Capitolo 8
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Quando il corteo giunse a Roma, Marco Antonio era ormai di ottimo umore.
L’accoglienza della gente che si affollava lungo il ciglio della strada era stata straordinaria per tutta la durata del viaggio, al punto che iniziava a chiedersi se Ottaviano non avesse esagerato un po’ con la storia che era diventato impopolare.
Sospetto che si accentuò quando tutti i senatori presenti a Roma in quei giorni si precipitarono con tutte le insegne della loro carica ad accogliere non Ottaviano, bensì lui. Il fatto era che non poteva averne la certezza; era stato fin troppo evidente che Roma e l’Italia intera avevano tirato un sospiro di sollievo quando lo spettro della guerra civile si era allontanato. Forse era stato il trattato di Brundisium a far tornare dalla sua parte i suoi sostenitori di una volta. Se se ne fosse andato in giro in incognito per l’Italia e per Roma un mese prima, forse avrebbe sentito parlare male di sé dai cittadini delusi. In quel momento, tuttavia, non poteva che oscillare tra il dubbio e l’esaltazione, in egual misura, maledicendo Ottaviano sottovoce e solo di rado.
La prospettiva di sposare la sorella di Ottaviano non lo preoccupava, e contribuiva anzi a farlo sentire di buon umore. Anche se non avrebbe mai preso in considerazione da solo l’idea di prenderla in moglie, Ottavia gli era sempre piaciuta, la trovava fisicamente attraente ed era stato persino invidioso della fortuna del suo amico Marcello quando l’aveva sposata. Da Ottaviano aveva appreso che aveva preso con sé Antillo e Iullo dopo la morte di Fulvia, il che aveva rafforzato in lui l’impressione che fosse buona quanto suo fratello era cattivo. Succedeva spesso nelle famiglie: bastava paragonare lui con Caio e Lucio. Avevano tutti il fisico della gens Antonia, ma nel caso di Caio era sfigurata da un’accentuata zoppìa e nel caso di Lucio dalla calvizie. Solo lui aveva ereditato l’intelligenza della gens Giulia. Essendo un uomo che spargeva il proprio seme con liberalità, Antonio amava quelli dei suoi figli che conosceva, e aveva appena avuto una brillante idea per Antonia Minore, per la quale provava una certa, sbrigativa pietà. In effetti, arrivando a Roma pensò ai suoi figli molto più di quanto non facesse di solito, perché lì trovò ad attenderlo una lettera di Cleopatra.
«Mio diletto Antonio, sono le idi di sestile, e il tempo è così bello che vorrei fossi qui a godertelo insieme a me… e con Cesarione, che ti manda il suo affetto e i migliori auguri. Sta crescendo in fretta, e frequentare degli uomini romani (soprattutto tu) gli è stato di gran beneficio. Al momento sta leggendo Polibio, dopo aver abbandonato la lettera di Cornelia, madre dei Gracchi, perché non ci sono guerre né avvenimenti eccitanti. Naturalmente conosce a menadito i libri di suo padre.
Non so in quale parte del mondo ti troverai quando questa mia lettera ti raggiungerà, ma sono certa che prima o poi la riceverai. Corre voce che tu sia ad Atene, o a Efeso, e persino a Roma, ma non importa. Voglio solo ringraziarti per aver dato a Cesarione un fratello e una sorella. Sì, ho partorito due gemelli! È una cosa che capita spesso nella tua famiglia? Nella mia è la prima volta, e io ne sono deliziata, ovviamente. In un solo colpo hai garantito la successione e procurato una moglie a Cesarione. Non c’è da meravigliarsi che la piena del Nilo abbia raggiunto i Cubiti della Prosperità!»
Come mi conosce bene, pensò tra sé Antonio. Sa che non amo leggere lettere troppo lunghe e quindi le scrive corte. Bene bene. Ho fatto il mio dovere splendidamente: addirittura due in un colpo. Ma per lei sono semplicemente strumenti per esaltare l’importanza di Cesarione. La sua passione per il figlio di Cesare non ha limiti.
