Capitolo 16

 

Il giorno successivo a quello della partenza di Cleopatra per l’Egitto, Antonio venne raggiunto da Enobarbo, brioso e tutt’altro che contrito.

«Credevo fossi in viaggio per la Bitinia» disse Antonio, con aria di disappunto ma con animo pieno di gioia.

«Quello era il tuo disegno per sbarazzarti di me pensando di portarti appresso l’arpìa egiziana durante la campagna. Nessun romano l’avrebbe tollerato, Antonio, e mi sorprende che tu pensassi di farlo… a meno che non abbia smesso di essere un romano.» «No, assolutamente!» rispose Antonio, irritato. «Enobarbo, devi capire che la disponibilità di Cleopatra a consegnarmi tutto quell’oro è servita a organizzare questa spedizione! Sembrava che pensasse che il prestito l’autorizzasse a partecipare all’impresa, ma quando siamo arrivati fin qui è stata felice di ritornare in Egitto.» «E io sono stato felice di interrompere il mio viaggio per Nicomedia. Dunque, amico mio, illuminami sugli avvenimenti recenti.» Antonio sembra in gran forma, pensò Enobarbo, meglio di quanto l’abbia visto dai tempi di Filippi. Ora è impegnato in qualcosa degno della sua tempra, e inoltre è la realizzazione di un sogno per lui. Per quanto disprezzi l’arpìa egiziana, le sono grato del suo prestito in oro. Antonio lo ripagherà con il primo spezzone di questa campagna.

«Ho ottenuto una fonte di notizie circa i Parti» disse Antonio. «Un nipote del nuovo re della Partia, di nome Monase. Quando Fraate sterminò l’intera famiglia, Monase riuscì a rifugiarsi in Siria perché in quel momento non si trovava a corte. Era a Nicephorium per trovare un accordo su una questione commerciale con gli Scheniti.

Naturalmente, non ha osato tornare in patria, c’è una taglia pendente su di lui.

Sembra che il re Fraate abbia sposato la figlia nubile di qualche casato minore degli arsacidi e intenda dare vita a una nuova stirpe reale. La famiglia della sposa è stata passata a fil di spada, o di ascia, o comunque sia il costume dei Parti. Questa nuova figliata impiegherà anni per crescere, quindi non rappresenterà un immediato pericolo per Fraate. Monase, al contrario, è un uomo maturo e ha un seguito. Sono spietati, questi monarchi orientali.» «Spero che tu te ne rammenti, quando tratterai con Cleopatra» commentò seccamente Enobarbo.

«Cleopatra è diversa» disse Antonio con molta arroganza.

«E tu, Antonio, sei accecato dall’amore» rispose con franchezza l’inflessibile Enobarbo. «Spero che il fondamento del tuo giudizio di questo Monase sia solido.» «Solido come un bronzo di Briasside.» Ma quando Enobarbo incontrò il principe Monase, gli venne il voltastomaco. Aver fiducia in quest’uomo? Mai! Non riusciva a guardare negli occhi il suo interlocutore, con i suoi modi gentili da greco o meglio che scimmiottavano un greco.

«Non dargli nemmeno l’unghia del mignolo!» esclamò Enobarbo. «Fallo, e ti strapperà il braccio! Non vedi che è stato tenuto in riserva da re Fraate, addestrato con modi occidentali, nel caso fosse necessario infiltrare una spia tra di noi? Monase non è scampato alla carneficina, è stato risparmiato per fare il suo dovere di Parto, adescarci e portarci alla rovina e alla disfatta!» Antonio reagì con una risata; nulla di ciò che sostenevano Enobarbo e altri romani dubbiosi avrebbe potuto smuoverlo dal convincimento che Monase fosse affidabile quanto l’oro di Cleopatra.

Il grosso dell’esercito stava aspettando a Carana insieme a Publio Canidio, ma Antonio portò con sé altre sei legioni, insieme a diecimila cavalieri gallici e un totale di trentamila soldati stranieri reclutati tra giudei, siriani, ciliziani e greci asiatici.

Aveva lasciato una legione a Gerusalemme per garantire la continuazione della tenuta del trono da parte di Erode, Antonio era un amico leale, anche se talvolta un po’ credulone, e altre sette legioni a guardia della Macedonia, sempre irrequieta.

Il fiume Eufrate segnava una vasta pianura tra Zeugma e il suo tratto superiore a Carana; c’erano pascoli abbondanti per cavalli, muli e buoi da tiro. Giunsero a Samosata e la oltrepassarono, la pianura iniziava a restringersi un poco e la strada si fece più accidentata mentre il vasto esercito premeva su Melitene. Non molto a nord di Samosata, l’armata sorpassò il convoglio delle salmerie, con disappunto di Antonio, che l’aveva fatto partire da Zeugma ben venti giorni prima dell’esercito, pensando che le due colonne avrebbero raggiunto Carana nello stesso momento. Ma si era basato sul calcolo che le bestie da tiro percorressero almeno quindici miglia al giorno, mentre nonostante tutte le sferzate e le maledizioni di questo mondo non riuscivano a far loro superare le dieci miglia, come scoprì in seguito.

Le salmerie erano il vanto e la gioia di Antonio, il convoglio più grande che fosse mai stato radunato da qualsiasi altro esercito romano. Letteralmente centinaia di catapulte, balestre, e altri pezzi di artiglieria minore avanzavano tirati dal numero necessario di buoi per ciascun pezzo, più diversi arieti in grado di sfondare le porte di una qualsiasi città e un mostro di ariete lungo più di venti metri capace di abbattere, come disse scherzosamente Antonio a Monase, «anche le porte della vecchia Ilio!».

Questo per quanto riguardava le macchine da guerra. Poi, carro dopo carro, c’erano i rifornimenti: grano, barili di maiale salato, fiancate di pancetta ben affumicata, olio, lenticchie, piselli, sale, parti di ricambio, arnesi e attrezzi per gli artificieri delle legioni, carbonella, grossi lingotti di metallo fuso per acciaiature, enormi travi e assi, seghe per tagliare gli alberi o rocce morbide come il tufo, corde e gomene, tela per tende, tende aggiuntive, pali, finimenti per cavalli, tutto quanto un praefectus fabrum riuscisse a immaginare potesse servire a un esercito di tale ampiezza, per ripristinare le scorte di ciò che trasportava e anche per impegnarsi in uno o più assedi. In un’unica colonna il convoglio misurava quindici miglia di lunghezza e marciava su un fronte di tre miglia di ampiezza. Due legioni a effettivi ridotti di quattromila uomini ciascuna erano adibite in permanenza a guardia di un tale immenso e prezioso accessorio per la guerra; al comando c’era Oppio Staziano, pronto a lagnarsi con chiunque lo stesse a sentire.

