Capitolo 13

 

Quando Agrippa tornò dai due anni di campagna nella Gallia Transalpina coperto di gloria, si accampò con le sue due legioni nel Campo Marzio al di fuori del pomerium. Il Senato gli aveva decretato il trionfo, cosa che gli proibiva di entrare nel perimetro vero e proprio di Roma. Chiaramente si aspettava di trovare Cesare ad attenderlo, sotto il tessuto rosso della splendida tenda eretta per ospitare il generale trionfatore nel suo temporaneo esilio. Invece non c’era nessuno, neppure un senatore.

Forse sono giunto in anticipo, si disse Agrippa facendo cenno al suo attendente di depositare i bagagli dentro la tenda mentre lui, ansioso di scorgere l’arrivo di Cesare, restava fuori dal riparo. Aveva una vista in grado di notare il riflesso di un’armatura a due miglia di distanza, un orecchio capace di udire il rumore di un’arma estratta dal fodero; perciò tirò un sospiro di sollievo avvistando una nutrita guardia armata di Germani uscire dalla porta Fontinalis e scendere la collina verso la Via Recta. Si corrucciò, vedendo al centro degli armati una lettiga. Forse Cesare era malato?

Ansioso e impaziente, riuscì a costringersi all’attesa invece di correre verso l’insolito veicolo, che alla fine si fermò in mezzo alle urla di giubilo dei Germani.

Quando ne scese Mecenate, Agrippa ebbe un sussulto. «Entriamo» ordinò il grande manipolatore, dirigendosi alla tenda.

«Che succede? Cesare è malato?» «No, ma è in un grosso guaio» rispose Mecenate, con l’aria affaticata. «Ha la casa circondata di guardie e non osa mettere fuori il naso. Ha dovuto trincerarsi dentro, erigendo un muro e scavando un fossato, sul Palatino. Roba da non crederci.» «Ma perché?» «Non l’hai capito? Non indovini? Che altro, se non il grano che scarseggia, le tasse e i prezzi troppo alti?» Agrippa fissò a denti serrati gli stendardi con l’aquila piantati davanti alla sua tenda, cinti tutti dai serti d’alloro della vittoria. «Hai ragione, dovevo immaginarlo.

Ma quale sarà l’ultimo capitolo di questa saga eterna? Per gli dèi, comincia a essere faticoso quanto leggersi tutto Tucidide.» «Quel maledetto lumacone di Lepido, con la bellezza di sedici legioni ai suoi ordini, ha permesso a Sesto Pompeo di andarsene con tutta la fornitura di grano delle province d’Africa. Poi quel cane traditore di Menodoro ha litigato con Sabino: non gli andava di sottostare ai suoi ordini, e se n’è tornato da Sesto. Non si è portato via altro che sei navi da guerra, ma ha svelato a Sesto la rotta percorsa dalle imbarcazioni da carico provenienti dalla Sardinia, e anche quei raccolti sono andati perduti. Al Senato non resta altro da fare che comprare il grano da Sesto, che se lo fa pagare quaranta sesterzi a modius. Ciò significa che i privati probabilmente lo rivenderanno a sessanta a modius, mentre lo stato, ammesso che ne riesca a comprare abbastanza per darlo come sussidio gratuito, dovrà chiedere almeno cinquanta sesterzi a chi deve pagarlo. Quando l’hanno saputo le classi inferiori e i tribuni della plebe è scoppiato il caos: rivolte, assalti di bande organizzate ai granai. Cesare ha dovuto richiamare una legione da Capua per difendere le scorte e il Vicus Portae Trigeminae pullula di soldati, lasciando incustodito il porto di Roma. Siamo nel bel mezzo di una crisi tremenda» sospirò Mecenate, agitando le mani tremanti.

«E il bottino del trionfo di Ventidio?» chiese Agrippa. «Non basta a risanare il bilancio e a permettere di mantenere il prezzo a quaranta sesterzi?» «Forse sì, ma Antonio ha voluto a tutti i costi riceverne metà, in qualità di triumviro e comandante in capo delle legioni d’Oriente. Visto che il Senato è ancora infarcito di suoi uomini, ha deciso a votazione che gli fossero assegnati cinquemila talenti» spiegò Mecenate incupito, con voce atona. «Aggiungi i salari delle legioni e non restano che duemila talenti. Cinquanta milioni di sesterzi, insomma, quando il prezzo richiesto da Sesto sfiora i cinquecento milioni. Cesare ha chiesto se poteva pagarli a rate, ma Sesto ha rifiutato chiedendo i soldi sull’unghia. Ormai le scorte non dureranno che un altro mese.» «E nemmeno un soldo per pagare le spese di questa guerra campale della mentula!» esclamò Agrippa, esasperato. «Io, comunque, ho riportato con me altri duemila talenti di bottino: arrivano a coprire cento milioni del costo del grano, aggiungendoli a quanto resta del bottino di Ventidio. Dovremmo radunare tutti i senatori in mezzo al Foro e lasciare che la folla li lapidi a morte, nessuno escluso! Ma di sicuro sono scappati tutti da Roma, vero?» «Certo. Sono rinchiusi nelle loro ville. Ma non solo Roma è in subbuglio, anche il resto d’Italia. E i senatori spergiurano che non è colpa loro, ma del malgoverno di Cesare, siano maledetti.» Agrippa si avvicinò all’ingresso della tenda. «Questa situazione deve finire, Mecenate. Vieni, andiamo da Cesare.» Mecenate lo fissò impietrito. «Ma, Agrippa, non puoi! Se varchi il pomerium ed entri a Roma perderai il diritto al trionfo.» «Cosa conta un trionfo quando Cesare ha bisogno di me? Ne avrò un altro dopo la prossima guerra.» Detto ciò, s’incamminò a grandi falcate, senza scorta, con ancora indosso l’armatura da battaglia. La mente girava a vuoto, consapevole del fatto che non ci fosse una soluzione, mentre lo spirito indomito ne cercava una a tutti i costi.

Cesare non poteva certo farsi ricattare da un pirata qualsiasi, che teneva in ostaggio lui e il popolo romano. Maledetto Sesto Pompeo, pensò, ma ancor più maledetto sia Antonio.

Mecenate non poté far altro che risalire sulla sua lettiga e sperare di arrivare alla domus di Livia Drusilla nel giro di un’ora, accompagnato dalla guardia armata.

Quanto ad Agrippa, se si avventurava da solo nell’Urbe, la folla l’avrebbe fatto a pezzi.

La città era in subbuglio e i battenti di tutti i negozi erano chiusi e lucchettati. Le pareti erano coperte di scritte incise: proteste contro i prezzi del grano, ma soprattutto insulti indirizzati a Cesare, notò Agrippa mentre scendeva lungo la collina dei banchieri. Per le vie giravano bande armate di sassi, randelli e qualche spada, ma nessuno lo molestò. Era un combattente, e anche i più aggressivi tra i popolani lo capivano al primo sguardo. Resti di uova marce e verdure varie sgocciolavano dalla facciata e dai porticati delle banche più famose, mentre nell’aria aleggiava l’odore degli escrementi stagnanti nei vasi da notte che nessuno aveva più il coraggio di andare a svuotare nella latrina pubblica. Neppure nei suoi incubi più cupi Agrippa aveva visto Roma tanto degradata, insozzata, sfigurata. L’unico particolare che ancora mancava era l’odore acre del fumo: la follìa non s’era ancora impadronita del tutto della plebe. Senza preoccuparsi della propria incolumità, Agrippa si fece largo tra la folla urlante del Foro, le cui statue erano state abbattute, mentre i colori sfarzosi dei templi erano quasi del tutto cancellati dai graffiti e dalla sporcizia. Giunto alla scalinata degli anellieri, la risalì a grandi balzi, spintonando chiunque gli sbarrasse il cammino. Attraversò il Palatino e si ritrovò di fronte un muro alto, eretto in fretta e furia, sormontato da guardie germaniche.

«Marco Agrippa!» gridò una delle sentinelle, stendendo il braccio: sopra l’ampio fossato calò il ponte levatoio, mentre la grata veniva sollevata. A quel punto a un coro di voci che gridavano «Marco Agrippa!» si unirono altre urla, e il generale entrò, trovandosi in mezzo agli Ubii esultanti.

«Restate di guardia, ragazzi!» gridò alle sentinelle, con un gran sorriso, ed entrò. Si trovò davanti vasche di pesci ormai fangose, dacché il giardino era diventato l’accampamento dei Germani, soldati che non badavano troppo alle formalità.

All’interno della domus di Livia Drusilla vide subito che la nuova moglie aveva già lasciato il suo segno. La casa era cambiata tanto da essere irriconoscibile. Entrò in una stanza dall’arredamento raffinatissimo, con le pareti coperte d’affreschi, plinto ed erme di marmo splendido. Apparve Burgundino, con l’aria irata, che si tramutò subito in un sorriso non appena vide chi calpestava quei pavimenti inestimabili con le calighe chiodate.

«Dov’è, Burgundino?» «Nel suo studio. È bello vederti, Marco Agrippa.» Cesare era davvero nello studio, ma non seduto al vecchio tavolo malconcio, circondato da caterve di libri e da un casellario traboccante papiri. Ora la scrivania era immensa, fatta di malachite verde ornata di riccioli, mentre la confusione dell’archivio precedente si era trasformata in un ordine pari a quello che aveva sempre regnato sul tavolo di Cesare. Due scribi sedevano a tavolini meno pregiati, ma dignitosi, mentre un segretario si aggirava per la stanza per mettere a posto i rotoli.

Il volto dell’uomo, che sollevò lo sguardo irritato per vedere chi lo disturbava, era invecchiato. Dimostrava quasi quarant’anni: non erano tanto le rughe a tradirlo, quanto gli occhi slavati cerchiati di nero, i solchi profondi sulla fronte ampia e le labbra quasi inesistenti.