E si accinse a risponderle.
«Cara Cleopatra, che notizie strepitose! Non uno, ma addirittura due piccoli Antonii che seguiranno il fratello maggiore Cesarione come i miei fratelli seguivano me. Sto per sposare la sorella di Ottaviano, Ottavia, una donna in gamba e anche molto bella. L’hai mai incontrata, quando sei stata a Roma?
Questo risolve almeno temporaneamente le mie difficoltà con Ottaviano e ha pacificato il Paese, che così non dovrà affrontare una guerra civile. Né, stando a quel che dice Mecenate, lo farà Ottaviano. Il che significa che potrei marciare su Roma e schiacciare Ottaviano, se non fosse che i soldati fanno parte di un complotto nazionale per scongiurare la guerra civile. I miei non combatteranno contro i suoi, e viceversa. E senza truppe disposte a combattere, un generale è impotente come un eunuco in un harem. A proposito di potenza, prima o poi dobbiamo rotolarci ancora tra i papiri. Se mi annoierò, verrò a farti visita ad Alessandria per godermi un po’ di vera vita.»
Ecco fatto. Antonio fece gocciolare un po’ di ceralacca rossa in fondo al foglio di carta fanniana e vi impresse il proprio anello a sigillo, che recava la scritta Hercules Invictus al centro, e IMP. M. ANT. TRI tutto intorno al bordo. L’aveva fatto fare dopo quell’incontro che si era tenuto nella Gallia Cisalpina, su un’isoletta del fiume Reno.
Gli sarebbe piaciuto moltissimo poter anteporre a M. ANT. l’abbreviazione DIV. per Divus, ma non era probabile che avrebbe potuto farlo finché Ottaviano era vivo.
Ovviamente aveva dovuto fare un giro alla domus Hortensia per la festa dei suoi uomini, prima del matrimonio, e aveva trovato la compiacenza di Ottaviano così irritante che non era riuscito a trattenersi dal proferire parole piuttosto velenose.
«Che ne pensi di Salvidieno?» domandò al suo ospite. Nel sentire quel nome Ottaviano lo fissò come inebetito. Sono sempre più convinto che abbia davvero un informatore segreto che gli propina delle solenni stronzate, pensò Antonio.
«Il migliore degli uomini!» esclamò Ottaviano. «Se la sta cavando assai bene nella Gallia Transalpina. Non appena potrà farne a meno, avrai le tue cinque legioni. I
Bellovaci ci stanno creando parecchi problemi.» «Oh, questo lo so. Che sciocco sei, Ottaviano» replicò con aria sprezzante Antonio.
«Il migliore degli uomini sta negoziando con me per cambiare parte nella nostra nonguerra, ci prova praticamente da quando è giunto nella Gallia Transalpina.»
L’espressione di Ottaviano non tradì nulla, né stupore né orrore; persino quando si era lanciato in quell’elogio di Salvidieno i suoi occhi non avevano lasciato trapelare nulla. Lo facevano mai?, si chiese Antonio, incapace di ricordare un’occasione in cui era successo il contrario. Dai suoi occhi non si capisce mai che cosa sta realmente pensando. Si limitano a… guardare. Osservano il comportamento di ciascuno, compreso lui stesso, come se loro e la mente che sta dietro di loro si trovassero a venti passi di distanza dal suo corpo. Come possono due occhi essere al tempo stesso così luminosi e così opachi?
Ottaviano rispose quasi con diffidenza. «Hai riflettuto sul fatto che il suo è un comportamento sedizioso, Antonio?» «Dipende da come la guardi. Cambiare alleato passando da un romano che occupa una posizione di prestigio a un altro romano di uguale livello può essere considerato un tradimento, ma non è sedizioso. Comunque, se tale condotta è volta a sobillare la guerra civile tra due pari grado, si può certamente considerare tradimento» precisò Antonio, che si stava divertendo parecchio.