Quando l’esercito raggiunse il convoglio, Antonio venne a far parte del suo uditorio.

«Tutto bene finché possiamo procedere così» disse Staziano con mancanza di tatto, «ma quelle montagne laggiù fanno presagire strette vallate, e se saremo costretti a far marciare i carri in fila le nostre comunicazioni e il potenziale difensivo verranno meno.» Antonio non era disposto ad ascoltare un’opinione. «Parli come una vecchia, Staziano» disse, spronando il cavallo, «cerca di accelerare l’andatura di qualche miglio al giorno.» Le forze mobili raggiunsero Carana dopo quindici giorni dalla partenza da Zeugma, una distanza equivalente a trecentocinquanta miglia, ma il convoglio delle salmerie impiegò altri dodici giorni per raggiungerle, nonostante la partenza anticipata. Questo metteva di malumore Antonio, e quando succedeva non voleva ascoltare nessuno, dagli amici come Enobarbo ai marescialli come Canidio, appena ritornato da una spedizione nel Caucaso e quindi molto ben informato a proposito di montagne.

«L’Italia è contornata dalle Alpi» disse Canidio, «ma in confronto a questi picchi sono come i mattoncini di un bimbo. Osserva tutto intorno al bacino in cui si trova Carana, e vedrai centinaia di monti alti quasi cinquemila metri. Andando a nord o a est ne incontreremo altri ancora più alti e ripidi. Le valli non sono altro che gole appena più ampie dei ruscelli ribollenti che le attraversano. Siamo già a metà aprile, il che significa aver tempo sino a ottobre per portare a termine la campagna. Sei mesi, e arriverà l’inverno. Carana è il luogo di maggior estensione di terreno prevalentemente pianeggiante tra qui e le grandi pianure dove l’Araxes si getta nel Mar Caspio. Potevo contare solo su dieci legioni e duemila cavalieri, ma ho constatato che anche una forza così ridotta faceva fatica a operare su un terreno simile. Comunque, suppongo che tu sappia ciò che fai, quindi non è mia intenzione discutere.» Come Ventidio, Canidio era un militare di origini non nobili; solo grazie alla sua grande abilità come generale aveva fatto carriera. Si era aggregato a Marco Antonio dopo la morte di Cesare, ed era affezionato più alla sua persona che non alle capacità marziali. Tuttavia, dopo il trionfo di Ventidio in Siria, Canidio sapeva che non gli sarebbe stato affidato il comando di un’impresa come quella che Antonio progettava di guidare nel regno dei Parti attraverso, per così dire, la porta di servizio. Un impegno complicato che avrebbe richiesto il genio di un Cesare, e Antonio non era tale. Tanto per iniziare, prediligeva le grandi armate, mentre Cesare le detestava. Per Canidio, dieci legioni e duemila cavalieri erano il massimo che un comandante potesse dispiegare con successo; con formazioni più vaste, ci sarebbero stati problemi con la catena di comando e le linee di comunicazione messe a repentaglio dalla distanza e dal tempo. Canidio condivideva l’opinione di Cesare.

«È arrivato re Artavasde?» chiese Antonio.

«Quale?» Antonio lo guardò sorpreso. «Volevo dire dell’Armenia.» «Sissignore, è qui, e aspetta di essere ricevuto con la tiara in mano. Ma anche Artavasde della Media Atropatene.» «Media Atropatene?» «Esatto. Ambedue sono rimasti impressionati dalla mia incursione nel Caucaso e hanno deciso che Roma vincerà questa guerra contro i Parti. Artavasde d’Armenia vuole la restituzione delle sue settanta valli nella Media Atropatene, e Artavasde della Media Atropatene vuole governare il regno dei Parti.» Antonio scoppiò a ridere. «Canidio, Canidio, che fortuna! Ma come faremo a distinguerli avendo lo stesso nome?» «Io chiamo Armenia quello dell’Armenia, e quello della Media Atropatene semplicemente Media.» «Non hanno particolari fisici che posso usare?» «Non questi! Si somigliano come gemelli… tutti quei matrimoni fra consanguinei, suppongo. Vesti e giubbe orlate di gale, barbe folte, riccioli, nasi aquilini, occhi e capelli neri.» «Sembrano dei Parti.» «Stessa razza, immagino. Sei pronto per riceverli?» «Uno o l’altro parlano il greco?» «No, nemmeno l’aramaico. Parlano solo le proprie lingue, e quella dei Parti.» «Meno male che c’è Monase.» Ma Antonio non poté contare ancora a lungo su Monase. Dopo aver fatto da interprete in diverse strane udienze tra partecipanti che non avevano la minima idea di ciò che pensavano i loro interlocutori, Monase decise di far ritorno a Nicephorium.

Come ricordò ad Antonio, dopotutto era il re degli arabi scheniti e doveva mettere il suo nuovo regno sul piede di guerra. Si profuse in ringraziamenti e assicurò che i tre uomini che aveva trovato per fare da interpreti d’ora in avanti avrebbero fatto meglio di lui, e partì verso sud.

«Vorrei potermi fidare di lui» disse Canidio a Enobarbo.

«Anch’io vorrei potermi fidare di lui, ma così non è. Dato che non possiamo più fermare gli eventi, tutto quello che noi due possiamo fare, Canidio, è offrire agli dèi la nostra speranza di sbagliarci.» «Oppure, se abbiamo ragione, che non ci sia nulla che Monase possa fare per rovinare i piani di Antonio.» «Mi sentirei più a mio agio se le dimensioni del nostro esercito fossero molto minori. È come un bambino con quelle catafratte armene! Ma come veterano di catafratte di Armenia e Partia, posso dirti che quelle armene non sono paragonabili a quelle dei nostri nemici» disse Canidio sospirando. «Le armature sono più sottili e deboli, e i cavalli non sono molto più grandi dei nostri. Quei lancieri secondo me indossano un’armatura di maglia piuttosto che catafratte vere e proprie, ma Antonio si vanta che gli siano stati affidati sedicimila cavalieri armeni in catafratta.» «Sedicimila cavalli in più da nutrire» disse Enobarbo.

«E possiamo fidarci di Armenia o Media più di quanto potremmo fidarci di Monase?» chiese Canidio.