«Cesare!» Il calamaio di malachite volò per la stanza. Ottaviano balzò in piedi tra un frusciare di papiri e in due passi attraversò la stanza per abbracciare forte Agrippa, entusiasta.

Poi capì. Fece un passo indietro, inorridito. «Oh, no! Il tuo trionfo.» Agrippa ricambiò l’abbraccio e lo baciò sulle guance. «Ci saranno altri trionfi, Cesare. Pensavi davvero che sarei rimasto fuori città, mentre a Roma i tumulti sono tali da non permetterti nemmeno di uscire di casa? Se un civile mi vede, non mi riconosce. Ecco perché sono venuto io da te.» «E Mecenate?» «Arranca» rispose Agrippa, con un sorriso.

«Vuoi dire che sei venuto senza scorta?»

«Non c’è banda in grado di affrontare un centurione armato di tutto punto, ed è questo che ho fatto credere di essere. Mecenate aveva bisogno della scorta più di me.» Ottaviano si asciugò le lacrime e chiuse gli occhi. «Agrippa, mio caro Agrippa.

Ecco, è il momento decisivo. Lo sento.» «Cesare?» chiamò un’altra voce, bassa e un po’ roca.

Ottaviano si girò, sempre abbracciato ad Agrippa.

«Livia Drusilla, la mia vita è di nuovo completa. È tornato Marco.» Agrippa osservò il visino ovale, dalla pelle di perfetto avorio, la bocca carnosa, i grandi occhi scuri e ardenti. Se Livia trovava la situazione bizzarra, non lo lasciava trapelare neppure nei recessi di quello sguardo intenso. Fece un sorriso di autentica gioia e posò una mano delicata sul braccio di Agrippa, accarezzandolo teneramente come un amante.

«Marco Agrippa, che piacere vederti» disse, prima di fare una smorfia. «E che ne è del tuo trionfo?» «Vi ha rinunciato per venire da me» rispose Ottaviano, prendendo la moglie per mano e cingendo con l’altra le spalle del generale. «Venite, andiamo a sederci in un posto più intimo e comodo. Livia Drusilla mi ha fornito dei collaboratori efficientissimi, ma ho perso il piacere della solitudine.» «Il nuovo aspetto della dimora di Cesare è opera tua, signora?» chiese Agrippa, sedendosi su una poltrona dorata imbottita di morbido broccato rosso e accettando un calice di cristallo di vino puro. Lo assaggiò e rise. «Un’annata molto migliore di quelle che offrivi un tempo, Cesare! E non è annacquato: suppongo che ci sia da festeggiare qualcosa.» «Niente è più importante del tuo ritorno. Ma la mia Livia Drusilla è un vero portento.» Con grande sorpresa di Agrippa, Livia non si ritirò nelle sue stanze come avrebbe dovuto fare una moglie. Prese un’ampia poltrona color porpora e vi si sedette con le gambe rannicchiate, accettando un calice da Ottaviano con un cenno del capo per ringraziare. Ah. Quindi la signora era ammessa ai colloqui privati.

«Non so come, ma devo sopravvivere a un altro anno così» esordì Ottaviano, posando il bicchiere dopo il brindisi. «A meno che tu non creda che possiamo partire con l’anno nuovo.» «No, Cesare, è impossibile. Portus Julius sarà pronto solo l’estate prossima, così mi ha scritto Sabino nella sua ultima lettera, perciò ho otto mesi di tempo per armare e addestrare gli uomini. La sconfitta di Sesto Pompeo dev’essere totale, per non permettergli di rialzare la testa. Però, dobbiamo trovare da qualche parte almeno centocinquanta navi da guerra. I porti d’Italia non sono in grado di fornircene a sufficienza.» «C’è solo una persona che può procurarcele, cioè il nostro caro Antonio» rispose Ottaviano, amareggiato. «La causa di tutto questo è lui, e lui solo. Tiene in pugno il Senato, gli dèi solo sanno perché. Chiunque penserebbe che quegli idioti scelgano per il meglio, visto il caos che ci circonda. E invece no! La fedeltà a Marc’Antonio conta più di un popolo ridotto alla fame.»

«Non è cambiato niente dai tempi di Catulo e Scauro» commentò Agrippa.

«Intendi scrivere ad Antonio?» «Lo stavo facendo, quando sei arrivato tu. Ho sprecato fogli su fogli di ottimo papiro nel tentativo di trovare le parole adatte.» «Da quanto non lo vedi?» «Da più di un anno, da quando ha portato Ottavia e i bambini ad Atene. Gli ho scritto la primavera scorsa per chiedergli di incontrarci a Brundisium, ma mi ha giocato il tiro di venire senza le sue legioni: è arrivato così in fretta che io ero ancora a Roma ad attendere una sua risposta. E così se n’è tornato ad Atene e mi ha spedito una lettera carica di rancore, in cui mi minacciava di tagliarmi la testa se non mi fossi presentato al prossimo appuntamento. Poi se n’è andato a Samosata, e quindi non ci siamo più incontrati. Non so neppure se è tornato ad Atene.» «A parte questo, Cesare, come possiamo rimediare alla mancanza di grano?

Dobbiamo dar da mangiare all’Italia, e spendendo meno di quanto dice Mecenate.» «Livia Drusilla mi consiglia di chiedere in prestito la somma necessaria ai plutocrati, ma la cosa mi ripugna.» Bene, bene. La piccola pantera dà buoni consigli. «Ha ragione, Cesare. Meglio il prestito che le tasse.» Gli occhi di Livia fissarono Agrippa, stupiti. La donna temeva l’incontro di quel giorno, convinta che il migliore amico di Cesare le sarebbe stato ostile. Come poteva essere altrimenti? Gli uomini non amavano la presenza femminile in consiglio e anche se lei sapeva di essere nel giusto, personalità illustri come Statilio Tauro, Calvisio Sabino, Appio Claudio e Cornelio Gallo erano contrari alla sua ascesa.

Scoprire un alleato in Agrippa era un dono ancor più grande di quel figlio che non le era ancora stato concesso.

«Mi sveneranno.» «Peggio delle sanguisughe» rispose Agrippa con un sorriso. «Ma i soldi ci sono e finché Antonio non si dà una mossa a sistemare le cose in Oriente, i ricchi romani non avranno da guadagnare in quelle province. I loro capitali rimarranno fermi, in attesa d’investimenti.» «Sì, lo so» concedette Ottaviano, irrigidendosi. Erano tutti buoni consigli, ma la situazione gli era chiara fin dal principio. «Ma non mi va di pagare un venti per cento d’interessi composti.» Agrippa capì di dover fare un passo indietro. Con aria confusa, domandò: «Composti?».

«Sì, interessi sugli interessi. In questo modo Roma sarebbe indebitata con loro per trenta o quarant’anni.» «Dubiti di te stesso, caro Cesare. Ma non dovresti» intervenne Livia Drusilla.

«Pensaci. Sai già la risposta.» A Ottaviano tornò il sorriso. «I forzieri di Sesto Pompeo, pieni di denaro rubato.» «Proprio così» rincarò Agrippa, guardando Livia con aria riconoscente.

«Ci ho pensato. Ma se c’è una cosa che mi piace ancor meno che chiedere un prestito ai plutocrati, è consegnare loro il tesoro di Sesto una volta che me ne sarò impossessato. Potrei offrire loro il venti per cento di interessi composti, e far cadere nella rete anche alcuni dei senatori di Antonio» soggiunse, con aria astuta.

«Un’offerta del genere è difficile da rifiutare. Per rifonderli forse dovrò dar loro i beni che Sesto ha rubato in un anno, ma una volta sbarazzatomi di Antonio e con il Senato dalla mia parte, potrò fare quello che voglio. Varerò una legge che riduca il tasso d’interesse: gli unici a opporsi saranno pochi pesci grossi.» «In altri campi non è rimasto con le mani in mano» aggiunse Livia rivolta ad Agrippa.

Per un istante Ottaviano la guardò senza capire, poi si mise a ridere. «Ah, la campagna del grano in Italia. Sì, ho indebitato Roma ancora un po’. I dati in mio possesso dicevano che un contadino ha bisogno di duecento modii di grano all’anno per sfamare una famiglia numerosa. Uno iugero, però, ne produce molto di più e il contadino vende il grano in eccedenza, a meno che gli spiriti dei campi o qualsiasi altro augurio a cui creda lo avvertano dell’imminenza di una siccità o di un’alluvione.

In questo caso accumula il prodotto nel granaio. I segni celesti, però, dicono che quest’anno non ci sono da temere calamità e carestie. Perciò ho offerto ai contadini trenta sesterzi al modius per le loro scorte, somma che i loro soliti acquirenti non sono pronti a sborsare. Tutto ciò nella speranza che qualcuno dei nostri veterani coltivi davvero qualcosa nella terra che gli è stata assegnata. Molti, infatti, affittano la loro ai vignaioli, perché amano il vino ma più in là di quello un soldato in pensione non va.» «Tutto ciò che può permettere di comprare meno grano da Sesto al prossimo raccolto è cosa buona, Cesare» commentò Agrippa. «Ma funzionerà? Quanto pensi di riuscire a ottenere?» «Metà del fabbisogno.» «Ti costerà, ma meno di quanto chiede Sesto. Mecenate dice che Lepido non ha fatto nulla per salvare la fornitura africana. Come mai?» «Si sta montando la testa» disse Livia Drusilla, fissando Agrippa per vedere se voleva chiedere conferma a suo marito. Il generale non batté ciglio, accettando l’affermazione di Livia come faceva con quelle di Ottaviano. La considerava una sua pari!

