unica via di terra per Alessandria passava a sud da Menfi all’apice del delta e poi verso nord lungo il ramo canopico del Nilo.

Per la fine di novembre il viaggio era finalmente concluso. Antonio entrò nella città più grande del mondo attraverso la Porta del Sole all’estremità orientale del viale Canopico, dove un’orda di ufficiali in fermento prese in custodia i carri e li condusse ai recinti in riva al lago Mareotis. Antonio invece proseguì fino al Recinto reale. La legione Gerusalemme aveva già ripreso la marcia verso la Giudea; Antonio doveva contare sul fatto che la paura per Cleopatra impedisse a chiunque di mettere le mani sui tesori contenuti sui carri.

Lei non era venuta ad accoglierlo alla Porta del Sole, fatto che dimostrava senza ombra di dubbio che era contrariata. L’unica persona che avesse più agenti di Ottaviano era Cleopatra, si diceva Antonio mentre raggiungeva la reggia. Era chiaro che fosse al corrente di tutto ciò che lui aveva fatto.

«Apollodoro, caro vecchio senza palle» disse alla vista dell’alto ciambellano, «dove si trova l’ombrosa Vostra Maestà?» «Nel suo salottino, Marco Antonio. Che piacere rivedervi!» Antonio gettò il mantello in terra con un ghigno e si apprestò ad affrontare la leonessa nella sua tana.

«Che cosa volevi fare sottoponendo i miei satrapi a interrogatori e circa la loro condotta in territori che non rivestono più alcun interesse per Roma?» gli domandò lei.

«Che benvenuto» osservò lui, gettandosi su una sedia. «Ubbidisco ai miei ordini, mantengo il voto fatto, portandoti il mio bottino di guerra qui ad Alessandria e tutto quello che ottengo in cambio è una domanda malevola. Ti avverto, Cleopatra, sei andata troppo oltre. Per ottocento miglia ho assistito alle tue macchinazioni, il tuo dominio su popoli che non sono egizi, fai giustiziare, imprigionare, istituisci dazi per raccogliere tasse alle quali non hai diritto, metti i re l’uno contro l’altro, semini discordia, non è forse ora di ricordare che hai bisogno di me più di quanto io ne abbia di te?» La sua faccia raggelò, un lampo di terrore le passò nello sguardo; per un lungo momento non disse niente, mentre si sforzava di assumere un’espressione che lo rabbonisse.

«Sono sobrio» disse lui prima che lei ritrovasse la parola, «e Marco Antonio lucido e in forma non è il servo tremante che diventa quando il vino annebbia la sua facoltà di pensare. Dall’ultima volta che ti ho visto le mie labbra non hanno assaggiato neppure un goccio di vino. Ho combattuto una guerra vittoriosa contro un infido nemico. Ho riconquistato la fiducia in me stesso. E ho ritrovato molte ragioni che mi inducono, in qualità di triumviro d’Oriente e massimo rappresentate di Roma in Oriente, a deplorare le attività dell’Egitto in Oriente. Ti sei intromessa nelle attività dei possedimenti romani, di re clienti al servizio di Roma. Tuonando come uno Zeus in miniatura, sbandierando il tuo potere come se avessi un esercito di un quarto di milione di uomini e il genio di Caio Giulio Cesare all’apice dalla sua forza.» Riprese fiato, gli occhi che lampeggiavano rossi e pieni di rabbia. «Laddove è vero che, senza di me non sei niente. Non hai esercito. Non sei un genio. Tant’è che riesco a vedere ogni minima differenza tra di te ed Erode di Giudea. Siete entrambi avidi, crudeli e astuti come ratti. Ma in questo momento, Cleopatra, nutro più rispetto e simpatia per Erode che per te. Se non altro Erode è un selvaggio spudorato che non indossa nessuna maschera di bellezza. Mentre tu un giorno ti atteggi a seduttrice, un altro a dea del soccorso, e poi a tiranna, a insaziabile divoratrice, a ladra e dopo, oh!, ritorni a un travestimento più dolce. Smettila qui e subito, mi hai capito?» Lei aveva trovato l’espressione giusta: la sofferenza. Lacrime silenziose le rigavano le guance, mentre le mani si agitavano strette l’una nell’altra.