«Di Armenia, forse. Di Media, niente affatto. Quanto dista Artaxata da qui?» chiese Enobarbo.

«Duecento miglia, forse meno.» «Dobbiamo andare fin laggiù?» «Nel bel mezzo degli armeni, vuoi dire? Purtroppo sì. Non sono mai stato entusiasta di questo avvicinamento dalla porta di servizio, sebbene abbia i suoi meriti se il terreno fosse meno arduo. Dovremo passare da Fraaspa, poi Ecbatana, poi Susa e quindi entrare in Mesopotamia. E Antonio forse pensa che le salmerie tengano il passo dell’esercito? Sicuramente no!» «Oh, è Marco Antonio» disse Enobarbo. «Appartiene alla scuola dei generali che credono che se desiderano fortemente una cosa la otterranno. E può avere molto successo in una campagna come quella di Filippi. Ma come si comporterà di fronte all’ignoto?» «Tutto si riduce a due domande, Enobarbo. La prima è: Monase è un traditore? E la seconda è: possiamo fidarci di Armenia? Se la risposta alla prima è negativa e la risposta alla seconda è positiva, Antonio riuscirà nell’impresa. Altrimenti no.»

Stavolta il convoglio delle salmerie venne diretto su Artaxata, la capitale dell’Armenia, quasi nel momento in cui era giunto a Carana, con grande insoddisfazione di Oppio Staziano, privato di riposo, di un bagno e di una donna, oltre alla possibilità di parlare con Antonio. Era sua intenzione consegnargli una lista di componenti del convoglio che pensava avrebbe potuto lasciare a Carana, in modo da ridurre la dimensione del convoglio e forse permettergli di accelerare un po’ il passo. Al contrario, gli giunse l’ordine di continuare ad avanzare, e portare con sé tutto quanto. Nel momento in cui avesse raggiunto Artaxata, doveva iniziare il viaggio verso Fraaspa. Ancora una volta, niente riposo, niente bagno e niente donne e nessuna possibilità di parlare con Antonio.

Il condottiero era irrequieto e ansioso di cominciare la campagna, convinto com’era di anticipare la marcia contro i Parti con il suo avvicinamento da una direzione secondaria. Senza dubbio qualcuno l’aveva messo in guardia che Fraaspa sarebbe stata la prima città parta a subire un assalto, c’erano troppi orientali e stranieri di tutti i tipi per mantenere un segreto così importante, ma Antonio contava sul ritmo di marcia, che intendeva fosse impetuoso come quello degli eserciti comandati a suo tempo da Cesare. Un esercito romano sarebbe giunto a Fraaspa con mesi di anticipo sulle previsioni.

Pertanto non si attardò ad Artaxata, ma riprese la marcia il più presto possibile cercando di mantenere la miglior linea retta d’avanzata possibile. Dopo cinquecento miglia da Artaxata in direzione di Fraaspa, in qualche modo il terreno non era altrettanto accidentato ed elevato come quello incontrato nel percorso da Carana ad Artaxata. Ma le guide della Media e dell’Armenia fecero presente ad Antonio che stava marciando nella direzione sbagliata, se voleva avere un passaggio più agevole.

Ogni catena di monti, piega o solco sul terreno correva da est verso ovest, e mentre sarebbe stato molto più facile passare a est del lago Matiane, un’enorme distesa d’acqua, l’unico passaggio tra i monti implicava la marcia lungo il suo versante occidentale, il che a sua volta significava attraversare molte catene di monti, da un crinale all’altro. All’estremità meridionale del lago, l’esercito doveva volgere a est prima di piombare su Fraaspa; un’altra catena di montagne tra i quattromila e i cinquemila metri d’altezza si stendeva verso occidente.

Sedici legioni, diecimila cavalleggeri gallici, cinquantamila unità di truppe straniere, sia di cavalleria sia di fanteria e sedicimila catafratti armeni, per un totale di centoquarantamila uomini, iniziarono a marciare. Di questi, più di cinquantamila erano cavalieri. Neppure Alessandro Magno aveva comandato un’armata così poderosa, pensò Antonio esultando, assolutamente certo che nessuna forza al mondo avrebbe potuto sconfiggerlo. Quale avventura, che impresa colossale! Finalmente avrebbe potuto eclissare Cesare.

Purtroppo, incrociarono ben presto il convoglio delle salmerie; quest’ultimo non aveva ancora attraversato il passo montuoso che portava verso il lago Matiane, quindi doveva ancora percorrere circa quattrocento miglia. Sebbene Canidio fece pressioni su Antonio affinché rallentasse il passo dell’esercito per restare a una distanza di sicurezza dalle salmerie, Antonio rifiutò questa idea, in parte a ragion veduta: se avesse mantenuto l’andatura di conserva con le salmerie, sarebbe arrivato troppo tardi a Fraaspa per conquistarla prima dell’inverno, anche se non avesse incontrato eccessiva resistenza da parte dei difensori della città. Inoltre, l’esercito procedeva ad andatura sostenuta, nonostante il continuo attraversamento dei monti. Antonio si accontentò di inviare un messaggio a Staziano dove gli diceva che avrebbe potuto separare alcuni elementi del convoglio dagli altri e cercare di accelerare alleggerendo il peso dei carri più adatti a proseguire il viaggio.

Il messaggio non raggiunse mai Staziano. All’insaputa delle guide e degli uomini destinati a procurare foraggio per gli animali, le truppe di Artavasde della Media e Monase si erano congiunte; quarantamila catafratti e arcieri seguivano le orme dei romani, mantenendosi a una distanza tale da non far intravedere la polvere che sollevavano. Quando il convoglio dei rifornimenti attraversò il passo che conduceva al lago Matiane, i carri erano disposti su un’unica fila a causa della strada troppo stretta, e Staziano decise di mantenerli così fino a quando il terreno fosse stato più pianeggiante. Diecimila catafratti della Media attaccarono ciascuna parte del convoglio simultaneamente. Con le comunicazioni sconvolte dall’attacco, Staziano ignorava cosa stesse accadendo, dove e quando, e non riuscì a decidere in quale punto inviare le due legioni di scorta con certezza. Mentre egli esitava, i suoi uomini vennero massacrati e quelli sopravvissuti all’attacco vennero passati a fil di spada per assicurarsi che Antonio non potesse essere informato di ciò che era successo ai suoi rifornimenti. E che bottino! Entro un giorno tutti i carri rimasti vennero dirottati e nord e a est verso la Media Atropatene, ben lontani dalla direzione dell’esercito romano, il quale poteva ora contare solo sulle provviste di cui disponeva per un mese, ed era rimasto privo di artiglieria e mezzi d’assedio.