L’armatura di Agrippa cigolò mentre cercava di trovare una posizione più comoda, abituato com’era alle sedie da campo prive di schienale.

«Non sa nulla, Cesare» proseguì Livia, infiammata. «Spiegagli la situazione, e poi lascia che questo pover’uomo si tolga di dosso la corazza.» «Edepol! Dimenticavo» esclamò Ottaviano, saltellando di gioia. «Tra meno di un mese, Marco, diventerai console di Roma.» «Cesare!» esclamò Agrippa, stupefatto. Travolto dalla gioia, rilassò il volto severo.

«Cesare… non ne sono degno.» «Nessuno al mondo ne è degno più di te, Marco. Non faccio altro che consegnarti una Roma frastornata e sanguinante, affamata ma non battuta. Ho dovuto concedere l’altro posto di console a Caninio per l’unica ragione che è cugino di Antonio, ma a una condizione: a luglio gli subentrerà come suffectus Statilio Tauro. Il Senato trema di paura, perché hai mostrato la tua tempra a sufficienza quand’eri praetor urbanus: sanno che non avrai alcuna pietà.» «Non hai aggiunto, Cesare, quanto poco le famiglie di sangue nobile gradiranno la mia nomina. Io sono di umili origini.»

«Nomina?» ripeté Ottaviano, sgranando gli occhi grigi. «Mio caro Agrippa, sei stato eletto in absentia, onore che non fu concesso neppure al divo Giulio. E il tuo sangue non è umile, ma legittimo sangue romano. Io so quale spada vorrei avere sempre al mio fianco, e non è quella di Fabio, di Valerio e neppure di Giulio Cesare.» «È stupendo! Potrò lavorare alla costruzione di Portus Julius dotato dell’autorità consolare. Solo tu o Antonio potreste impedirmelo; tu non vuoi, lui non può. Grazie, Cesare, grazie.» «Mi piacerebbe che tutte le mie decisioni fossero accolte con tale entusiasmo» rispose Ottaviano con arguzia, guardando la moglie. «Livia Drusilla ha ragione, devi metterti abiti più comodi. Io, intanto, tornerò a scrivere ad Antonio.» «No, non farlo» disse Agrippa, alzandosi.

«Come no?» «No» ripeté, riuscendo a districarsi dalla sedia. «Le lettere non bastano più. Manda Mecenate.» «Ci siamo fatti prendere dall’abitudine» disse Livia Drusilla, sfiorando con la guancia quella di Agrippa. «Come una ruota incastrata in un canale. Agrippa ha ragione, Cesare. Manda Mecenate.» Ciò detto, andò nelle sue stanze, in cui c’era un grande salone arredato in modo sfarzoso, ma nessun’altra ostentazione, neppure nella sua alcova. C’era un grande armadio, perché Livia Drusilla amava i vestiti, ma lo spazio più ampio era riservato al tablinum, lo studio privato della signora, degno di un uomo. Andata in sposa a Cesare senza dote, né servitù, usava come segretari i liberti del marito. Era stata di Livia l’idea che costoro facessero a turno tra lo studio di Ottaviano e il suo, in modo da poter essere interscambiabili in caso di emergenza.

Andò dritta all’angolo della preghiera, altra idea sua, in cui erano eretti altari a Vesta, Juno Lucina, Opsiconsiva e Bona Dea. Questa commistione si doveva al fatto che non era stata allevata a seguire la religione di stato, come i maschi. Erano quelle, quindi, le quattro divinità che amava pregare: Vesta, perché le desse una casa serena, Juno Lucina, perché le desse un figlio, Opsiconsiva, perché accrescesse la ricchezza e il potere di Roma e la Bona Dea perché era stata lei a metterla al fianco di Cesare come consigliera oltre che come moglie.

Dentro una gabbia dorata appesa a un sostegno c’erano colombe bianche.

Attirandole con un richiamo ne mise una su ogni altare, come offerta. Non le uccise, però: non appena si furono posate sugli altari, le portò alla finestra e le liberò in cielo, guardandole volar via con le mani incrociate sul petto e lo sguardo rapito.

Erano mesi che sentiva il marito tessere le lodi del suo beneamato Marco Agrippa.

Ormai non lo ascoltava più con aria scettica, ma era arrivata all’esasperazione. Come avrebbe potuto competere con un uomo del genere? Uno che aveva tenuto in grembo il capo di Cesare durante il funesto viaggio da Apollonia a Barium, quando il divo Giulio era stato assassinato. Un uomo che lo soccorreva ogni volta che un attacco d’asma minacciava di ucciderlo. Che era sempre stato al suo fianco, fino a che la defezione di Salvidieno non l’aveva costretto ad andare nella Gallia Transalpina.

Marco Agrippa, il coetaneo, nato lo stesso giorno di Ottaviano, il ventitré, anche se non dello stesso mese. Il generale era di luglio, Cesare di settembre. Avevano entrambi venticinque anni, ed erano inseparabili da nove.

Qualsiasi altra donna avrebbe progettato di mettersi tra di loro, ma Livia Drusilla non era né così stupida né così ingenua. Tra i due c’era un legame che lei capiva per istinto che sarebbe stato impossibile da spezzare, perciò perché rovinarsi l’esistenza provandoci? Quel che doveva fare, invece, era entrare nelle grazie di Marco Agrippa, averlo dalla sua parte. O perlomeno convincerlo che lei era dalla parte di Cesare. Si era immaginata una lotta titanica, supponendo che il generale l’avrebbe guardata con gelosia e sfiducia, pur non dando credito alle voci che volevano i due giovani amanti in tutti i sensi. Forse certe inclinazioni avevano albergato in Ottaviano ma, come le aveva spiegato una volta, aveva deciso di reprimerle del tutto. Senza ammettere alcunché, le aveva riassunto gli ammonimenti che gli aveva impartito il divo Giulio, mentre attraversavano la Spagna Ulteriore in calesse. Ottaviano all’epoca aveva solo diciassette anni e non era che un contubernalis inesperto e debole, cui era toccato il privilegio di servire il più grande romano della storia. La sua bellezza delicata, lo aveva avvertito Giulio Cesare, avrebbe suscitato insinuazioni di pederastia, cosa che nella Roma omofoba sarebbe stato un grave ostacolo alla sua carriera pubblica. No, concluse Livia, Ottaviano e Agrippa non erano amanti, ma il loro era un legame che andava oltre la carne: era una comunione spirituale. Era quello il motivo per cui temeva il ritorno del generale, convinta che non sarebbe riuscita a farselo amico. Non importava nemmeno il fatto che la sua stirpe fosse disprezzata persino da Claudio Nerone. Se Agrippa era una pedina fondamentale della miracolosa sopravvivenza di Cesare, allora per Livia Drusilla era di sangue pari al suo. Anzi, ancor più nobile.

L’incontro odierno le aveva lasciato il cuore leggero come una farfalla portata dal vento. Aveva capito, infatti, che Marco Agrippa voleva bene a Ottaviano con un affetto di cui pochi al mondo erano capaci: disinteressato, incondizionato, che non temeva rivali e non chiedeva favori o riconoscimenti.

Ora siamo in tre, pensò, mentre osservava la colomba offerta a Opsiconsiva levarsi così alta oltre i pini da riflettere i raggi dorati del sole morente con la punta delle ali.

Siamo in tre a curarci di Roma, ed è un numero fausto.

L’ultima colomba era quella per la Bona Dea, un’offerta privata che riguardava solo lei. Mentre si levava in cielo, però, le piombò addosso un’aquila che la ghermì portandola con sé. L’aquila… Roma, una divinità più grande della Bona Dea, ha preso la mia offerta. Che può significare, si disse Livia Drusilla. Decise di non chiederselo.

A Mecenate non dispiaceva essere inviato a negoziare in città come Atene, dove aveva una piccola dimora la cui esistenza non intendeva lasciar trapelare a sua moglie, degna erede della stirpe di Terenzio Varrone, donna altezzosa e orgogliosa del suo status sociale. Proprio come faceva Attico, ad Atene Mecenate poteva dar libero sfogo alle sue inclinazioni omosessuali in modo discreto e soddisfacente.

Questo, però, andava rimandato a dopo; come prima cosa doveva incontrare Marco Antonio, che doveva essere in città sebbene gli ateniesi non l’avessero ancora visto.

Non sembrava in vena di partecipare a incontri filosofici e simposi.

Quando Mecenate andò a omaggiare il triumviro, non trovò lui ad attenderlo, ma Ottavia, che lo fece accomodare su una sedia attica di dubbio gusto.

«Com’è possibile che i greci, così capaci in ogni altro rispetto, non apprezzino le curve?» chiese Mecenate a Ottavia che gli porgeva una coppa di vino. «L’unica cosa che non apprezzo di Atene è questa rigidità geometrica, tutta angoli retti.» «No, Mecenate, alcune curve le apprezzano. Non c’è capitello aggraziato come quello ionico, a mio gusto. Sembra un rotolo aperto, con le due estremità arricciate.

So che le foglie d’acanto dei capitelli corinzi ora sono più in voga, ma mi paiono eccessivi. Li trovo un segno di decadenza.» A Mecenate la donna parve un po’ segnata dalle preoccupazioni, sebbene non avesse ancora trent’anni. Come il fratello, mostrava tracce di occhiaie scure intorno agli occhi luminosi color acquamarina, mentre la bocca s’incurvava in una piega malinconica. Era segno di una crisi matrimoniale? Impossibile. Persino un uomo dalla sensualità sfrenata come Marco Antonio non poteva trovare difetti a Ottavia, come moglie e come donna.