Lui sorrise in apparenza sincero. «Oh, Cleopatra! Non sai fare di meglio? Solo lacrime? Ho avuto altre cinque mogli prima di te, quindi non sono estraneo alle lacrime. L’arma più efficace di una donna, o almeno questo è ciò che le fanno credere. Ebbene, sul Marco Antonio sobrio non hanno più effetto dell’acqua che gocciola sul granito: impiegano mille anni per scavare un solco ed è più tempo di quanto sia concesso persino alle divinità sulla terra. Ti rendo noto che esigo da te che tu restituisca gratuitamente a Erode i giardini balsamici e a Marco i giacimenti di bitume. Chiuderai tutte le barriere di dazio intorno a Tiro e Sidone e i tuoi amministratori nei territori che ti ho venduto smetteranno di applicare la legge egiziana. È stato detto loro che non hanno alcun diritto di giustiziare o imprigionare se così non è stabilito da un prefetto romano. Come tutti gli altri re clienti pagherai il tributo a Roma e limiterai le tue attività future all’Egitto vero e proprio. Siamo d’accordo, signora?»

Lei aveva smesso di piangere, era in collera. Eppure non la poteva mostrare a questo Marco Antonio.

«Allora? Stai cercando di trovare il modo per convincermi a bere un calice di vino?» la derise lui, inebriato dalla sensazione di poter conquistare il mondo ora che aveva trovato il coraggio di affrontare Cleopatra. «Provaci pure, mia cara. Non ce la farai. Ho fatto come l’equipaggio di Ulisse, mi sono tappato le orecchie per non sentire il tuo canto di sirena. E se credi di essere come Circe, non riuscirai a trasformarmi di nuovo in un maiale che grufola nel porcile creato da te.» «Sono contenta di vederti» mormorò lei, la rabbia svanita. «Ti amo, Antonio. Ti amo molto. E hai ragione tu, ho ecceduto nel mio mandato. Sarà fatto tutto come desideri tu, lo giuro solennemente.» «Per Tellus, Sol Indiges e Liber Pater?» «No, per Iside che piange il suo defunto Osiride.» Lui tese le braccia. «Allora vieni a darmi un bacio.» Lei si alzò per farlo, ma prima che potesse raggiungere la sedia di Antonio, Cesarione piombò nella stanza.

«Marco Antonio!» esclamò il ragazzo, correndo ad abbracciarlo mentre lui si alzava. «Oh, Marco Antonio, è stupendo! Nessuno mi aveva informato del tuo arrivo, finché non ho incontrato Apollodoro.» Antonio condusse Cesarione da una parte e lo guardò, stupefatto. «Per Giove, potresti essere Cesare!» osservò, baciando Cesarione sulle guance. «Sei diventato un uomo.» «Sono contento che qualcuno lo noti. Mia madre si rifiuta di farlo.

«Ebbene, le madri odiano veder crescere i figli. Devi perdonarla, Cesarione. Stai bene, vedo. Regni di più ultimamente?» «Un pochino di più. Sto lavorando sugli aspetti pratici di una distribuzione gratuita di grano per i poveri di Alessandria. E poi instaurerò un medimnus mensile sovvenzionato.» «Ottimo! Fammi vedere.» Uscirono insieme, quasi alla stessa altezza, da quanto Cesarione era cresciuto di statura. Non sarebbe mai stato un Ercole come Antonio, ma sarebbe stato più alto, pensò Cleopatra rimasta sola guardandoli uscire.