«Hai qualche prova tangibile che suggerisca che Salvidieno debba essere processato per maiestas?» «Talenti di prove concrete.» «Se te lo chiedessero, saresti disposto a presentare le tue prove in giudizio?» «Naturalmente» replicò Antonio fingendo di essere sorpreso. «È il mio dovere nei confronti di un compagno triumviro. Se fosse condannato, dovresti fare a meno di un ottimo generale… che fortuna per me, vero? Se ci fosse la guerra civile, intendo.
Perché non lo arruolerei nel mio esercito, Ottaviano, e nemmeno lo vorrei come mio legato. Sei stato tu a dire che i traditori si possono usare, ma che non bisogna fidarsi di loro, o è stato il tuo divino padre?» «Chi l’ha detto non ha importanza. Salvidieno deve andarsene.» «Nel senso che deve attraversare lo Stige o soltanto andare in esilio per sempre?» «Deve attraversare lo Stige. Dopo essere stato processato dal Senato, direi. Non nei comitia… sono troppo pubblici. In Senato, a porte chiuse.» «Ottima idea! Ma difficile da mettere in pratica, per te. Dovrai mandare Agrippa nella Gallia Transalpina, ora che fa ufficialmente parte del tuo Triumvirato. Se fosse mia, avrei potuto mandarci uno qualunque dei miei generali, Pollione, per esempio.
Ora potrò spedire Pollione a sostituire Censorino in Macedonia, e Ventidio a tenere a bada Labieno e Pacoro finché non potrò occuparmi dei Parti di persona» disse Antonio, rigirando il coltello nella piaga.
«Non c’è assolutamente nulla che ti impedisca di farlo subito» ribatté caustico Ottaviano. «Hai forse paura di allontanarti troppo da me, dall’Italia e da Sesto Pompeo, in quest’ordine?» «Ho ottime ragioni per voler stare vicino a tutti e tre!» «Non hai nessuna ragione, invece» sbottò Ottaviano. «Io non combatterò contro di te per nessun motivo, anche se attaccherò Sesto Pompeo non appena sarò in grado di farlo.» «Il patto che abbiamo stipulato te lo vieta.» «Me lo vieta un corno! Sesto Pompeo è stato pubblicamente dichiarato un nemico, sulle tavolette è stato scritto che è un hostis, una legge che anche tu hai contribuito a stendere, ricordi? Non è più il governatore della Sicilia o di qualunque altro posto: è un pirata. E in qualità di curator annonae di Roma, è mio preciso dovere sconfiggerlo. Impedisce il libero scambio di grano.» Preso in contropiede dalla mancanza di timore dimostrata da Ottaviano, Antonio decise di por fine alla conversazione, ammesso che così si potesse definire. «Buona fortuna» gli augurò ironico, e si avviò verso Paolo Lepido per verificare la notizia che Lepido, il fratello del triumviro, stesse per sposare la figlia di Scribonia, Cornelia. Se è vero, è convinto di essere furbo, pensò Antonio, ma oltre a una cospicua dote lei non gli servirà per avanzare di un solo gradino nella carriera. Ottaviano divorzierà da Scribonia non appena avrà sconfitto Sesto, il che significa che dovrò assicurarmi che quel giorno non arrivi mai. Da’ a Ottaviano una sola grande vittoria, e tutta l’Italia l’adorerà. Possibile che quel vermiciattolo si renda conto che l’unico motivo per cui non mi allontano dall’Italia è per tenere vivo davanti agli occhi dei romani il nome di Marco Antonio? Dev’essere per forza così… Ottaviano intanto si era avvicinato ad Agrippa. «Siamo di nuovo nei guai» gli disse in tono triste. «Antonio mi ha appena detto che il nostro caro Salvidieno è in contatto con lui da mesi e si prepara a cambiare alleati.» I suoi occhi grigi si incupirono.