«Dov’è tuo marito?» Le si offuscò lo sguardo e si strinse nelle spalle. «Chi lo sa. È tornato da un nundinum, ma non l’ho visto quasi mai. È venuta in città Glafira, accompagnata dai due figli minori.» «No, Ottavia. Antonio non ti tradirebbe mai in modo così palese.» «Me lo sono detta anch’io, e mi sforzo di crederci.» Il grande manipolatore si chinò sulla sedia spigolosa. «Su, mia cara: lo so che non è Glafira a preoccuparti. Sei troppo intelligente. Qual è il problema vero?» Ottavia, con lo sguardo vacuo, gesticolò impacciata. «Non so che dire, Mecenate.

So solo che Antonio è cambiato, ma non capisco il perché. Mi aspettavo che tornasse rinfrancato e voglioso di distrarsi: di solito si sente ringiovanito, quando arriva dal campo di battaglia. Invece, stavolta, è tornato intristito. Ecco, è così. Come se questo viaggio gli avesse tolto qualcosa di cui ha bisogno a tutti i costi per conservare la sua autostima. Ci sono stati dei rivolgimenti, certo: la lite con Quinto Dellio, che è stato allontanato da Atene. Poi non ha voluto ricevere Planco, in visita dalla Provincia d’Asia. Antonio ha accettato i suoi tributi e l’ha rispedito a Efeso. Planco se l’è presa a morte, ma tutto quello che sono riuscita a sapere da mio marito è che non può fidarsi di nessuno dei suoi amici. Non fanno che mentirgli. Pollione voleva illustrargli i problemi di Cesare in Italia, e spiegargli che non riescono a tenere in riga la fazione di Antonio in Senato, qualunque cosa ciò significhi. Non ha voluto ricevere neanche lui.» «Ho sentito dire che la crisi più grossa è stata quella con Publio Ventidio.» «Sì, lo sa tutta Roma» rispose Ottavia, secca. «Antonio ha commesso un grave errore, incolpando Ventidio di essersi lasciato corrompere.» «Forse è questo il punto.» «Forse» ammise lei, voltandosi. «Ah, Antonio!» Il triumviro entrò con un passo leggero e aggraziato che in un uomo così imponente e muscoloso non mancava mai di stupire Mecenate. Il viso liscio aveva un’aria abbattuta. Non era un malumore passeggero, considerò Mecenate, ma l’espressione che aveva sempre in volto in quei giorni. Vedendo l’ospite venuto da Roma, Antonio fece una smorfia.

«Ah, sei arrivato» esclamò, sedendosi, senza toccare il vino. «Immagino che la tua visita fosse inevitabile, anche se pensavo che il tuo viscido padrone avrebbe continuato a scrivermi lettere di supplica.» «No, ha pensato che fosse ora di mandare me a supplicarti.» Ottavia si alzò. «Vi lascio soli» disse, agitando i riccioli fulvi mentre passava accanto alla sedia di Antonio. «Comportatevi bene.» Mecenate si mise a ridere, ma Antonio rimase impassibile.

«Cosa vuole Ottaviano?» «La solita cosa. Navi da guerra.» «Non ne ho.» «Gerrae! Il Pireo trabocca di navi.» Mecenate posò la coppa e giunse le dita.

«Antonio, non puoi continuare a evitare di incontrare Cesare Ottaviano.» «Non sono stato io l’assente, a Brundisium.» «Non hai avvisato del tuo arrivo, e sei stato così rapido da cogliere alla sprovvista Cesare Ottaviano. Era ancora a Roma, e non hai atteso che si mettesse in viaggio.» «Non aveva alcuna intenzione di venire. Voleva solo vedermi scattare ai suoi ordini.» «No di certo.» La discussione si protrasse per diverse ore, durante il banchetto. Nessuno dei due era dell’umore giusto per apprezzare le leccornie preparate dai cuochi di Ottavia e per tutta la cena Mecenate osservò la sua preda, come il gatto con il topo, immobile ma vibrante d’attesa. Ottavia ha ragione più di quanto non sappia, si disse: Antonio è davvero intristito.

Alla fine, Mecenate si batté la mano sulla coscia, mostrando per la prima volta un segno d’impazienza. «Antonio, ammettilo, senza il tuo aiuto Cesare Ottaviano non è in grado di sconfiggere Sesto Pompeo.» «Certo, lo ammetto senza problemi.» «E non hai pensato che tutto il denaro che ti serve per controllare l’Oriente e invadere il regno dei Parti è contenuto nei forzieri di Sesto?» «Be’, certo. Ci ho pensato.» «In questo caso, perché non cominciare a ridistribuire le ricchezze in parti eque, secondo l’uso di Roma? Che importa se Cesare Ottaviano vedrà risolti i propri problemi con la sconfitta di Sesto? Tu ti devi preoccupare delle tue sorti, Antonio, e come i guai di Ottaviano, anche i tuoi si risolveranno in men che non si dica, una volta presi i forzieri di Sesto. Non ti sta più a cuore la tua sorte di quella di Cesare Ottaviano? Se tornerai dall’Oriente a seguito di una campagna vittoriosa, chi potrà tenerti testa?» «Non mi fido del tuo padrone, Mecenate. Troverà un modo di tenersi tutte le ricchezze di Sesto.» «Forse sì, se Sesto ne avesse di meno. Ammetterai che Cesare Ottaviano se la cava bene con le cifre e la contabilità, non è vero?» Antonio scoppiò a ridere. «Certo. L’aritmetica è sempre stata il suo forte.» «Allora, senti. Che venga dai suoi campi in Sicilia, o sia razziato dalle navi da carico provenienti dall’Africa e dalla Sardinia, Sesto non paga il grano che rivende a Roma e a te. È una storia che si ripete da Filippi in poi. Calcolando per difetto, il grano da lui sottratto negli ultimi sei anni ammonta a circa ottanta milioni di modii.

Sottraendo la parte dovuta agli ammiragli della flotta e le spese generali, di gran lunga inferiori a quelle sostenute da Roma e da te, Ottaviano ha calcolato che Sesto abbia un guadagno netto di venti sesterzi a modius. È un calcolo realistico, considerando che quest’anno vendeva il grano a Roma a quaranta sesterzi, e il prezzo non è mai sceso sotto i venticinque sesterzi. Fatti i conti, le casse di Sesto devono contenere una cifra che si aggira intorno ai milleottocento milioni di sesterzi. Basta dividere per venticinquemila, e si ricava che possiede la bellezza di settantaduemila talenti! La metà basterebbe a Cesare Ottaviano per sfamare tutta l’Italia, acquistare la terra da distribuire ai veterani e ridurre le tasse. Con la tua metà potresti armare i legionari con corazze d’argento e piume di struzzo sull’elmo. Persino quando Pompeo Magno ne ha raddoppiato il contenuto, il Tesoro di Roma non ha mai avuto casse colme quanto lo sono ora quelle di Sesto Pompeo.» Antonio ascoltò con interesse sempre crescente il quadro delineato da Mecenate.

Da ragazzo era stato un asino in matematica, visto che con i suoi fratelli marinava quasi sempre la scuola, ma i conti presentati dal suo ospite li riusciva a seguire alla perfezione. La stima delle ricchezze di Sesto era realistica. Per Giove, che cunnus era stato! Perché non c’era arrivato da solo? Ottaviano aveva ragione: era stato Sesto a defraudare Roma della sua ricchezza.

«Ho capito cosa intendi» rispose, con tono brusco.

«Allora verrai a incontrare Cesare Ottaviano in primavera?» «Basta che non ci si veda a Brundisium.» «Che ne dici di Tarentum? Il viaggio è più lungo, ma meno complicato di quello fino a Puteoli o a Ostia. E la città sorge lungo la Via Appia, dimodoché ti sarà facile venire a Roma dopo l’incontro.» Non era questa l’intenzione di Antonio. «No. L’incontro dev’essere all’inizio della primavera, e dev’essere breve. Poche chiacchiere e pochi tira e molla. Entro l’estate devo giungere in Siria, per dare inizio all’invasione della Partia.» Ciò non accadrà, Antonio, si disse Mecenate. Ti ho stuzzicato l’appetito sciorinandoti davanti cifre cui un avido come te non può resistere. Quando verrai a Tarentum avrai capito quant’è grossa la carcassa che ci attende, e vorrai fare la parte del leone. Del resto sei nato nel mese di sestile, sotto il segno del Leone. Cesare, invece, è nato in cuspide: per metà freddo e meticoloso come la Vergine, per metà equilibrato come la Bilancia. Tu, Antonio, hai Marte nel Leone, ma Cesare ha Marte in una costellazione ancor più forte, lo Scorpione. Ottaviano ha anche Giove in Capricorno, che è il suo ascendente, segno di ricchezza e successo. Sì, ho scelto il padrone giusto: del resto posso vantare l’astuzia dello Scorpione e la doppiezza dei Pesci.

«Siamo d’accordo?» ripeté Antonio.

Strappato alla sua analisi astrologica, Mecenate sussultò prima di annuire. «Sì. A Tarentum alle none di aprile.»

«Ha abboccato» annunciò Mecenate a Ottaviano, Livia Drusilla e Agrippa una volta tornato a Roma, in tempo per l’anno nuovo e l’inaugurazione del consolato del generale.

«Lo sapevo» rispose Ottaviano, compiaciuto.

«Da quanto tenevi quell’amo nascosto nelle pieghe della toga, Cesare?» chiese Agrippa.

«Dall’inizio, prima ancora che diventassi triumviro. Bisogna solo aggiungere ogni anno a quelli precedenti.» «Attico, Oppio e i Balbi hanno fatto capire che sono pronti a prestare il denaro necessario per acquistare il prossimo raccolto» aggiunse Livia Drusilla, con un sorriso velenoso. «Mentre tu eri via, Mecenate, Agrippa li ha condotti a vedere Portus Julius. Cominciano a credere che saremo davvero in grado di sconfiggere Sesto.» «Be’, quegli usurai sanno fare i conti anche meglio di Cesare» rispose Mecenate.