La mente in fermento, andò verso la finestra che dava sul mare, il Loro Mare, e tale sarebbe rimasto, se suo marito c’entrava qualcosa. Si era mossa troppo precipitosamente, ora se ne rendeva conto. Ma era stata convinta che Antonio sarebbe ricaduto nel vizio del vino. Invece non dava segno di volerlo fare. Se non avesse osservato personalmente le sue azioni nel sud della Siria, sarebbe stato più malleabile; invece quelle iniziative lo avevano infuriato, stimolando in lui il desiderio maschile di essere la metà dominante in un matrimonio. Quel viscido verme di Erode! Che cosa aveva detto ad Antonio per indignarlo così? E Malco, e le città gemelle della Fenicia? I rapporti che le avevano inviato i suoi agenti non erano accurati, perché nessuno aveva indicato gli ordini di Antonio riguardo ai suoi possedimenti, né accennato ai suoi colloqui con Malco, Erode, Sidone o Tiro.

Oh, se aveva ragione! Senza di lui, lei non era niente. Nessun esercito, nessun genio come soldato o governante. Ora più che in passato, si rendeva conto che il suo primo, e forse unico, compito era di dissuadere Antonio dalla sua fedeltà verso Roma. Tutto nasceva da lì.

Non sono, si disse mentre cominciava a camminare, il mostro che ha descritto lui.

Sono un monarca che il destino ha posto in una situazione di potenziale potere in un momento in cui posso ottenere l’autonomia completa, riconquistare i territori perduti dell’Egitto, essere una grande figura sulla scena mondiale. Le mie ambizioni non sono neppure per me stessa! Sono tutte per mio figlio. Il figlio di Cesare. Erede non soltanto del nome di Cesare, immortalato già nel suo titolo, Tolomeo XV Cesare, faraone e re. Deve realizzare la sua promessa, ma è troppo presto! Devo lottare per dieci anni ancora, per proteggere lui e il suo destino. Non ho tempo da perdere ad amare altre persone, persone come Marco Antonio. Lui se n’è accorto; i lunghi mesi di assenza hanno allentato i vincoli con cui l’avevo incatenato a me. Che fare? Che fare?

Quando Antonio tornò da lei, allegro, amorevole, ansioso di andare a letto, lei aveva scelto la linea di condotta da seguire. Ovvero di circuire Antonio, di fargli capire che Ottaviano non gli avrebbe mai permesso di diventare l’indiscusso primo uomo di Roma, e quindi, che senso aveva continuare a corteggiare Roma? Doveva convincerlo, da sobrio e in possesso del proprio autocontrollo, che l’unico modo per governare Roma da solo era di muovere guerra contro l’ostacolo Ottaviano.

Il suo primo passo fu di organizzare la sfilata di Antonio per le strade di Alessandria il più possibile simile a un trionfo romano. L’impresa risultò più facile perché l’unico romano di rango che lui aveva portato con sé era Quinto Dellio, da lei reclutato per sviare le facoltà analitiche di Antonio dalla forma di un trionfo romano.

Dopo tutto non aveva legioni con sé, neppure una coorte di truppe romane. Non ci sarebbero stati carri da parata, decise, soltanto grandi carri piatti tirati da buoi con ghirlande, dove sarebbero state montate impalcature per esporre questo o quel tesoro requisito. Per Antonio non ci sarebbe stato neppure niente che somigliasse anche vagamente all’antico carro a quattro ruote di un trionfatore romano: avrebbe indossato l’armatura e l’elmo faraonico e avrebbe guidato lui stesso un carro faraonico a due ruote. Né ci sarebbe stato uno schiavo a reggere sopra la sua testa una corona d’alloro e a sussurrargli all’orecchio che era un semplice mortale. L’alloro non c’entrava proprio niente. In Egitto, spiegò, non crescevano vere piante di alloro.

La parte più difficile fu di convincere Antonio che re Artavasde di Armenia dovesse essere messo in catene d’oro e condotto come prigioniero dietro un mulo; nei trionfi romani, i prigionieri di rango sufficiente a prendere parte al corteo erano rivestiti dei loro abiti più regali e camminavano come uomini liberi. Antonio acconsenti alle catene, convinto che togliessero qualsiasi riferimento a un trionfo romano.

Ma non aveva tenuto conto di Quinto Dellio, incaricato da Cleopatra di scrivere una lettera indirizzata a Poplicola a Roma per seminare discordia.