«Confesso che è stato un brutto colpo. Non credevo che Salvidieno fosse così sciocco.» «Per lui è una mossa ovvia, Cesare. Ha i capelli rossi ed è di Piceno: quando mai quegli uomini sono stati affidabili? Muore dalla voglia di diventare un pesce più grosso in un mare più grande.» «Significa che dovrò mandare te a governare la Gallia Transalpina.» Agrippa lo fissò, sbalordito. «Cesare, no!» «Chi altri c’è? E significa anche che non potrò muovere contro Sesto Pompeo, almeno non nell’immediato. La fortuna è con Antonio, come al solito.» «Posso visitare i cantieri navali tra Cosa e Genua durante il viaggio, ma da Genua fino a Placentia dovrò prendere la Via Emilia Scauri: non c’è tempo di navigare sottocosta per tutto il tragitto. Cesare, Cesare, ci vorranno due anni prima che possa tornare a casa, se dovrò fare le cose come si deve!» «Certo che devi fare tutto per bene. Non voglio altre sollevazioni tra i Comati, e credo che il divo Giulio abbia sbagliato a permettere ai druidi di andare avanti con le loro faccende. Sembra non facciano altro che fomentare il malcontento.» «Sono d’accordo.» Il viso di Agrippa si illuminò. «Mi è venuta un’idea su come si potrebbero tenere sotto controllo i Belgi.» «Quale?» volle sapere Ottaviano, incuriosito.
«Stanziare orde di Germani Ubii sulla riva gallica del Reno. Tutte le tribù, dai Nervii ai Treveri, saranno così occupate a ricacciare i Germani sulla loro sponda del fiume che non avranno tempo di ribellarsi.» E aggiunse con un pizzico di malinconia: «Mi piacerebbe imitare il divo Giulio ed entrare nella Germania!» Ottaviano scoppiò a ridere. «Agrippa, se vuoi dare una lezione agli Svevi, sono certo che ci riuscirai. D’altra parte, abbiamo bisogno degli Ubii, e dunque perché non dare loro delle terre migliori? Sono la miglior cavalleria che Roma abbia mai messo in campo. Tutto quello che posso dire, amico mio, è che sono molto contento che tu abbia scelto me. Potrei tollerare la perdita di centinaia di Salvidieni, ma non potrei mai sopportare di perdere un solo Marco Agrippa.» Agrippa si illuminò e protese impulsivamente un braccio per afferrare l’avambraccio di Ottaviano. Lui sapeva che sarebbe stato un uomo di Cesare fino alla morte, ma era contento quando Cesare dava prova di essersene reso conto con le parole o con i fatti. «Cosa ancor più importante, di chi ti servirai mentre io sarò in servizio nella Gallia Transalpina?» «Di Statilio Tauro, naturalmente. E Sabino, immagino. E poi Calvino, non occorre nemmeno dirlo. Cornelio Gallo è intelligente e affidabile quando non sta combattendo con un poema. Carino in Spagna.» «Appoggiati pure a Calvino» replicò Agrippa.
Come Scribonia, Ottavia non considerava giusto vestirsi di rosso e zafferano per le nozze. Poiché aveva buon gusto, scelse un colore che le si addiceva, un turchese pallido, e insieme all’abito graziosamente drappeggiato indossò la splendida collana e gli orecchini che Antonio le aveva regalato quando si erano incontrati a casa del defunto Marcello Minore il giorno prima della cerimonia.
«Oh, Antonio, che bella!» aveva esclamato, osservando estasiata i gioielli. D’oro massiccio, la collana aveva la foggia di uno stretto collare ed era incastonata di purissime turchesi lucidate. «Neppure una macchia più scura guasta l’azzurro delle pietre.» «Le ho scelte pensando al colore dei tuoi occhi» le aveva confidato Antonio, compiaciuto della sua palese delizia. «Cleopatra mi diede quella collana per Fulvia.» Ottavia non aveva distolto lo sguardo e non aveva permesso alla minima ombra di turbare la radiosità dello sguardo. «Sono davvero bellissime» aveva detto, alzandosi in punta di piedi per dargli un bacio sulla guancia. «Le indosserò domani.» «Immagino» aveva proseguito Antonio. con singolare mancanza di tatto, «che non rispondessero alle esigenze di Cleopatra per quanto riguarda i gioielli… riceve un sacco di regali. Quindi si potrebbe dire che mi ha dato quelli scartati. Non ho ricevuto nemmeno una briciola del suo denaro» aveva concluso con amarezza: «È una vera… ops, scusa.» Ottavia gli aveva sorriso come faceva con il piccolo Marcello quando non si comportava bene. «Puoi essere irriverente quanto ti pare, Antonio. Non sono più una timida verginella.» «Non ti dispiace sposarmi?» le aveva chiesto lui, pensando di doverlo fare.