«Ora sanno che il loro investimento è al sicuro.»

L’inaugurazione del consolato di Agrippa andò liscia. Ottaviano rimase con lui a guardare i cieli notturni, durante la veglia, e il toro candido da lui offerto accettò il martello e il pugnale del popa e del cultrarius con tanta docilità da suscitare malcelati fremiti d’apprensione tra i senatori: un anno di consolato di Marco Vipsanio Agrippa sarebbe stato troppo. Invece il toro bianco di Caio Caninio Gallo era sfuggito al martello ed era quasi riuscito a scappare prima di ricevere il colpo di grazia: sembrava proprio che il secondo console non avrebbe avuto la stoffa necessaria a tener testa a quel provinciale di umili origini.

Nonostante il permanere dei tumulti, il freddo pungente di quell’inverno, che aveva visto ghiacciare il Tevere, cadere la neve che non si era più sciolta e soffiare da nord una tramontana gelida e incessante, teneva lontana la folla dal Foro e dalle piazze. Ottaviano riuscì a uscire dalla sua villa, anche se Agrippa gli proibì di farne abbattere le mura di cinta. Il grano pubblico venne venduto a quaranta sesterzi al modius, grazie ai prestiti a tassi esorbitanti concessi dai plutocrati, e i lavori intrapresi da Agrippa a Portus Julius crearono lavoro per chiunque fosse disponibile a trasferirsi in Campania. La crisi non era terminata, ma andava migliorando.

Tra gli agenti di Ottaviano si cominciò a parlare della conferenza che si sarebbe tenuta a Tarentum alle none di aprile: Sesto aveva i giorni contati. Giorni felici li attendevano, ne erano tutti convinti.

Questa volta Ottaviano non sarebbe giunto in ritardo. Arrivò a Tarentum insieme alla moglie ben prima delle none, accompagnato da Mecenate e da suo cognato Varro Murena. Nell’intento di dare a quell’incontro le sembianze di una festa, Ottaviano fece decorare il porto con corone e ghirlande di fiori, e ingaggiò tutti i mimi, i prestigiatori, gli acrobati, i musicisti, gli scherzi di natura e i commedianti che l’Italia offriva e costruì un anfiteatro di legno per la messa in scena di farse e atellane, che erano gli spettacoli preferiti della plebe. Il grande Marco Antonio veniva a partecipare ai festeggiamenti insieme a Cesare Divi Filius. Anche se in passato Tarentum avesse sofferto per mano di Antonio, cosa che non era accaduta, quell’evento avrebbe cancellato ogni risentimento. Una festa di primavera, un augurio di prosperità: ecco cos’era quell’incontro agli occhi del popolo.

All’arrivo di Antonio in porto, il giorno prima delle none, tutta Tarentum era accalcata sul molo per accoglierlo con grida di esultanza, che si levarono ancora più alte alla vista delle centoventi navi da guerra che il triumviro aveva portato con sé da Atene.

«Splendide, vero?» disse Ottaviano ad Agrippa all’imboccatura del porto, attendendo l’ammiraglia, che non guidava la flotta. «Finora ho individuato quattro ammiragli, ma non Antonio. Sarà in retroguardia. Guarda, quello stendardo con il cinghiale nero: è quello di Enobarbo.» «Adatto a lui» rispose Agrippa, più interessato alle navi. «Sono tutte quinqueremi, Cesare. Con il rostro di bronzo, anzi molte l’hanno doppio, e ampio spazio per artiglieria e assaltatori. Cosa non darei per avere una flotta così!» «I miei emissari mi garantiscono che ne ha delle altre a Taso, Ambracia e Lesbo.

In buone condizioni, ma non in grado di reggere più di altri cinque anni. Ah, ecco Antonio!» Indicò una splendida galea dalla poppa alta, in grado di ospitare un’ampia cabina.

Il ponte era ingombro di catapulte. Lo stendardo era un leone dorato su fondo scarlatto, con le fauci aperte in un ruggito, la criniera nera come la punta della coda.

«Adatto a lui» commentò Ottaviano. Cominciarono a incamminarsi in direzione del molo a cui doveva attraccare l’ammiraglia, guidata dal pilota del porto dalla sua barca a remi. Non c’era fretta, sarebbero arrivati prima della nave senza sforzo.

«Devi procurarti anche tu uno stendardo, Agrippa» disse Ottaviano osservando la città dalle case bianche disposta lungo le rive, con gli edifici pubblici di colori brillanti. Dai pini marittimi e dai pioppi delle piazze pendevano lanterne e bandiere.

«Sì, immagino di sì» rispose Agrippa, colto di sorpresa. «Qual è il tuo consiglio, Cesare?» «La scritta fides in rosso su uno sfondo celeste» rispose immediatamente Ottaviano.

«E il tuo stendardo navale quale sarà?» «Nessuno. Isserò la bandiera di Roma, con la scritta SPQR cinta da una corona d’alloro.» «E gli altri ammiragli, come Tauro e Cornificio?» «Anche loro sfoggeranno la bandiera di Roma. Il tuo sarà l’unico vessillo privato, Agrippa, come segno di distinzione. Sei tu che ci farai vincere la battaglia contro Sesto, me lo sento nelle ossa.» «Le sue navi, se non altro, sono inconfondibili. Hanno la bandiera con le ossa incrociate.» «Caratteristica, in effetti» rispose Ottaviano. «Ma chi è il disgraziato che ha steso il tappeto rosso? Vergogna!» Doveva essere stato un ufficiale dei duumviri a disporre la passatoia lungo tutto il molo, un simbolo regale che Ottaviano detestava. Nessun altro pareva turbato dalla cosa: era il rosso scarlatto di un generale, non la porpora dei re. Antonio balzò dalla nave sul tappeto rosso, atletico e forte come sempre. Ottaviano e Agrippa lo attesero insieme sotto la tettoia alla base del molo. Caninio, il secondo console, stava un passo indietro e alle sue spalle c’erano settecento senatori, tutti della fazione di Marco Antonio. I duumviri e gli altri notabili di Tarentum dovettero accontentarsi di posizioni ancor più defilate.

Antonio, c’era da aspettarselo, indossava la sua armatura dorata. La toga non gli donava: robusto com’era lo faceva sembrare grasso. Agrippa, muscoloso quanto lui ma più snello, non si curava delle apparenze e indossava la toga bordata di porpora.

Si fece avanti per accogliere Antonio, insieme a Ottaviano, che stretto tra i due robusti militari sembrava un fanciullo fragile e delicato. Eppure era lui a dominare la scena, forse grazie anche alla sua bellezza e alla sua folta chioma bionda. In quella città dell’Italia meridionale, fondata dai greci secoli prima che i romani cominciassero a espandersi in Italia, i biondi erano rari e molto ammirati.

Ce l’ho fatta, pensò Ottaviano. Sono riuscito a trascinare Antonio sul suolo italico e non se ne andrà finché non mi avrà dato ciò che voglio e di cui Roma ha bisogno.

«Ci sono il pomeriggio e la notte per sistemarsi negli alloggi» disse Ottaviano sulla soglia della residenza di Antonio. «So che hai fretta: domani vogliamo passare subito agli affari, oppure possiamo gratificare il popolo di Tarentum presenziando a teatro?

Va in scena un’atellana.» «Non è Sofocle, ma è cosa che piace a tutti» rispose Antonio, rilassato. «Perché no? Ho portato con me i bambini e Ottavia. Non vedeva l’ora di rivedere il suo fratellino.» «Lo stesso vale per me. E poi non ha ancora conosciuto mia moglie. Anch’io l’ho portata con me. Allora ci vediamo a teatro domani mattina e per un banchetto nel pomeriggio. Dopodiché passeremo agli affari.» Entrando nel suo palazzo, Ottaviano trovò Mecenate che si spanciava dalle risate.

«Non indovinerai mai!» riuscì a dirgli il consigliere, asciugandosi le lacrime, prima di rimettersi a sghignazzare. «Ah, è troppo bella!» «Che cosa?» chiese Ottaviano, mentre un servitore gli toglieva di dosso la toga. «E dove sono i poeti?» «Ecco, ecco, Cesare. I poeti!» Mecenate riuscì a darsi un tono, deglutendo, con gli occhi ancora umidi. «Orazio, Virgilio, il suo compagno d’arme Plozio Tucca, Vario Rufo e altri letterati minori, sono partiti da Roma un nundinum fa per venire a elevare il livello intellettuale di questa festa tarentina. E invece… sono andati a Brundisium!

E i brindisini non li vogliono lasciar andare, perché vogliono fare una festa anche loro!» Si rimise a ridere come un matto.

Ottaviano riuscì a sorridere, Agrippa ridacchiò, ma nessuno dei due si divertiva all’idea quanto Mecenate che sapeva che genìa di distratti potevano essere i poeti.

Quando lo venne a sapere, Antonio rise forte quasi quanto Mecenate e inviò a Brundisium un corriere con un sacchetto di monete d’oro per i poeti.

Non avendo calcolato la presenza di Ottavia e dei figli, Ottaviano non aveva sistemato Antonio in una casa abbastanza grande per alloggiarli tutti senza che i piccoli disturbassero il triumviro. Fu Livia Drusilla a trovare una soluzione.

«Ho saputo che nelle vicinanze c’è una casa che il proprietario è pronto a mettere a disposizione per la durata dell’incontro. Potrei trasferirmici io insieme a Ottavia e ai bambini. Vista la mia presenza, Antonio non potrà dire che non rendiamo i giusti onori a sua moglie.» Ottaviano le baciò la mano e sorrise, fissandola in quei meravigliosi occhi striati.