 

«Che scandalo, Lucio! Alla fine la Regina delle Bestie ha prevalso. Marco Antonio ha trionfato ad Alessandria invece che a Roma. Oh, c’erano delle differenze, ma nessuna degna di nota. Mi vedo perciò costretto a scrivere tutte le somiglianze. Sebbene egli affermi che il bottino sia maggiore di quello che

Pompeo Magno riportò da Mitridate, la verità è che, pur essendo ricco, non lo è altrettanto. Ciononostante, appartiene a Roma e non ad Antonio. Il quale, al termine della sua sfilata per gli ampi viali di Alessandria in mezzo all’assordante clamore di migliaia e migliaia di voci, entrò nel tempio di Serapide e dedicò le spoglie… a Serapide! Sì, rimarranno ad Alessandria, proprietà della sua regina e del re fanciullo. A proposito, Poplicola, Cesarione è l’immagine del divo Giulio Cesare, quindi non oso pensare a che cosa potrebbe succedere a Ottaviano se Cesarione fosse visto in Italia, per non dire poi a Roma.

Ci sono molte prove dell’intervento della Regina delle Bestie. Il re Artavasde d'Armenia era condotto in catene, te lo immagini? E poi, al termine della sfilata, è stato imprigionato, anziché strangolato. Per niente un’usanza romana.

Antonio non ha speso neppure una parola sulle catene o la vita risparmiata. È il suo burattino, Poplicola, il suo schiavo. Posso solo pensare che lei lo droghi, che i suoi sacerdoti creino pozioni che io e te, semplici romani, non possiamo neppure immaginare.

Lascio a te decidere quanto di tutto questo vada diffuso, temo che Ottaviano ne approfitterà al punto da dichiarare guerra al suo collega triumviro.»

 

Ecco! pensò Dellio posando la penna. Questo sarebbe bastato per indurre Poplicola a riferire almeno una parte della storia, di sicuro abbastanza da filtrare fino a Ottaviano. Gli dà le munizioni, ma esonera Antonio. Se quello che lei vuole è la guerra, alla fine guerra sarà. Ma sarà una guerra che, una volta che Antonio l’avrà vinta, gli permetterà di recuperare la sua posizione a Roma e di ristabilire senza fatica il suo predominio incontrastato. Per quanto riguarda la regina d’Egitto, finirà nell’oblìo. So che Antonio è ben lungi dall’essere suo schiavo; è perfettamente in possesso di tutte le sue facoltà.

Dellio non aveva l’intelligenza per fiutare le ambizioni più segrete di Cleopatra, né per riconoscere le profondità della sottigliezza di Ottaviano. Servitore prezzolato della Corona Doppia, faceva ciò che gli veniva richiesto senza fare domande.

Prima di trovare un messaggero e una nave per spedire la sua breve missiva a Roma, vi aggiunse un poscritto preoccupante.

 

«Oh, Poplicola, le cose vanno di male in peggio! Profondamente deluso, Antonio ha appena partecipato a una cerimonia al ginnasio di Alessandria, più grande dell’agorà da quando Alessandria è stata ricostruita, e quindi luogo di tutte le assemblee pubbliche. All’interno del ginnasio era stato eretto un enorme podio, con cinque troni su diversi livelli. In cima, un trono. Subito sotto, un altro trono. Più in basso tre troni da bambini. Su quello più alto era assiso Cesarione, con tutte le regalìe faraoniche. Le ho viste spesso, ma te le descriverò brevemente. un affare rosso e bianco diviso in due parti sulla testa, molto grande e molto pesante, è chiamata la Corona Doppia. Un abito di lino bianco a pieghe, un ampio collare di gemme e oro intorno a collo e spalle, una spessa cintura d’oro incastonata di pietre preziose, molti braccialetti, cavigliere, anelli sulle dita di mani e piedi. I palmi delle mani e le piante dei piedi decorati con l’henné: Incredibile. La faraona, Cleopatra, era seduta sul secondo trono. Stesse regalìe, tranne per l’abito, di filo d’oro, che le copriva anche i seni. Sul gradino inferiore a lei, erano seduti i tre figli che aveva dato ad Antonio. Tolomeo Alessandro Elio era vestito come il re dei Parti: tiara, cerchi d’oro al collo, casacca e gonna di pizzo prezioso. La sorella, Cleopatra Selene, era a metà tra il faraonico e il greco: era seduta al centro. Sull’altro lato stava seduto un bambino che non aveva ancora compiuto tre anni, abbigliato come un re macedone. un copricapo porpora dalla tesa ampia con il diadema fissato alla corona, clamide porpora, tunica porpora, gambali porpora.