«Ti amo con tutto il cuore da molti anni» aveva risposto Ottavia, senza nemmeno cercare di nascondere le proprie emozioni. L’istinto le suggeriva che ad Antonio piaceva essere amato, e che la sua reazione lo avrebbe predisposto a ricambiare i suoi sentimenti, cosa che lei desiderava disperatamente.
«Non lo avrei mai immaginato» aveva sussurrato lui, sbalordito.
«Certo che no! Ero la moglie di Marcello, e non avrei mai infranto i miei voti.
L’amore che nutrivo per te era una cosa che apparteneva soltanto a me, separata da tutto il resto e molto privata.» Antonio aveva sentito una familiare contrazione allo stomaco, la reazione viscerale che gli diceva che si stava innamorando. E la dea Fortuna era dalla sua parte anche in quella vicenda. L’indomani Ottavia sarebbe stata sua. Non doveva nemmeno preoccuparsi che potesse guardare un altro, visto che aveva guardato soltanto lui durante i sette anni di matrimonio con Marcello Minore. Non che si fosse mai dovuto preoccupare di questo con le precedenti mogli: tutte e tre gli erano state fedeli. Ma la quarta era il fior fiore. Intelligente, raffinata ed elegante, apparteneva alla gens Giulia, era una principessa della Repubblica. Un uomo avrebbe dovuto essere morto per non lasciarsi conquistare da lei.
Chinando il capo, l’aveva baciata sulla bocca, improvvisamente affamato di lei. Il bacio era stato ricambiato con passione, ma prima che potesse travolgerla lei lo aveva interrotto e si era allontanata.
«Domani» aveva detto. «Adesso vieni a vedere i tuoi figli.» La stanza in cui lo aveva condotto non era molto grande, e a una prima occhiata sembrava sovraffollata di bambini. Il suo occhio di soldato ne aveva notati sei che camminavano e uno che si agitava in una culla. Un’adorabile bimba bionda di circa due anni aveva dato un calcio negli stinchi a un bel bambino scuro che poteva averne cinque. Lui le aveva prontamente restituito uno schiaffo che l’aveva mandata a sedere sul pavimento con un tonfo che si era sentito distintamente prima che partisse un coro di urla.
«Mamma, mamma!» «Se fai male a qualcuno, Marcia, devi aspettarti che reagisca nello stesso modo» aveva detto Ottavia non senza una sfumatura di dolcezza. «E adesso smettetela di fare tutto questo chiasso o vi sculaccio per aver iniziato una cosa che non siete in grado di finire.» Gli altri quattro, tre che avevano all’incirca l’età del maschietto e una appena più giovane della pestifera biondina, avevano fissato Antonio a bocca aperta, esattamente come Marcia e la sua vittima, che Ottavia aveva presentato come Marcello. Antillo, che aveva cinque anni, ricordava vagamente il padre, ma non aveva avuto la certezza che quel gigante fosse davvero lui finché Ottavia non glielo aveva assicurato. A quel punto si era limitato a fissarlo, senza avere il coraggio di tendergli le braccia per farsi abbracciare. Iullo, che non aveva ancora compiuto i due anni, era scoppiato a piangere quando il gigante era avanzato verso di lui. Ridendo, Ottavia lo aveva preso in braccio e lo aveva dato ad Antonio, che in un batter d’occhio lo aveva fatto ridere.
In quel preciso istante Antillo aveva teso le braccia verso il padre, ed era stato preso su a sua volta.