Dopodiché, Monase si mise alla testa della parte di forze partiane, trentamila uomini, e sulla scia di Antonio ma senza intenzione di attaccarlo. Aveva aggiunto le due Aquile d’argento delle legioni di Staziano alle nove conquistate a Ecbatana: sette delle legioni di Crasso, ed ora quattro da quelle di Antonio.

L’ignaro Antonio raggiunse Fraaspa intatta, per constatare che era ben lontana dall’ammasso di mattoni di fango e case rudimentali che aveva immaginato; era una città vasta quanto Attaleia o Tralle, al riparo di enormi bastioni di pietra e fornita di molte porte possenti. Ad Antonio bastò uno sguardo per rendersi conto che avrebbe dovuto assediarla. Quindi aspettò insieme al suo esercito e costrinse gli abitanti di Fraaspa a rinchiudersi nella città, molto sollevato che i campi tutto intorno fossero ricchi di grano maturo che nessun Parto aveva pensato di bruciare, e vaste greggi di pecore ben pasciute. Avevano di che sfamarsi.

Giorno dopo giorno passava senza che le salmerie arrivassero.

«Dov’è Staziano, che la peste lo colga?» si chiese Antonio, conscio del fatto che uno su due delle staffette addette al foraggiamento non faceva ritorno all’accampamento.

«Cercherò di localizzarlo» disse Polemone, che aveva deciso di accompagnare i suoi frombolieri. Partì a cavallo con mille dei suoi cavalleggeri, salutando sfrontatamente i Parti che presidiavano le mura di Fraaspa, assolutamente sicuro di Antonio e del suo formidabile esercito.

I giorni si succedevano senza che Polemone facesse ritorno.

Senza alberi da abbattere per ottenere arieti, solo il numero dei romani faceva sì che i Parti restassero all’interno delle proprie fortificazioni; era chiaro che la città era ben approvvigionata e aveva risorse d’acqua. Un lungo, lento assedio. Il mese di luglio era arrivato ed era passato, e quello di sestile lo stava seguendo senza che ci fossero segni delle salmerie. Quell’ariete da ventiquattro metri! Avrebbe ridotto in pezzi le mura di Fraaspa.

«Affronta la realtà, Antonio» disse Publio Canidio settanta giorni dopo l’accampamento dell’esercito al di fuori di Fraaspa, «il convoglio dei rifornimenti non arriva perché non esiste più. Non abbiamo legno per costruire torri da assedio, né catapulte, né balestre, né altro. Fino a oggi abbiamo perso venticinquemila soldati stranieri mandati in cerca di foraggio, e oggi ho avuto un netto rifiuto da parte di cilici, giudei, siriani e cappadoci per inviarne altri. Ammetto che si tratta di venticinquemila bocche in meno da sfamare, tuttavia non abbiamo sufficiente cibo per sostenere il corpo e il morale dei soldati ancora per molto tempo. Da qualche parte là fuori, a detta delle nostre pattuglie, quelle che riescono a ritornare, almeno, c’è un esercito di Parti che sta facendo ciò che Fabio Massimo fece con Annibale.» Il suo stomaco in quei giorni gli pesava come se fosse di piombo, un segno che Antonio non poteva più ignorare per ciò che rappresentava: la consapevolezza della sconfitta. Le mura oscure di Fraaspa parevano prendersi gioco di lui e si sentiva perso e impotente come aveva immaginato nelle sue premonizioni da moltissimi mesi, o persino anni. Tutto quanto finiva in una parola: fallimento. Era questo il motivo del senso di malinconia che l’aveva avvinto? Perché aveva perso la sua fortuna? E dov’era il nemico? Perché i Parti non attaccavano, se era vero che avevano annientato i suoi rifornimenti? Un timore ancora peggiore, orribile, lo pervadeva: non gli sarebbe stata neppure offerta la possibilità di combattere, per morire gloriosamente sul campo come era successo a Crasso, che nelle ultime ore di vita aveva trovato una via di redenzione da tutti i terribili errori commessi di una campagna malriuscita.

Soltanto per quel motivo il nome di Crasso era citato con rispetto e dolore per la sua testa accecata issata sulle mura di Artaxata. Ma il nome di Antonio, chi l’avrebbe ricordato se non ci fosse stata una battaglia?

«Non intendono attaccarci finché ce ne staremo qui fuori, non è così?» chiese a Canidio.

«È così che la penso, Marco» disse Canidio, celando la compassione; sapeva cosa stava pensando Antonio.

«E anch’io la vedo così» disse Enobarbo, aggrottando le ciglia. «Non ci verrà offerta una battaglia, vogliono farci morire lentamente e per cause naturali, senza affrontarci con la spada. Abbiamo anche avuto un traditore in mezzo a noi, che gli ha riferito tutto: Monase.» «Oh, non voglio che finisca così!» gridò Antonio, ignorando il riferimento a Monase. «Mi serve più tempo! Fraaspa non può vivere con acqua e cibo razionati, nessuna città possiede abbastanza risorse al suo interno, nemmeno Ilio! Se insistiamo ancora un po’ di tempo vi dico che Fraaspa si arrenderà.» «Potremmo prenderla d’assalto» disse Marco Tizio. Nessuno si prese la briga di rispondergli; Tizio era un questore, giovane, avventato e pronto a tutto.

Antonio sedette sulla sedia curule d’avorio e fissò un punto lontano, il viso quasi rapito. Infine si scosse dalle sue fantasticherie e guardò Canidio. «Quanto ancora possiamo restare qui, Publio?» «È l’inizio di settembre. Al massimo un altro mese, poi sarà troppo tardi. Se non entreremo a Fraaspa prima dell’inverno, dovremo ritirarci fino ad Artaxata seguendo a ritroso il cammino dell’andata. Cinquecento miglia. I legionari ce la faranno in trenta giorni, se motivati, ma la maggior parte dei nostri ausiliari sono fanti, e non potranno reggere il passo. Ciò significa dividere l’esercito per preservare le legioni. I cavalieri gallici che sono scampati alle missioni di foraggiamento ce la faranno, ci dovrebbe essere ancora erba a sufficienza per i cavalli. A meno che migliaia di catafratti l’abbiano già ridotta in fango e poltiglia. Come tu ben sai, Antonio, senza pattuglie annaspiamo come ciechi in una basilica.» «È vero» Antonio fece un sorriso sardonico. «Dicono che Pompeo Magno si ritirò quando era a tre giorni di marcia dal Mar Caspio perché non sopportava i ragni, ma sarei felice di avere un milione di ragni grossi e pelosi solo in cambio di un rapporto affidabile su ciò che ci aspetta sulla via della ritirata, se decidessi di ritirarci.» «Ci andrò io» disse Tizio prontamente.