La folla era numerosissima e assiepava il ginnasio, che si dice contenga fino a centomila persone, anche se, conoscendo il Circo Massimo, ho qualche dubbio.

Erano state erette delle gradinate e all’inizio Cleopatra e i quattro figli erano ai piedi della pedana, mentre Marco Antonio da solo faceva il suo ingresso in groppa a uno splendido cavallo medio, un pomellato grigio con muso, criniera e coda nere. I finimenti erano di cuoio tinto porpora con borchie e frange dorate, ma almeno l’armatura dorata era in stile romano. Aggiungo che io, suo legato, ero seduto a poca distanza, con un’ottima visuale sulla scena. Antonio prese per mano Cesarione e lo guidò su per il podio fino al trono più alto, dove lo fece sedere. La folla proruppe in esclamazioni di giubilo. Una volta sistemato il ragazzo, Antonio lo baciò su entrambe le guance, poi si alzò e proclamò a gran voce che, con l’autorità di Roma, nominava Cesarione re dei re, sovrano del mondo. La folla impazzì. Poi portò Cleopatra al suo trono e la fece sedere. Fu proclamata regina dei re, sovrana d’Egitto, Siria, le isole dell’Egeo, Creta, Rodi, la Cilicia tutta e la Cappadocia. Alessandro Elio (la sua minuscola fidanzata era appollaiata sul gradino accanto a lui) fu proclamato re d’Oriente, tutto ciò che si trovava a est dell’Eufrate e a sud del Caucaso. Cleopatra Selene fu proclamata regina di Cirenaica e Cipro, e il piccolo Tolomeo Filadelfo re di Macedonia, Grecia, Tracia e le terre intorno al mare Eusino. Ho nominato l’Epiro? Gli fu assegnato anche quello.

Per tutto il tempo Antonio si comportò in maniera solenne, come se credesse veramente a ciò che stava facendo, anche se in seguito mi disse che aveva voluto soltanto accontentare le insistenze di Cleopatra. E pensare che una buona parte delle terre nominate appartengono a Roma o ai Parti. È stato incredibile assistere alla proclamazione di queste cinque persone a sovrani su luoghi che non possono governare.

Oh, ma gli alessandrini lo trovarono sensazionale! Mi è capitato di rado di sentire simili esclamazioni di giubilo. Al termine della cerimonia di incoronazione, i cinque monarchi scesero dal piedistallo e salirono su una specie di carro, un semplice veicolo senza sponde con cinque troni sopra. Aggiungo che l’Egitto deve nuotare nell’oro, perché i dieci troni usati erano tutti d’oro massiccio, e incastonati con così tante gemme da luccicare più di una puttana romana coperta di perline di vetro. Questo carro, tirato da dieci cavalli medi, un carico così lieve da non farli strangolare, sfilò per il viale dei Re, quindi imboccò il viale Canopico e concluse il suo viaggio al Serapeum, dove il sommo sacerdote, un uomo di nome Cha’em, celebrò un rito religioso. La gente banchettò su diecimila enormi tavoli letteralmente grondanti cibo, una cosa mai vista prima, a quanto ho capito, e voluta da Antonio. Il parapiglia era persino peggiore di quello di una festa pubblica romana.

I due avvenimenti, il «trionfo» di Antonio e la donazione del mondo a Cleopatra e ai suoi figli, mi hanno stordito, Poplicola. Ho soprannominato il secondo Le Donazioni. Povero Antonio! Ti giuro che ormai è prigioniero nelle grinfie di quella donna.