«Due bei bambini, vero?» aveva osservato Ottavia. «Crescendo, diventeranno grandi come te. Una parte di me non vede l’ora di sapere come stanno in corazza e pteryges, mentre l’altra detesta anche solo l’idea, perché da allora non sarò più io a occuparmi di loro.» Antonio aveva risposto qualcosa a caso, la mente altrove. Era Marcia, quella che lo tormentava. Marcia? Marcia? Di chi era figlia quella bambina? E perché chiamava Ottavia mamma? Tuttavia anche Antillo e Iullo, aveva notato, la chiamavano così. La piccina nella culla, bionda come Marcia, era la sua figlia minore, Cellina, gli era stato detto. Ma di chi era figlia Marcia? Aveva una vaga rassomiglianza con i membri della gens Giulia, altrimenti avrebbe pensato che fosse una lontana cugina salvata da un destino terribile da quella donna con l’ossessione dei bambini. Perché era evidente che ne era ossessionata.
«Per favore, Antonio, posso avere Curione?» gli aveva chiesto Ottavia con uno sguardo supplichevole. «So di non poterlo prendere senza il tuo permesso, ma ha un disperato bisogno di stabilità e fermezza. Ha quasi undici anni ed è terribilmente capriccioso.» Antonio aveva ammiccato. «Puoi prenderti il marmocchio, Ottavia, ma perché vuoi farti carico di un altro bambino?» «Perché è infelice, e nessun bambino di quell’età dovrebbe esserlo. Sente la mancanza della madre, non dà ascolto al pedagogo, che peraltro è un uomo sciocco e inadeguato, e spesso lo si può trovare al Foro a disturbare la gente. Ancora un anno o due, e finirà per diventare un borseggiatore.» Antonio aveva sorriso. «Be’, suo padre, che era un mio amico, l’ha fatto parecchie volte ai suoi tempi! Curione il Censore, suo padre, era un taccagno autocrate di ristrette vedute che spesso lo rinchiudeva. Io lo facevo uscire e insieme scatenavamo il caos. Forse tu sei proprio ciò di cui Curione ha bisogno.» «Oh, grazie!» Ottavia aveva chiuso la porta della stanza e subito si era levato un coro di proteste; a quanto pareva di solito trascorreva più tempo con loro quando andava lì, e loro ne avevano dato la colpa al gigante, persino Antillo e Iullo.
«Chi è esattamente Marcia?» aveva domandato a Ottavia.
«La mia sorellastra. Mamma ebbe me, la sua primogenita, a diciotto anni, e Marcia a quarantaquattro.» «Vuoi dire che è di Azia e Filippo il Giovane?» «Sì, naturalmente. Me ne occupo io da quando mamma non ce la fa più, con le sue giunture sempre gonfie e terribilmente dolorose.» «Ma Ottaviano non mi ha mai detto nulla di lei! So che fa finta che sua madre sia morta, ma una sorellastra! Sommi dèi, è assurdo!» «Ne ha due di sorellastre, a dire il vero. Non dimenticare che nostro padre ebbe una figlia dalla sua prima moglie. Deve avere circa quarant’anni, ormai.» «Sì, ma …» Antonio aveva iniziato a scuotere il capo come un pugile che avesse ricevuto troppi colpi alla testa.
«Suvvia, Antonio, conosci mio fratello! Anche se gli voglio molto bene, riesco a vedere i suoi difetti. È troppo compreso nel proprio ruolo per desiderare una sorellastra che ha vent’anni meno di lui… è così poco dignitoso! E teme anche che Roma non lo prenderà sul serio se la sua giovane età sarà sottolineata dal fatto di avere una sorellina di cui tutti sono a conoscenza. E non aiuta certo il fatto che la povera Marcia sia stata concepita subito dopo la morte del nostro padre adottivo. Da molto tempo ormai Roma ha perdonato alla mamma quello scivolone, ma Cesare non lo farà mai. E poi, Marcia è stata affidata a me quando ancora non sapeva camminare, e la gente ha fatto presto a perdere il conto.» Aveva sorriso. «Quelli che entrano nella stanza dei bambini di solito pensano che sia figlia mia perché mi assomiglia.» «Ami dunque i bambini a tal punto?» «Amore è una parola troppo piccola, pronunciata troppo spesso e usata a sproposito. Darei la mia vita per i bambini, alla lettera.» «A prescindere da chi siano i loro genitori.»