Gli altri lo fissarono.

«Se gli esploratori armeni non sono ritornati, Tizio, perché credi di poterlo fare tu?» chiese Antonio; era affezionato a Tizio, il nipote di Planco, e cercò di dissuaderlo con gentilezza. «No, grazie per l’offerta, ma dobbiamo continuare a usare gli armeni come esploratori. Nessun altro potrebbe sopravvivere.» «Ecco perché!» disse Tizio convinto. «Perché sono nemici, Marco Antonio, nonostante quello che ci vogliono far credere. Sappiamo tutti che gli armeni sono traditori quanto i medi. Lascia che vada! Ti prometto di badare a me stesso.» «Quanti uomini vuoi portare con te?» «Nessuno, Publio Canidio. Solo io a cavallo di un cavallino del posto. Del colore dei campi. Indosserò brache e un vestito di pelle di pecora, della stessa tinta. E forse porterò con me una dozzina di cavallini, per sembrare un allevatore o un mandriano, o roba del genere.» Antonio rise e diede un colpo sulla spalla di Tizio. «Perché no? Sì, Tizio, vai!

Però… ritorna.» Riuscì a fare un ampio sorriso. «Tu devi tornare! L’unico questore che abbia mai conosciuto che se la cavasse peggio di te nell’addizionare cifre era un certo Marco Antonio, ma era al servizio di un padrone molto esigente: Cesare.» Nessuno della tenda del comando assistette alla partenza di Marco Tizio per la sua missione, poiché nessuno voleva ricordare in futuro il suo viso vispo e lentigginoso se non come quello di un fastidioso questore, Tizio, incaricato delle finanze dell’esercito e assolutamente incapace di gestire le proprie.

Era passato un nundinum quando il vento cambiò direzione, iniziando a spirare da nord. Con il vento arrivarono pioggia e nevischio. Proprio quel giorno, alcuni abitanti di Fraaspa arrostirono delle pecore in cima alle mura, e l’odore di arrosto pervase il vasto accampamento della pianura: un modo per dire agli assedianti che Fraaspa aveva cibo in abbondanza per l’inverno, e che non si sarebbe arresa.

Antonio convocò un consiglio di guerra, non un incontro dei suoi comandanti principali ma un raduno di cui facevano parte tutti i legati e i tribuni, oltre ai centurioni di grado primipilus e pilus prior sessanta uomini in tutto. Un numero perfetto per fare una comunicazione personale; poteva essere sentito da tutti senza il fastidio di avere araldi a seguire il suo discorso e trasmetterlo all’esterno. I convenuti si scambiarono sguardi d’intesa: non era presente alcuno straniero. Una riunione destinata alle legioni anziché a tutto l’esercito.

«Senza attrezzature per porre in atto un assedio non possiamo prendere Fraaspa» iniziò Antonio, «e la piccola esibizione di oggi ci dice che i suoi abitanti possono permettersi di mangiare bene. Siamo accampati qui da cento giorni e abbiamo consumato tutto quanto poteva offrire la campagna circostante, ma a un prezzo: la perdita di due terzi dei nostri ausiliari a cavallo.» Trasse un respiro e cercò di apparire fermamente risoluto, un generale nel pieno comando di se stesso e della situazione generale. «È tempo di andare, soldati» disse. «Dal tempo di questa giornata possiamo capire che l’estate ha lasciato bruscamente il posto al pieno inverno, e ciò alla fine di settembre. Domani, le calende di ottobre, marceremo verso Artaxata. Un fatto che gli abitanti di Fraaspa non si aspettano è la velocità delle legioni in movimento. Quando si alzeranno dai loro letti domattina, tutto ciò che resterà della nostra presenza saranno i fuochi dell’accampamento. Ordinate ai vostri uomini di portare con sé il fabbisogno di grano per un mese; i muli delle centurie dovranno essere usati per trasportare legno e legna da ardere, e i muli che tirano i carri dovranno essere trasformati in animali da soma. Ciò che non potremo portare a spalla e sui muli dovrà essere abbandonato. Portare cibo e materiale combustibile, tutto il resto lo lasceremo qui.» Molti si aspettavano questo annuncio, ma a nessuno piaceva ascoltarlo. Tuttavia, Antonio poteva essere sicuro di un fatto: questi uomini erano romani, e non avrebbero compianto il fato destinato agli ausiliari, tollerati ma mai apprezzati.

«Centurioni, da ora fino ai primi albori di domani ogni legionario deve conoscere la situazione e capire cosa deve fare per sopravvivere alla marcia. Non ho idea di cosa ci aspetta là fuori, in vista della nostra ritirata, ma le legioni romane non cedono mai, né lo faranno per la marcia imminente. Il terreno che incontreremo richiederà circa un mese per raggiungere Artaxata, specialmente con la pioggia e il nevischio.

Ciò significa fango e gelo. Ogni uomo dovrà estrarre le calze dal suo zaino, tanto meglio se dispone di calze di pelo di coniglio o di pelle di furetto. Stare con i piedi asciutti sarà l’elemento principale della battaglia, perché questa è l’unica battaglia che ci attende. I Parti sono là fuori e usano tattiche simili a quelle di Fabio: affronteranno chi rimane indietro ma eviteranno di impegnarci in massa. La cosa peggiore è che non disponiamo neppure di sufficiente legna da ardere tra qui e Artaxata, quindi no ai fuochi per riscaldarsi. Gli uomini sorpresi a bruciare picchetti, parti di parapetto, o aste del pilum saranno fustigati e decapitati, queste armi ci potranno essere utili per rintuzzare gli attacchi dei Parti. Né possiamo contare su alcun ausiliario straniero, ivi compresi gli armeni. Le sole truppe che Roma si aspetta che preserviamo sono le sue legioni.» Ci fu un attimo di silenzio, interrotto da Canidio.

«Formazione di marcia, Antonio?» «Agmen quadratum quando il terreno è abbastanza pianeggiante, Canidio, e in caso contrario sempre e comunque in quadrato. Non m’importa quanto possa essere stretto un sentiero, non marceremo mai in fila, sono stato chiaro?» Mormorii ovunque.