Lascio di nuovo alla tua discrezione decidere fino a che punto divulgare queste notizie, ma è ovvio che Ottaviano avrà le sue spie, così non credo che potrai mantenere il segreto molto a lungo. Se sai che cosa c’è in ballo, potrai avere l’occasione di lottare.»

 

La lettera partì per Roma; Dellio si stabilì nel suo delizioso palazzotto all’interno del Recinto reale, per passare l’inverno insieme ad Antonio, Cleopatra e i bambini.

Antonio e Cesarione erano grandi amici e facevano sempre tutto insieme, dalla caccia ai coccodrilli o agli ippopotami lungo il Nilo, alle esercitazioni belliche, alle corse con i carri nell’ippodromo, alle nuotate in mare. Per quanto Cleopatra si sforzasse, non le riuscì di indurre Antonio a toccare il vino; egli si rifiutava di berne anche un sorso soltanto, ammettendo francamente che, se l’avesse assaggiato, ci sarebbe ricaduto. Il fatto che non si fidasse di lei era dimostrato dal modo in cui annusava il contenuto del proprio calice, per assicurarsi che fosse davvero soltanto acqua.

Cesarione notava tutto questo e soffriva. Da solo tra loro due, vedeva entrambe le parti. Sapeva che sua madre faceva di tutto per raggiungere non i propri scopi, bensì quelli del figlio, e Antonio, per quanto molto innamorato di lei, resisteva strenuamente ai suoi tentativi di distogliere la sua attenzione da Roma. Il problema, rifletteva il ragazzo, era che lui non era affatto sicuro di desiderare ciò che sua madre voleva per lui: non aveva alcun senso del destino, sebbene suo padre l’avesse avuto e anche sua madre lo possedesse. Fino a quel momento la sua esperienza del mondo gli diceva che c’era tanto lavoro da compiere solo ad Alessandria e in Egitto, che non gli sarebbe bastata tutta la vita per riuscirci, anche se fosse campato fino a cent’anni.

Stranamente somigliava molto di più a Ottaviano che a Cesare, perché ambiva ad avere esattamente ciò che aveva fino nei minimi dettagli e rifuggiva l’idea di caricarsi sulle spalle ulteriori fardelli che gli avrebbero impedito di fare bene alcunché. Sua madre non era altrettanto riluttante, e come poteva? Nata e cresciuta in un covo di vipere come Tolomeo Aulete, la sua idea di sovranità era di lasciare il lavoro spicciolo dell’amministrazione quotidiana agli altri, i quali più che mostrare autentico talento erano solo abili sicofanti.

Sapeva bene quali fossero i limiti della madre. Sapeva anche perché cercasse di privare Antonio della sua romanità, della sua indipendenza e della sua capacità di giudizio. Soltanto il dominio del mondo l’avrebbe soddisfatta, e vedeva in Roma il suo nemico. E a ragione: una potenza tanto consolidata come Roma, non avrebbe ceduto senza combattere. Oh, se solo fosse stato più grande! Allora avrebbe potuto affrontare Cleopatra davvero come suo pari e informarla senza esitazioni che ciò che lei desiderava per lui non era ciò che lui voleva. Invece così finora non le aveva detto niente dei propri sentimenti, perché sapeva che lei avrebbe ignorato le sue opinioni, considerandole quelle di un ragazzino. Ma lui non era un ragazzino, non lo era mai stato! Dotato della precoce intelligenza di suo padre e di una posizione sovrana fin dalla primissima infanzia, aveva lappato alla conoscenza come un cane moribondo a una pozza di sangue, se non altro perché amava imparare. Ogni fatto veniva immagazzinato, archiviato per essere immediatamente disponibile quando necessario e, una volta assimilata una quantità di informazioni sufficienti su un dato argomento, per analizzare. Ma non era innamorato del potere, e non sapeva se fosse stato lo stesso anche per suo padre. A volte sospettava di sì; Cesare era assurto alle vette dell’Olimpo perché, se non l’avesse fatto, sarebbe stato esiliato e privato di qualunque citazione negli annali di Roma. Un destino che Cesare non poteva tollerare. Ma non si era sforzato granché di vivere, Cesarione lo intuiva. Il mio tata, che ricordo così chiaramente da quando ero un lattante; il suo viso, il suo corpo, alto e forte, mi balzano davanti agli occhi continuamente. Il mio tata, che mi manca da morire. Antonio è un uomo meraviglioso, ma non è Cesare. Ho bisogno del mio tata, per farmi consigliare, e non posso averlo.