«Eccellente, amor mio! Provvedi immediatamente.»

«Se non ti dispiace, noi non verremo allo spettacolo domani. Neppure i triumviri possono far sedere le mogli accanto a sé e dai posti riservati alle donne, in fondo, non sento mai nulla. Inoltre, credo che anche Ottavia non ami le farse, come me.» «Chiedi a Burgundino del denaro, e andate a far compere. So che ti piacciono i bei vestiti, e magari qui troverai qualcosa che ti aggradi. Mi pare di ricordare che a Ottavia piace fare acquisti.» «Non preoccuparti per noi» disse Livia Drusilla, compiaciuta. «Forse non troveremo dei vestiti da comprare, ma può essere l’occasione per conoscerci meglio.»

Ottavia era incuriosita da Livia Drusilla. Come tutti gli aristocratici di Roma, aveva saputo della passione travolgente che aveva suscitato in suo fratello la moglie di un altro, incinta per di più del suo secondo figlio; si diceva che avessero divorziato in una cerimonia religiosa, e quella passione e i suoi protagonisti erano avvolti dal mistero. Era un amore reciproco? Era una storia vera?

Al vederla Ottavia capì che Livia Drusilla era ben diversa dalla ragazzina che aveva sposato Ottaviano. Non era una bambina timida, come le avevano raccontato.

Davanti a lei c’era una giovane matrona in abiti eleganti, con i capelli raccolti sul capo all’ultima moda e il quantitativo corretto di gioielli d’oro, semplici e preziosi, indosso. Al confronto, Ottavia si sentì trasandata, pur avendo un vestito decente. Non c’era da stupirsene dopo tutto quel tempo passato ad Atene, dove le donne non partecipavano alla vita sociale. Certo, le romane dovevano insistere per essere ammesse alle cene organizzate dai mariti, ma quelle greche erano strettamente riservate agli uomini. Era logico, quindi, che il centro della moda femminile fosse Roma, e agli occhi di Ottavia fu più chiaro che mai, vedendo la tenuta della cognata.

«È stata un’ottima idea quella di alloggiarci nella stessa casa» esordì Ottavia quando si furono sedute di fronte a coppe di vino dolce annacquato e a dolci al miele appena sfornati, specialità della zona.

«Be’, in questo modo i nostri mariti possono stare più tranquilli» rispose Livia Drusilla con un sorriso. «Suppongo che Antonio avrebbe preferito stare con te.» «Immagini giusto» rispose Ottavia ironica. Poi si chinò verso la cognata, impaziente. «Ma lasciamo stare. Dimmi di te e del…» Stava per chiamarlo «il piccolo Caio», ma si trattenne, intuendo che sarebbe stato un errore. Livia Drusilla non aveva certo un’aria sentimentale o svenevole, questo era chiaro. «Dimmi di te e di Caio. Si sentono storie idiote in giro, e vorrei sapere la verità.» «Ci siamo incontrati tra le rovine di Fregellae e ci siamo innamorati» raccontò Livia Drusilla, senza scomporsi. «Non ci siamo più visti finché non ci siamo sposati secondo il rito della confarreatio. Ero incinta di otto mesi del mio secondo figlio, Tiberio Claudio Nerone Druso, che Cesare ha consegnato a suo padre perché lo allevi.» «Oh, povera» esclamò Ottavia. «Deve averti spezzato il cuore.» «No» rispose la moglie di Ottaviano, assaggiando un pezzetto di dolce con noncuranza. «Odio i miei figli, perché detesto il loro padre.» «Odi i tuoi bambini?» «Perché no? Diventeranno gli stessi adulti egoisti che detestiamo.» «Ma li hai visti? Soprattutto il secondo… qual è il suo nome abbreviato?»

«Suo padre ha scelto Druso. No, non l’ho visto. Ormai ha tredici mesi.» «Ma ti mancherà di certo.» «Solo quando mi duole il seno per il latte.» «Ma… ma …» balbettò Ottavia, prima di ammutolirsi. Sapeva cosa diceva la gente del piccolo Caio: che era un tipo freddo. Ma aveva sposato una donna gelida quanto lui. Eppure entrambi nutrivano delle passioni, ma non per quello che lei, Ottavia, aveva a cuore. «Sei felice?» le chiese, cercando di nuovo di trovare un argomento comune.

«Sì, molto. Gli ultimi tempi sono pieni di avvenimenti. Cesare è un genio, e il suo intelletto non cessa di affascinarmi. È un tale privilegio essere sua moglie, e fargli da consigliera. Mi ascolta.» «Davvero?» «Sempre. Attendiamo con gioia di metterci a letto per parlare.» «Parlare?» «Sì. Discute di tutti i grattacapi della giornata con me, in privato.» A Ottavia cominciò a delinearsi un quadro assai bizzarro: due giovani bellissimi, che stavano insieme a letto a parlare! Ma non facevano mai… altro? Forse, una volta finita la conversazione, si disse. Si ridestò di colpo da queste riflessioni, sentendo la risata argentina di Livia.

«Appena si è sfogato raccontandomi i suoi problemi si addormenta» disse, intenerita. «Dice che non ha mai dormito così bene in tutta la sua vita. Non è bellissimo?» È davvero ancora una bambina, si disse Ottavia, comprendendo come stavano le cose. Un pesciolino caduto nella rete di mio fratello. La sta trasformando secondo i suoi bisogni, e il piacere coniugale non è tra questi. Avranno consumato quel matrimonio per confarreatio? Ne sei così orgogliosa adesso, Livia, ma la verità è che ti lega indissolubilmente a lui. E se anche è stato consumato, non è quel che desideravi, povera piccola. Che intuito deve avere Ottaviano per aver pensato fin dal primo incontro quel che vedo io adesso in te, Livia Drusilla: una sete di potere pari alla sua. Perderai la tua ingenuità infantile, Livia, ma non conoscerai mai la soddisfazione piena di essere donna, come l’ho conosciuta e la conosco io… La prima coppia di Roma, che si presenta al mondo come un’entità inscindibile, che combatte unita per dominare ogni persona e ogni situazione che incontra. Non c’è da stupirsi che lei sia riuscita a ingannare Agrippa, il quale è cotto di lei quanto lo è mio fratello, immagino.

«E Scribonia come sta?» chiese Ottavia, per cambiare argomento.

«Bene, ma non è felice» rispose Livia con un sospiro. «Vado a trovarla una volta alla settimana ora che la città è più tranquilla. Con le bande armate in giro per le strade era difficile muoversi. Ma Cesare ha messo degli uomini di guardia anche a casa sua.» «E Giulia?» Per un attimo Livia Drusilla la guardò senza capire, poi s’illuminò. «Ah, quella Giulia! Penso sempre alla figlia del divo Giulio quando sento quel nome. È carinissima.»

«Ha due anni e ormai deve aver cominciato a camminare e a parlare. È intelligente?» «Non saprei davvero, ma Scribonia è pazza di lei.» D’un tratto Ottavia, sentendosi sull’orlo delle lacrime, si alzò. «Sono stanca, mia cara. Ti spiace se schiaccio un pisolino? Abbiamo tempo di vedere i bambini.

Staremo qui per diversi giorni.» «Per diversi nundinae, se mai» replicò Livia Drusilla, alla quale chiaramente non andava troppo a genio l’idea di trovarsi in mezzo a quella tribù di poppanti.

Le previsioni di Mecenate si erano rivelate esatte: dopo aver passato l’inverno ateniese a rimuginare sulle ricchezze contenute nei forzieri di Sesto Pompeo, Antonio reclamava ora per sé la parte del leone.

«Voglio l’ottanta per cento» fu il suo esordio.

«E in cambio cosa offri?» rispose Ottaviano, impassibile.

«La flotta che ho portato a Tarentum e i servigi di tre esperti ammiragli: Bibulo, Oppio Capitone e Atratino. A quest’ultimo andranno sessanta navi, Oppio guiderà le altre sessanta ed entrambi risponderanno all’ammiraglio in capo, Bibulo.» «Io, che riceverei solo il venti per cento, dovrei fornire almeno altre trecento navi, più le truppe per invadere la Sicilia.» «Esatto» confermò Antonio, guardandosi le unghie.

«Non ti sembra una divisione piuttosto iniqua?» Antonio, con un ghigno in volto, si chinò verso di lui assumendo un’aria di velata minaccia. «Mettiamola così, Ottaviano. Senza di me non puoi sconfiggere Sesto.

Perciò sono io a dettare le condizioni.» «Pensi di trattare da una posizione di vantaggio, capisco. Ma non concordo, e per due motivi. Innanzitutto, agiremo di concerto per eliminare una spina nel fianco di Roma e non a mio o tuo pro. Inoltre, mi serve più del venti per cento per rimediare ai saccheggi di Sesto e risanare il debito dello stato.» «Non m’importa un fico secco di quel che vuoi e di quel che ti serve. Se devo partecipare, voglio l’ottanta per cento.» «Quindi sarai con noi ad Agrigentum, quanto apriremo i forzieri di Sesto?» chiese Lepido.

Il suo arrivo aveva colto di sorpresa sia Antonio sia Ottaviano, certi che il terzo triumviro e le sue sedici legioni fossero fuori gioco, in Africa. Come avesse fatto a sapere dell’incontro in tempo per parteciparvi era ignoto ad Antonio, mentre Ottaviano sospettava che la fonte fosse il figlio maggiore dello stesso Lepido, Marco, giunto a Roma per prendere in moglie la prima sposa di Ottaviano, Servilia Vazia, ancora vergine. Qualcuno aveva spifferato, e Marco aveva contattato Lepido in fretta e furia: se c’era un bottino da spartire, gli Emili Lepidi dovevano averne la loro fetta.