Enobarbo aprì bocca per fare un’altra domanda quando ci fu una certa agitazione ai margini del gruppo; alcuni uomini si spostarono per lasciar passare Marco Tizio e raggiungere Antonio, i volti erano tutti sorridenti e qualcuno diede una pacca sulla spalla al questore che era tornato.

«Tizio, amico mio!» esclamò Antonio, deliziato. «Hai trovato i Parti? Qual è la situazione reale?» «Sì, Marco Antonio, li ho trovati» disse Tizio, scuro in volto. «Sono quarantamila, al comando del nostro amico Monase: l’ho visto chiaramente in diverse occasioni, e cavalcava indossando una maglia d’oro e con una corona nobiliare sull’elmo. Un principe dei Parti altrettanto importante di Pacoro, secondo la descrizione di Ventidio.» Il fatto nuovo su Monase non fu più una sorpresa, a questo punto, anche per Antonio, il suo più tenace sostenitore. Re Fraate li aveva giocati, mettendo un traditore in mezzo a loro.

«Quanto sono distanti?» chiese Fonteio.

«Circa trenta miglia, proprio tra noi e Artaxata.» «Catafratti? Arcieri a cavallo?» chiese Canidio.

«Ambedue, ma soprattutto arcieri a cavallo» Tizio fece un mezzo sorriso.

«Suppongo che siano a corto di catafratti, dopo la campagna di Ventidio, circa cinquemila, non di più. Ma una massa di arcieri. Un intero esercito a cavallo, e hanno fatto un buon lavoro radendo l’erba del terreno: con questa pioggia, i nostri uomini sguazzeranno in mezzo al fango.» Si fermò, volgendo uno sguardo interrogativo ad Antonio. «Almeno, presumo che stiamo preparando una ritirata?» «Esatto. Sei ritornato giusto in tempo, Tizio. Ancora un giorno, e non ci avresti più trovati qui.» «Altri fatti da riferire?» chiese Canidio.

«Solamente che non si comportano come guerrieri in attesa di combattere.

Sembrano intenzionati a rimanere sulla difensiva. Certo, faranno delle incursioni, ma a meno che Monase sia un comandante migliore di quanto io pensi si preoccupa soltanto di pavoneggiarsi dandosi importanza; dovremmo essere in grado di respingere qualsiasi attacco intenda sferrare contro di noi se avremo sufficiente preavviso.» «Non avremo bisogno di preavviso, Tizio» disse Enobarbo. «Marceremo in agmen quadratum, e quando non sarà possibile, comunque in quadrato.»

La riunione si ridusse a una discussione di questioni logistiche: quale delle quattordici legioni doveva prendere la testa, quale la coda, quanto spesso gli uomini all’esterno di ogni quadrato dovessero riposare entrando all’interno del quadrato stesso ed essere rimpiazzati, le dimensioni di ciascun quadrato, quanti muli da soma potevano far parte di un quadrato nelle sue dimensioni minime… mille e più decisioni da prendere prima ancora che il primo piede calzato nella sua caliga iniziasse a marciare.

Infine Fonteio chiese ciò che nessun altro avrebbe osato. «Antonio, gli ausiliari.

Trentamila fanti. Che ne sarà di loro?» «Se riescono a mantenere il passo, possono formare la nostra retroguardia, in quadrato. Ma non ci riusciranno, Fonteio, questo lo sappiamo tutti.» Gli occhi di Antonio divennero lucidi. «Me ne rammarico molto, e come triumviro dell’Oriente sono responsabile per loro, ma le legioni devono essere preservate a ogni costo.

Curioso, sto ancora pensando di avere sedici legioni, ma naturalmente non è così. Le due di Staziano non esistono più da tempo.» «Compresi i non combattenti, ottantaquattromila uomini. Sufficienti per formare un fronte formidabile anche se non sono in grado di marciare agmen. Abbiamo ancora quattromila cavalieri gallici e altri quattromila galatiani per proteggere i nostri fianchi, ma se non c’è abbastanza erba, saranno nei guai prima che abbiamo percorso metà del cammino» commentò Canidio.

«Manda loro avanti, Antonio» suggerì Fonteio.

«E rendere il terreno ancora più spoglio? No, viaggeranno con noi, e sui nostri fianchi. Se non ce la faranno ad affrontare tutti gli arcieri e i catafratti che Monase manderà loro contro, almeno potranno entrare nei nostri quadrati. La mia cavalleria gallica mi sta particolarmente a cuore, Fonteio. Si sono offerti volontari in questa campagna, e sono distanti mezzo mondo dalla loro patria» disse Antonio, alzando le mani. «Bene, rompete le righe. Marceremo alle prime luci del giorno, e voglio che tutti siano in movimento al levar del sole.» «Agli uomini non piacerà ritirarsi» disse Tizio.

«Ne sono ben conscio!» disse seccamente Antonio. «Per questo motivo intendo comportarmi come un Cesare. È mia intenzione essere presente in ciascuna colonna per parlare con gli uomini, anche se mi ci vorrà un nundinum.»

L’agmen quadratum era una formazione in cui un esercito di forza sufficiente si estendeva in colonne lungo un ampio fronte, pronte in un istante ad accorrere ai posti di combattimento. Inoltre, consentiva anche la formazione di quadrati molto velocemente. Era giunto il momento in cui anche il più ottuso tra i soldati capiva l’importanza dei giorni, mesi o anche anni di addestramento spietato; le sue manovre dovevano essere reazioni automatiche, senza bisogno di pensare.

Con la fanteria degli ausiliari che seguiva questo fronte di legionari largo un miglio, la ritirata iniziò in buon ordine, sebbene spirasse un pungente vento da nord che faceva gelare il fango e lo trasformava in una distesa aguzza di increspature simili a coltelli: scivolosa, pericolosa e lacerante.

La velocità migliore delle legioni era di venti miglia al giorno, ma anche questa era troppo per gli ausiliari. Il terzo giorno, mentre Antonio rendeva ancora visita ai suoi soldati, dispensando battute e previsioni di vittoria per l’anno a venire, ora che sapevano come comportarsi, Monase e i Parti attaccarono la retroguardia, con gli arcieri che facevano dozzine di vittime ogni volta. Pochi morivano, ma quelli troppo feriti per mantenere il passo dovevano essere lasciati per strada; mentre l’enorme distesa d’acqua del lago Metiane incombeva come un mare, quasi tutti gli ausiliari erano svaniti, nessuno poteva dire se per esecuzione dei Parti o verso una vita di schiavitù.