Pieno di ardore, andò a cercare Cleopatra, per dirle ciò che provava, ma finì come si era immaginato. Lei rise di lui, gli pizzicò la guancia, lo baciò teneramente e gli disse di correre via a fare le cose dei ragazzi della sua età. Ferito, isolato, senza nessuno a cui potersi rivolgere, si allontanò ancora di più mentalmente da Cleopatra e cominciò a non partecipare più ai pasti. Il fatto di potersi rivolgere ad Antonio non gli venne proprio in mente: lo vedeva come preda di Cleopatra, non pensava che la sua reazione potesse essere diversa da quella di lei. Le assenze per i pasti aumentarono proporzionalmente al crescente e spietato atteggiamento di Cleopatra verso il marito, che veniva tiranneggiato da lei più come un figlio che come un socio nelle sue imprese.

Naturalmente c’erano anche momenti felici, che a volte si protraevano per qualche tempo: in gennaio la regina tirò fuori la Filopatore e navigò lungo il Nilo fino alla Prima Cataratta, anche se non era la stagione giusta per controllare il livello del nilometro; per Cesarione fu un viaggio stupendo. Lo aveva già compiuto in passato, quando era più piccolo; adesso era abbastanza grande da apprezzare ogni aspetto di quell’esperienza, dalla propria divinità alla semplicità della vita lungo il maestoso corso d’acqua. Ciò che vide fu archiviato nella sua mente; in seguito, quando sarebbe stato propriamente faraone, avrebbe dato a quella gente una vita migliore. Dietro sue insistenze, fecero tappa a Copto, dove presero la strada carovaniera fino a Myos Hormus sul Sinus Arabicus; lui avrebbe voluto proseguire oltre, fino a raggiungere Berenice, ma Cleopatra si rifiutò. Le flotte mercantili egiziane salpavano da Myos Hormus e Berenice verso l’India e Taprobane, per poi ritornare cariche di spezie, peperone, perle d’acqua, zaffiri, rubini. Qui erano ormeggiate anche le flotte destinate al Corno d’Africa, che portavano avorio, cassia, mirra e incenso dalla costa africana doppiando il Corno. Navigli speciali portavano a casa oro e gioielli spediti via terra fino al Sinus dall’Etiopia e la Nubia; il territorio era troppo impervio e il fiume troppo impetuoso e interrotto da rapide e cataratte per essere navigato.

Durante il viaggio di ritorno, portati dalla corrente, sostarono a Menfi, entrarono nel santuario di Ptah e visitarono le gallerie del tesoro che si ramificavano per un lungo tratto verso l’area delle piramidi. Cesarione e Antonio non le avevano mai viste prima e Cha’em fu molto attento a non mostrare ad Antonio dove si trovasse l’accesso; fu condotto bendato e lo trovò molto divertente finché, tolta la benda, si trovò davanti alle ricchezze dell’Egitto. Per Cesarione fu una sorpresa persino maggiore; non riusciva ancora a capacitarsi di tutto quello che c’era e per il resto del viaggio rimase meravigliato dalla parsimonia della madre. Avrebbe potuto rimpinzare tutta la popolazione di Alessandria e poi si preoccupava della patetica distribuzione di grano ai poveri che lui aveva in mente.

«Non la capisco» mormorò ad Antonio, mentre la Filopatore entrava nel Porto reale.

Le sue parole fecero scoppiare Antonio in una fragorosa risata.