«Esatto. Ho sempre pensato che i figli fossero per le persone l’occasione di fare della loro vita qualcosa di eroico… che dessero loro l’opportunità di riparare ai propri errori anziché ripeterli.»
Il giorno seguente, i domestici del defunto Marcello Minore condussero i bambini al palazzo di marmo di Pompeo Magno sulle Carinae; quelli costretti a rimanere a badare alla casa di Marcello Minore piansero perché non avrebbero più visto Ottavia.
L’abitazione in cui si sarebbero presi cura da quel giorno in avanti apparteneva al piccolo Marcello, ma lui non avrebbe potuto viverci ancora per anni. Antonio, nominato esecutore testamentario, aveva deciso di non affittare il palazzo nel frattempo, ma il suo segretario, Lucilio, era un severo supervisore e amministratore e non avrebbe mai permesso ai domestici di battere la fiacca e di lasciar andare in rovina la casa.
All’imbrunire Antonio insieme alla sua nuova moglie varcò la soglia del palazzo di Pompeo, una dimora che aveva visto Pompeo e Giulia oltrepassare quella stessa soglia il primo giorno dei sei anni di felicità che si erano conclusi quando lei era morta di parto. Fate che non sia questo il mio destino, pensò Ottavia, sorpresa dalla facilità con cui suo marito l’aveva presa in braccio per poi deporla all’interno della casa affinché ricevesse il fuoco e l’acqua e passandovi attraverso le mani assumesse il ruolo di signora della casa. C’erano almeno un centinaio di servi ad assistere al rituale, che sospiravano, tubavano e infine applaudirono. La reputazione di Ottavia come la più generosa e comprensiva delle donne l’aveva preceduta. I più anziani fra i domestici, primo fra tutti il capo dei domestici Egon, sognavano che la dimora sarebbe fiorita come era accaduto con Giulia; per loro Fulvia era stata troppo esigente e in cambio si era interessata molto poco della conduzione domestica.
Non sfuggì all’attenzione di Ottavia che suo fratello sembrava compiaciuto e compiacente, anche se non capiva perché. Sì, sperava di sanare la frattura architettando quel matrimonio, ma che cosa ci avrebbe guadagnato se fosse naufragato, come pensavano tutti coloro che avevano presenziato alla cerimonia?
Tuttavia, ancor più spaventoso era il presentimento che Cesare facesse affidamento proprio sul fatto che finisse. Ebbene, giurò a se stessa, non accadrà per colpa mia!
La sua prima notte con Antonio fu di puro piacere, molto più di quelle che aveva passato con Marcello Minore tutte assieme. Che al suo nuovo marito piacevano le donne risultava evidente dal modo in cui la toccava, assaporando la delizia di essere vicino a lei. Chissà come la spogliò di una vita di inibizioni, accolse con gioia le sue carezze e i suoi gemiti di stupito piacere, le permise di esplorarlo come se nessuna lo avesse mai fatto prima. Per Ottavia fu l’amante perfetto, sensibile e sensuale, e non, come lei si aspettava, concentrato esclusivamente sui propri desideri. Parole d’amore ratto coniugale si fusero in un’estasi così meravigliosa che Ottavia pianse. E quando infine scivolò in un sonno appagato ed estatico, avrebbe dato la propria vita per lui come avrebbe fatto per un bambino.
E il mattino seguente aveva scoperto che anche lei aveva avuto il medesimo effetto su Antonio; quando accennò ad alzarsi per occuparsi dei propri doveri, tutto ricominciò da capo, solo che fu più bello per via del lieve senso di familiarità che si era creato tra loro, e più soddisfacente perché lei era più consapevole dei propri bisogni e lui ben felice di accontentarla.