Il morale era sorprendentemente elevato sino a quando il terreno divenne così ripido da far abbandonare le formazioni in colonna a favore dei quadrati. Ogni volta che poteva, Antonio fece assumere ai quadrati la dimensione di una coorte, cioè sei centurie di uomini in marcia in file di quattro intorno ai quattro lati del quadrato, con gli scudi della fila più esterna issati per proteggersi, come il carapace di un’enorme tartaruga. All’interno del quadrato c’erano i non combattenti, i muli e quella piccola porzione di artiglieria che aveva sempre viaggiato con le centurie: scorpioni per lanciare dardi di legno e catapulte di dimensioni ridotte. Se attaccato, un quadrato dispiegava tutti i lati per combattere, con la fila posteriore di soldati che imbracciava lunghe lance da assedio pronte a colpire le pance dei cavalli spinti a saltare all’interno, apparentemente una cosa che Monase non sembrava pronto a fare. Se i catafratti scarseggiavano tra i Parti grazie al buon Ventidio, occorreva ancor più tempo per allevare cavalli abbastanza possenti.

I giorni passavano a un misero ritmo di diciassette o diciannove miglia di ascensioni e discese dai monti. Tutti ora erano consci che i Parti li inseguivano. Ci fu una serie di scaramucce tra la cavalleria gallica e galatiana da una parte e i catafratti parti dall’altra, ma l’esercito proseguiva in buon ordine e con morale soddisfacente.

Fino a quando, durante l’ascensione di picchi montuosi ancora maggiori per azzardarsi al passaggio di un valico a oltre tremila metri di altitudine, incontrarono una bufera di neve quale non si era mai verificata in Italia. Neve accecante come un muro bianco invisibile, venti che ululavano e il tipo di superficie che scivolava via da sotto i piedi lasciando gli uomini immersi fino alle cosce in cristalli polverosi.

Con il peggioramento del tempo, l’umore di Antonio e dei suoi legati migliorava, incaricandosi di distribuire le razioni tra i vari segmenti dell’esercito ed esaltare i soldati dicendo loro quanto erano valorosi, coriacei e senza lamentele. I quadrati ora si erano ridotti a manipoli e gli uomini marciavano in fila per tre anziché quattro.

Dopo il passo, si sarebbero dovuti riformare i quadrati a livello di centurie, ma né Antonio né altri pensavano che il passo fosse il posto adatto per un attacco: mancava lo spazio.

La cosa peggiore era che sebbene lo zaino di ciascun legionario fosse ben fornito di brache di lana, calze, il magnifico sagum circolare impermeabile e sciarpe, i soldati pativano il gelo, impossibilitati a riscaldarsi intorno a un fuoco. Dopo aver completato due terzi dell’itinerario, l’esercito alla fine era rimasto privo della sua risorsa più preziosa: la carbonella. Nessuno poteva più sfornare il pane, né cucinare stufato di piselli; gli uomini avanzavano masticando granelli crudi di frumento, il loro unico sostentamento. La fame, il gelo e le malattie iniziarono a far sentire il loro peso al punto che persino Antonio non riusciva a incoraggiare il più ottimista dei suoi soldati, che brontolavano di morte nella neve e di non rivedere mai più il mondo civile.

«Portaci solo oltre il passo!» gridò Antonio alla sua guida armena, Ciro. «Ci hai ben condotti per due nundinae.. Non abbandonarmi proprio adesso, Ciro, te ne prego!» «Non lo farò, Marco Antonio» disse Ciro nel suo pessimo greco. «Domani i primi quadrati inizieranno a oltrepassarlo, poi ti guiderò dove potrai rifornirti di carbonella.» La sua faccia divenne scura. «Tuttavia devo metterti sull’avviso, Marco Antonio, di non fidarti del re d’Armenia. È sempre rimasto in contatto con il suo fratello, re della Media, e sono entrambi creature di re Fraate. Temo che il tuo convoglio di rifornimenti fosse una tentazione troppo forte per loro.» Stavolta Antonio ascoltò, ma mancavano ancora cento miglia ad Artaxata e l’umore delle legioni diventava sempre più tetro, minacciando di trasformarsi in insurrezione.

«Anche l’ammutinamento» disse Antonio a Fonteio mentre metà delle sue truppe aveva attraversato il passo e l’altra metà lo stava facendo o attendeva di farlo. «Non oso mostrarmi in giro.» «Questo vale per tutti noi» rispose Fonteio tristemente. «Mangiano grano crudo da sette giorni, hanno gli alluci congelati e molti li hanno persi, e anche i nasi. È terribile! E dicono che la colpa è tua, Marco… tua e soltanto tua. Gli scontenti dicono in giro che non avresti mai dovuto perdere di vista il convoglio delle provviste.» «Non dipende tutto da me» disse Antonio desolato, «è l’incubo di questa campagna infruttuosa che non ha permesso agli uomini di dimostrare in battaglia di che stoffa sono fatti. Come la vedono loro, tutto quello che hanno fatto è stato stare fermi in un accampamento per cento giorni, guardando una città che gli faceva il segno del medicus… andate a farvi fottere, romani! Pensate di essere grandi? Be’, non lo siete. Capisco che…» si interruppe quando Tizio arrivò di corsa, con aria impaurita.

«Marco Antonio, c’è aria di ammutinamento!» «Dimmi qualcosa che non so già, Tizio.» «No, ma stavolta per davvero! Stanotte o domani, o entrambi. Si tratta di almeno sei legioni.» «Grazie, Tizio. Adesso occupati di contabilità, o conta le paghe dovute ai soldati, o qualcos’altro… qualsiasi cosa!» Tizio se ne andò, per una volta senza indicare una soluzione.

«Lo faranno stanotte» disse Antonio.

«Sì, sono d’accordo» rispose Fonteio.