«No, non verrò ad Agrigentum» esclamò Antonio. «Sarò già in marcia per soggiogare i Parti.» «E allora come ti aspetti che la divisione delle ricchezze di Sesto segua i tuoi dettami?» incalzò Lepido.

«Perché in caso contrario, Pontefice Massimo, tu perderai questo tuo titolo onorifico e tutto il resto. E non temo certo le tue legioni: le uniche degne di questo nome mi appartengono e non resteranno in Oriente per sempre. Voglio l’ottanta per cento.» «Il cinquanta» replicò Ottaviano, sempre impassibile. Si voltò verso Lepido. «Per te nulla, Pontefice Massimo. I tuoi servigi non sono necessari.» «Sciocchezze, lo saranno di sicuro» rispose Lepido. «Ma non voglio essere avido.

Mi accontenterò del dieci per cento. Tu, Antonio, non fai abbastanza per avere diritto al quaranta per cento, ma te lo concederò visto che sei un ingordo. Ottaviano ha molti debiti da pagare, a causa di Sesto, perciò a lui andrà il cinquanta.» «L’ottanta, o riporto le mie navi ad Atene.» «Fallo, e non ti toccherà nulla» lo ammonì Ottaviano, chinandosi a sua volta con fare minaccioso verso Antonio. «Non farti idee sbagliate. Sesto Pompeo verrà sconfitto l’anno prossimo, con o senza la tua flotta. In qualità di triumviro leale e onorato, ti offro l’occasione di partecipare alla divisione del bottino. Ma è un’offerta.

La tua guerra in Oriente, sempre che abbia successo, porterà benefici a Roma e al Tesoro, perciò parte del denaro di Sesto andrà a finanziare quella campagna. È l’unico motivo della mia offerta. Ma Lepido non ha torto: se uso le sue legioni oltre a quelle di Agrippa per invadere un’isola grande e montuosa come la Sicilia, una volta distrutta la flotta di Sesto, la sua conquista sarà più rapida e a prezzo di meno vite.

Quindi sono disposto a concedere al nostro Pontefice il dieci per cento del bottino. A me ne serve il cinquanta. Ti resta il quaranta per cento di settantaduemila talenti, ossia ventinovemila. E la cifra che Cesare aveva in cassa all’inizio della campagna contro i Parti.» Antonio ascoltava, ribollendo d’ira sempre più, ma senza dire nulla.

Ottaviano proseguì imperterrito. «Ma quando avremo dato il via all’attacco frontale contro Sesto, nei suoi forzieri saranno entrati gli altri ventimila talenti pagati per il raccolto di quest’anno. Il totale dei suoi averi ammonterà così a circa novantaduemila talenti. Il dieci per cento sono novemila, grosso modo. La tua parte, Antonio, arriverà a trentasettemila. Pensaci. Un ricavo enorme da un investimento modesto, quello di una flotta sola, per quanto valida.» «Voglio l’ottanta» insistette Antonio, ormai più incerto. Quanto intendeva ricavare, in realtà? si chiese Mecenate. L’ottanta per cento, no di certo: di sicuro sapeva che non l’avrebbe mai ottenuto. Era chiaro però che non aveva contato nel computo anche il ricavato della vendita del nuovo raccolto. Il cinquanta per cento della cifra precedente dava trentaseimila talenti. Accontentandosi del dieci per cento in meno sulla nuova cifra, incassava un po’ di più rispetto a quella previsione.

«Ricordate» proseguì Ottaviano, «i denari che vi toccheranno, sono pagati a nome di Roma, eppure nessuno di voi due li spenderà per l’Urbe stessa. Invece il mio cinquanta per cento finirà tutto nelle casse del Tesoro. So che il condottiero di una campagna può reclamare per sé il dieci per cento, ma io non voglio nulla. A che mi servirebbe? Il mio divino genitore mi ha lasciato proprietà più che sufficienti a soddisfare i miei bisogni, e ho già comprato l’unica domus romana che mi possa servire. E arredata. Insomma, non ho quasi nessun desiderio personale. La mia parte va tutta a Roma.» «Il settanta per cento» ripeté Antonio. «Sono il più anziano.»

«Rispetto a cosa? Certo non nella guerra contro Sesto Pompeo. Il quaranta per cento, Antonio. Prendere o lasciare.»

Le trattative proseguirono per un mese, al termine del quale Antonio avrebbe dovuto già essere in viaggio per la Siria da un pezzo. Il fatto che restasse dov’era si doveva solo al tesoro di Sesto: Antonio era deciso a emergere dalla contrattazione con denari sufficienti a equipaggiare di tutto punto venti legioni e ventimila cavalieri, centinaia di pezzi d’artiglieria e una gigantesca colonna di salmerie, in grado di trasportare cibo e foraggio sufficienti a un esercito di tali dimensioni. E Ottaviano che insinuava che lui intendesse tenere per sé la sua parte. Non era così, e il giovane lo sapeva bene. Gli serviva per mettere in campo il miglior esercito che Roma avesse mai schierato. Ah, che bottino avrebbe ricavato alla fine della campagna! Roba da far scomparire il tesoro di Sesto Pompeo.

Alla fine si accordarono sulla spartizione: il cinquanta per cento sarebbe andato a Ottaviano e a Roma, il quaranta ad Antonio per la campagna d’Oriente, e il dieci per cento a Lepido, stanziato in Africa.

«C’è dell’altro» aggiunse Ottaviano. «Cose che vanno sviscerate ora.» «Oh, Giove!» ruggì Antonio. «Di che si tratta?» «Il patto di Puteoli o di Misenum, o come accidenti lo vuoi chiamare, ha concesso a Sesto il potere proconsolare sulle isole e sul Peloponneso. Inoltre dev’essere nominato console tra due anni. Sono cariche da cui deve decadere subito. Il Senato deve ribadire il decreto che lo dichiara hostis, negandogli acqua e fuoco in un raggio di mille miglia da Roma, togliendogli le sue sedicenti province e cancellando il suo nome dai fasti. Non potrà mai essere console.» «Come può accadere immediatamente tutto ciò? Il Senato si riunisce a Roma» obiettò Antonio.

«E perché mai, se c’è in ballo una guerra? In questo caso il Senato si deve riunire al di fuori del pomerium, e Tarentum lo è senza dubbio. Qui ci sono circa settecento senatori, docili ai tuoi comandi, Antonio, sempre pronti a leccarti il fondoschiena» disse Ottaviano con tono acido. «Qui con noi c’è il Pontefice Massimo, tu sei un àugure e io sono sacerdote e àugure a mia volta. Non c’è nulla che lo impedisca.» «Il Senato deve riunirsi in un edificio consacrato.» «E a Tarentum ce ne sono diversi, senza dubbio.» «Ma hai dimenticato una cosa, Ottaviano» intervenne Lepido.

«Illuminami, ti prego.» «Il nome di Sesto Pompeo è già incluso nei fasti. È così che accade quando si scelgono i consoli con anni d’anticipo e poi si finge che siano stati eletti. Cancellarlo sarebbe un gesto nefas.» Ottaviano fece una risatina. «E che bisogno c’è di cancellarlo, Lepido? Dimentichi che per le vie di Roma si aggira un altro Sesto Pompeo, della stessa famiglia? Può benissimo diventare lui console tra due anni, visto che era nel novero dei sessanta pretori l’anno passato.» Sorrisero tutti.

«Geniale, Ottaviano» gridò Lepido. «Lo conosco, quel Sesto. È il nipote del fratello di Pompeo Strabone. Ne sarà onorato da morire.»

«Basta che non muoia davvero, Lepido.» Ottaviano si stiracchiò e sbadigliò, con un’aria sorniona da felino soddisfatto. «Suppongo che questo significhi che possiamo stringere il patto di Tarentum e tornarcene a Roma a diffondere la bella notizia: il Triumvirato è stato prolungato di altri cinque anni e i giorni del pirata Sesto Pompeo volgono al termine. Devi venire anche tu, Antonio, ormai quest’anno è tardi per partire per una nuova campagna.»

«Antonio, che bello!» esclamò Ottavia quando il marito le riferì come stavano le cose. «Potrò vedere mia madre e andare a trovare la piccola Giulia. Livia Drusilla si disinteressa dei suoi compiti e non pensa minimamente a convincere il piccolo… cioè, Cesare Ottaviano, a vedere sua figlia ogni tanto. Temo per la piccola.» «Sei di nuovo incinta» disse Antonio, con un’intuizione improvvisa.

«L’hai capito, che bello. Non è ancora certo, e aspettavo di esserne sicura per dirtelo. Spero che sia un maschio.» «Maschio, femmina, che differenza fa? Ne ho tanti di entrambi i sessi.» «È vero» rispose Ottavia. «Più di ogni altro uomo importante, soprattutto contando i gemelli di Cleopatra.» Il triumviro sorrise. «Sei irritata, mia cara?» «Ecastor, certo che no! Semmai sono orgogliosa della tua virilità, direi» rispose la moglie con un sorriso. «Ma ammetto che a volte mi viene da pensare a lei. A

Cleopatra, intendo. Sta bene? Conduce una vita piacevole? Ormai quasi nessuno a Roma si interessa più di lei, compreso mio fratello. Peccato, per certi versi, perché ha avuto un figlio dal divo Giulio, oltre ai due gemelli che le hai dato tu. Chissà, forse un giorno tornerà nell’Urbe. Mi piacerebbe rivederla.» Antonio le prese la mano e la baciò. «Una cosa è certa, Ottavia, non c’è un’oncia di gelosia nel tuo corpo.»