Eccellente!, pensò Ottaviano quando vide la coppia due giorni più tardi, a una cena data da Gneo Domizio Calvino. Avevo ragione, sono così diversi che l’uno ha conquistato l’altro. Ora devo solo aspettare che lui si stanchi di lei. Perché succederà.
Succederà! Devo offrire sacrifici a Quirino perché Antonio la lasci a causa di un’altra donna, straniera, non una romana, e a Giove Ottimo Massimo perché Roma possa trarre profitto dalla sua inevitabile perdita di interesse per mia sorella. Ma guardalo, trasuda amore, gronda sentimentalismo come una quindicenne. Come disprezzo la gente che soccombe a una malattia così volgare e disgustosa! A me non capiterà mai, lo so. In me è la mente a dominare sulle emozioni, e io non sono vulnerabile a queste sdolcinatezze. Come può Ottavia credere a una simile farsa? Lo terrà in schiavitù per almeno due anni, ma oltre… è poco probabile. La sua bontà e la sua dolcezza non sono una novità per lui, che tuttavia non è né buono né dolce, la virtù a poco a poco cesserà di affascinarlo e finirà con il tramutarsi in un disgusto assoluto.
Io diffonderò instancabilmente la notizia di questo matrimonio, incaricherò i miei agenti di parlarne in continuazione in ogni villaggio, città e municipium dell’Italia e della Gallia Cisalpina. Finora li ho convinti a parteggiare per la mia causa enumerando le perfidie di Sesto Pompeo e descrivendo l’insensibilità di Marco Antonio alle sventure della sua patria. Ma durante il prossimo inverno tutti inizieranno a tessere le lodi non di questa unione di per sé, ma di Ottavia, sorella di Cesare e personificazione di tutto ciò che una matrona romana dovrebbe essere. Farò erigere statue che la raffigurano, tutte quelle che potrò permettermi, e continuerò a farlo finché la penisola non scricchiolerà sotto il loro peso. Ah, mi par già di vederlo!
Ottavia, casta e virtuosa quanto Lucrezia l’oltraggiata; Ottavia, più degna di rispetto di una vergine vestale; Ottavia, che ha saputo domare quel cafone irresponsabile di Marco Antonio; Ottavia, la persona che da sola ha salvato la sua terra dai mali della guerra civile. Sì, Ottavia Pudica si prenderà tutti i meriti. Quando i miei agenti avranno finito di occuparsi di questa faccenda, Ottavia Pudica sarà considerata una dea al pari di Cornelia, madre dei Gracchi! E quando Antonio la lascerà, tutti i romani e gli Italici lo condanneranno come un bruto, un mostro crudele governato dalla lussuria.
Oh, se solo potessi vedere nel futuro! Se soltanto sapessi l’identità della donna per cui Antonio lascerà Ottavia Pudica! Pregherò tutti gli dèi romani perché sia una donna che ogni cittadino romano o italico possa odiare con tutte le proprie forze. Se possibile, cercherò di spostare il biasimo della condotta di Antonio sull’influenza che lei ha esercitato su di lui. La dipingerò come una creatura perversa come Circe, vanesia come Elena di Troia, maligna come Medea, crudele come Clitennestra, letale come Medusa. E se non sarà nulla di tutto ciò, la farò apparire tale. Manderò i miei agenti a diffondere nuove voci, e da questa donna sconosciuta creerò un demonio così come sto per creare una dea da mia sorella.
Ci sono altri modi per abbattere un uomo oltre a combattere contro di lui… La guerra era un insensato spreco di vite umane e prosperità! E di denaro, denaro che sarebbe stato meglio spendere per celebrare la gloria di Roma.
Guardati da me, Antonio! Ma tu non lo farai, perché credi che io sia incapace quanto sono effeminato. Non sono il divo Giulio, no ma sono degno del suo nome.
Vèlati gli occhi, Antonio, sii cieco. Ti prenderò, anche a costo della felicità di mia sorella. Se Cornelia, madre dei Gracchi, non avesse avuto una vita di sofferenze e crucci, le donne romane non porterebbero ancor oggi fiori sulla sua tomba. E lo stesso accadrà per Ottavia Pudica.