A Roma Antonio trovò due lettere ad attenderlo, la prima di Erode e l’altra di Cleopatra. Considerando di minor importanza quella della regina egizia, spezzò per primo il sigillo di quella di Erode.

 

«Caro Antonio, finalmente sono di nuovo re dei giudei! Non è stato facile, vista l’incapacità militare di Caio Sosio. Non è certo un degno erede di Silone. Sì, in tempo di pace è un valido governatore, ma non è adatto al compito di disciplinare gli ebrei. Mi ha reso un grande onore, però, affidando due ottime legioni al mio comando nella campagna nel sud della Giudea. Antigono è uscito da Gerusalemme per affrontarmi a Gerico, dove l’ho sconfitto sonoramente.

Si è tornato a rifugiare nella capitale, ed è iniziato l’assedio. Siamo riusciti a espugnare Gerusalemme quando Sosio mi ha inviato altre due legioni valorose, che ha guidato personalmente. Dopo la caduta della città Sosio voleva metterla al sacco, ma l’ho convinto a desistere. Quello che desideravo io e che più avvantaggiava Roma, gli ho spiegato, era una Giudea ricca e prospera, non uno spoglio deserto. Alla fine ha acconsentito. Antigono l’abbiamo spedito in catene ad Antiochia. Quando giungerai là potrai decidere che farne, anche se io caldeggio l’ipotesi di giustiziarlo.

Ho liberato da Masada la mia famiglia e quella di Ircano, e ho sposato Mariamne. Aspetta il nostro primogenito. Dacché non sono ebreo, non mi sono nominato Gran Sacerdote. Ho ceduto questo onore a un sadduceo, Ananiele, che sarà ai miei ordini diretti. Certo, ho degli oppositori e c’è chi cospira per sollevarsi contro di me, ma non se ne farà nulla. Ora ho il piede piantato saldamente sul collo degli israeliti, e finché avrò vita non allenterò la presa.

Ti prego, Marco Antonio, di restituirmi una Giudea integra e contigua, invece di cinque regioni separate. Ho bisogno di un porto, e Giaffa sarebbe perfetto, mentre Gaza è un po’ troppo a sud. La notizia migliore che posso darti è che sono riuscito a strappare i giacimenti di bitume a Marco di Nabatea, che si era schierato con i Parti e aveva rifiutato il suo aiuto a me, suo nipote.

Concludo profondendomi in ringraziamenti per il tuo appoggio. Stai pur certo che Roma non avrà mai di che pentirsi nell’avermi fatto re dei giudei.»

 

Antonio lasciò che il papiro si riarrotolasse da sé e si sedette per un istante con le mani dietro la nuca, sorridendo al pensiero di quel grosso rospo semita. Un Mecenate in abiti orientali, con in più una spietatezza e una crudeltà che al consigliere romano mancavano. Ma cosa avrebbe giovato di più agli interessi romani in Siria meridionale? Un regno giudaico unito, o uno spezzettato? Senza spostare i confini del proprio regno di un solo miglio, Erode si era arricchito grandemente con la conquista delle coltivazioni di balsami di Gerico e dei giacimenti di bitume delle Palus Asphaltites. I giudei erano una stirpe guerriera di ottimi soldati: a Roma conveniva una Giudea ricca, retta da un re di grande astuzia? Che sarebbe successo se la Giudea avesse annesso tutta la Siria a sud del fiume Orontes? Re Erode avrebbe puntato poi alla Nabatea, per cercare di impadronirsi di una delle due flotte più importanti per il commercio con l’India e con Taprobane. Si sarebbe arricchito ulteriormente; e poi avrebbe mirato all’Egitto, meno pericoloso che tentare di espandersi nelle province romane a nord.

Antonio passò alla lettera di Cleopatra, ne ruppe il sigillo e la lesse molto più in fretta di quella di Erode. Non erano troppo diversi, quei due sovrani: nessuno dei due mostrava un briciolo di sentimentalismo. Certo, la regina gli aveva scritto una litania di lodi di Cesarione, ma quello era l’atteggiamento della leonessa nei confronti del suo cucciolo. A parte Cesarione, era più una lettera ufficiale che quella di un ex amante. Glafira avrebbe dovuto impegnarsi per stare al pari della sua controparte egiziana.

Il viso piccolo e appuntito di Cleopatra gli si presentò alla mente, con gli occhi dorati che sfavillavano come nei momenti di gioia. Era felice? Gli aveva spedito una lettera fredda, addolcita solo dall’affetto per il figlio maggiore. Del resto era una sovrana, prima ancora che una donna. Almeno però aveva più cose da dirgli di Ottavia, tutta presa dalla maternità e dalla contentezza di essere tornata a Roma. Non le andava troppo a genio Livia Drusilla, che agli occhi di Ottavia era fredda e calcolatrice, sebbene non gliel’avesse mai detto espressamente. Sua moglie non avrebbe mai commesso una gaffe del genere, neppure in privato, da sola con lui.

Antonio, però, l’aveva capito perché anche lui condivideva quell’avversione per la ragazza, un burattino nelle mani di Ottaviano. Come faceva quell’uomo a ghermire certe persone e a impadronirsene totalmente? Era stato così con Agrippa, con Mecenate, e ora con Livia Drusilla.

Tutt’a un tratto fu preso da un odio per Roma, per la sua classe dirigente gretta, l’avidità, le mire ineluttabili, il suo diritto divino a dominare il mondo. Persino uomini del calibro di Silla e di Cesare avevano mortificato i propri desideri di fronte a Roma, offrendo tutto ciò che riuscivano a compiere sugli altari della città, nutrendola della propria forza, delle proprie imprese, dell’animus che li spingeva avanti. Cosa c’era di diverso in lui? Era forse incapace di una dedizione totale a un ideale astratto?

Alessandro Magno non aveva della Macedonia la stessa idea che Cesare aveva di Roma: il macedone pensava prima di tutto a se stesso, alla propria divinizzazione, che alla grandezza del suo paese. Era quello, certo, il motivo per cui il suo impero era crollato subito dopo la sua morte. L’impero romano, invece, non sarebbe mai andato in pezzi a causa della morte di un uomo, e neppure di quella di molti. Un romano aveva un posto in cui brillare alla luce del sole temporaneamente, ma non si considerava mai l’astro che tutto illumina. Alessandro Magno sì e forse anche Marco Antonio la pensava come lui. Sì, anche lui voleva brillare di luce propria, senza lasciarsi oscurare dalla grandezza di Roma.

Perché aveva permesso ai convenuti a Tarentuxn di diminuirgli la percentuale?

Non doveva far altro che rimettersi in mare con la sua flotta. Invece no. Aveva pensato di rimanere per garantire la sicurezza e l’efficienza delle sue truppe durante l’invasione del regno dei Parti. E quelli l’avevano tenuto buono a suon di vuote promesse. Ti garantisco che ti darò ventimila legionari ben addestrati, gli aveva detto Ottaviano, mentendo spudoratamente. Ti darò il tuo quaranta per cento non appena avremo aperto i forzieri di Sesto. Ti nominerò console. Sarai il triumviro anziano. Mi occuperò dei tuoi interessi in Oriente. Tutte promesse vane, tutte menzogne!

Antonio si costrinse a riflettere. Più di settecento senatori su mille erano dalla sua parte. Era in grado di controllare i voti degli aristocratici e decidere sulle leggi da approvare e sui candidati da eleggere. Eppure non era in grado di torcere un capello a Cesare Ottaviano. Lui risiedeva a Roma in pianta stabile, Antonio no. Anche durante quell’interminabile estate passata nella capitale, Antonio non era in grado di convocare le sue truppe per annientare il rivale. I senatori attendevano di capire quanto avrebbero potuto ricavare dal tesoro di Sesto Pompeo, eccezion fatta per coloro che si erano andati a rintanare nelle ville al mare, per fuggire dalla puzza e dall’afa dell’estate romana. E il popolo non mi riconosce più, si disse. Sono tornato, ma molti non sanno più chi sono, nonostante siano passati solo due anni. Forse la plebe detesta Ottaviano, ma la sua è una faccia conosciuta, che suscita un amoreodio. Io, invece, non sono più neppure considerato il salvatore di Roma, ormai.

Hanno atteso troppo a lungo una mia mossa. Cinque anni sono passati da Filippi e in Oriente non ho compiuto nessuna delle imprese promesse. Gli equites mi detestano più di Ottaviano, che pure deve loro milioni e milioni di sesterzi. Io non ho debiti nei loro confronti, ma non sono riuscito a rendere l’Oriente un luogo sicuro per gli affari.

Imperdonabile.

Il mese di luglio è passato in un lampo, e sestile sta scomparendo come inghiottito da una voragine che non comprendo. Perché il tempo vola via così rapido? L’anno prossimo dovrò agire, a ogni costo! Altrimenti sarò solo un relitto, uno sconfitto dalla storia. E quello stronzetto otterrà la vittoria.

Entrò Ottavia, con fare esitante e un sorriso incerto. Poi si avvicinò, a un cenno di Antonio.

«Non aver paura» le disse lui, a bassa voce. «Non ti mangio.» «No, mio caro. Mi chiedevo solo quando saremmo partiti per Atene.» «Alle calende di settembre.» Si schiarì la voce. «Tu partirai con me, ma i bambini resteranno qui. Entro la fine dell’anno arriverò ad Antiochia, perciò tu rimarrai isolata ad Atene. Ma i piccoli staranno meglio a Roma, sotto la protezione di tuo fratello.» Ottavia, disperata, era sull’orlo delle lacrime. «Sarà tremendo» esclamò, con voce rotta. «Hanno bisogno di me.» «Puoi restare qui, se vuoi» replicò secco Antonio.

«No, non posso. Il mio posto è accanto a te, anche se non resterai spesso ad Atene.» «Come desideri.»