«Mi aiuterai a gettarmi sulla mia spada per uccidermi, Caio? Una delle cose più fastidiose dell’avere un petto e delle braccia così muscolose è che limitano la mia portata. Non riesco a impugnare bene l’elsa della mia spada per dare un colpo profondo e sicuro.» Fonteio non discusse. «Sì.» I due passarono tutta la notte fianco a fianco in una piccola tenda dalle falde di cuoio, aspettando l’inizio dell’ammutinamento. Per Antonio, già sconvolto, era la fine adatta della peggior campagna mai intrapresa da un generale romano sin dai tempi in cui Carbo era stato fatto a pezzi dai cimbri germanici, o dalla fine dell’esercito di Caepio ad Arasio, o peggio ancora da quando Paullo e Varro erano stati annientati a Canne da Annibale. Neppure un solo fatto d’arme illuminava l’abisso di una sconfitta totale! Perlomeno gli eserciti di Carbo, Caepio, di Paullo e Varro erano periti in combattimento! Mentre alla sua poderosa armata non era stata offerta la pur minima occasione di mostrare il suo nerbo, nessuna battaglia, solo impotenza.

Non posso biasimare i miei soldati se hanno deciso di ammutinarsi, pensava Antonio mentre sedeva con la spada sguainata in grembo, pronto a morire. Impotenti.

Ecco come si sentono, proprio come me. Come potranno raccontare ai loro nipotini di aver preso parte alla spedizione di Marco Antonio nella Media Partia senza sputare su quel ricordo? Un fatto meschino, putrido, assolutamente privo di orgoglio e distinzione. Miles gloriosus, ecco Antonio. Il soldato vanaglorioso. Materiale perfetto per una farsa. Borioso, che si mette in posa, pieno di sé e della sua importanza. Ma il suo successo è nullo come lui. Una caricatura d’uomo, uno scherzo di soldato, un fallito come generale. Antonio il Grande. Ah, ah!

Poi l’ammutinamento svanì nell’aria fresca di quel passo elevato come se nessun legionario ne avesse mai parlato. Il mattino vide gli uomini continuare l’attraversamento e a pomeriggio inoltrato il passo era dietro le loro spalle. Da qualche parte, Antonio trovò la forza di andare tra i soldati, fingendo di non aver mai avuto il minimo sentore di un ammutinamento.

Ventisette giorni dopo aver levato le tende davanti a Fraaspa, le quattordici legioni e una manciata di cavalleria alleata raggiunsero Artaxata, con gli stomaci pieni di un po’ di pane e tanta carne di cavallo quanta ne poterono digerire. La guida Ciro aveva detto ad Antonio dove saccheggiare abbastanza carbonella per cucinare.

La prima cosa che fece Antonio ad Artaxata fu di consegnare alla guida Ciro una sacca di monete e due buoni cavalli, e spedirlo via al galoppo per la strada più breve che conduceva a sud. La missione di Ciro era urgente, e segreta, specialmente per quanto riguardava Artavasde. La sua destinazione era l’Egitto, dove avrebbe dovuto chiedere udienza alla regina Cleopatra; le monete che Antonio gli aveva dato, coniate ad Antiochia l’inverno precedente, erano il suo passaporto per la regina. Fu istruito di chiederle di venire a Leuke Kome a recare aiuto per le truppe di Antonio. Leuke Kome era un porticciolo vicino a Berytus in Siria, un porto molto meno frequentato di altri come Berytus, Sidone o toppa.

Ciro partì pieno di gratitudine e alla svelta; restare in Armenia dopo la partenza dei romani per lui avrebbe significato una condanna a morte, poiché aveva guidato i romani sulla strada giusta, e questo non era ciò che Artavasde d’Armenia aveva desiderato. Si aspettava che i romani vagabondassero, persi senza cibo né materiale combustibile finché non fossero morti tutti.

Ma con quattordici legioni sebbene a ranghi ridotti accampate al caldo alla periferia di Artaxata, re Artavasde non aveva altra scelta se non di adulare servilmente Antonio e implorarlo di svernare in Armenia. Senza credere a una sola parola di Artavasde, Antonio rifiutò l’invito. Costrinse il re ad aprire i suoi granai, poi, adeguatamente rifornite, le legioni ripresero il cammino alla volta di Carana, tra le tempeste e la neve. I legionari, apparentemente assuefatti a quel clima, avanzarono lungo quelle ultime duecento miglia con grande piacere poiché potevano accendere fuochi per scaldarsi di notte. Il legno scarseggiava anche in Armenia, ma gli abitanti di Artaxata non avevano osato discutere quando i soldati romani erano piombati sulle loro cataste di legno per confiscarle. Il pensiero degli armeni che sarebbero morti di freddo non commuoveva affatto i romani. Loro non avevano dovuto marciare masticando grano crudo grazie al tradimento di un orientale!

Antonio giunse a Carana, da dove era partita la spedizione nelle calende di maggio, circa a metà novembre. Tutti i legati avevano visto in lui l’umore basso, la confusione, ma solo Fonteio sapeva quanto era stato vicino al suicidio. Sapendo ciò, ma molto riluttante a metterne al corrente Canidio, Fonteio pensò che toccava a lui persuadere Antonio di proseguire a sud verso Leuke Kome. Una volta là avrebbe potuto, se necessario, inviare un altro messaggio a Cleopatra.

Prima, però, Antonio venne reso edotto del lato peggiore della situazione da un inflessibile Canidio. I rapporti tra i due non erano mai stati sempre amichevoli, dato che Canidio aveva saputo immaginare sin dall’inizio della campagna la piega che avrebbe preso in futuro ed era stato da subito favorevole all’idea di ritirarsi. Né aveva approvato il modo in cui fu composto e in seguito condotto il convoglio delle salmerie. Tuttavia, tutto ciò apparteneva ormai al passato e si era fatto una ragione delle sue opinioni e ambizioni. Il suo futuro era al fianco di Marco Antonio, nonostante tutto.

«Il censimento è pronto e completo, Antonio» disse con aria accigliata. «Nessun sopravvissuto della fanteria ausiliaria, circa trentamila. Si sono salvati seimila dei diecimila cavalleggeri gallici, ma nessuno dei cavalli. La cavalleria galatiana è ridotta a quattromila unità su diecimila, ma nessun cavallo. Tutti macellati per cibare l’esercito durante le ultime cento miglia della ritirata. Delle nostre sedici legioni, due, quelle di scorta a Staziano, sono svanite senza lasciare traccia. Le altre quattordici hanno sostenuto perdite pesanti ma non letali, per la maggior parte dovute a congelamento. Gli uomini privi delle dita dei piedi dovranno essere ritirati e rimpatriati su carri. Non possono marciare, ovviamente. Tuttavia, il sagum ha salvato molte dita. Ciascuna legione eccettuate le due di Staziano erano al massimo degli effettivi, circa cinquemila soldati e più di mille non combattenti. Ora, ogni legione conta meno di quattromila soldati e circa cento non combattenti.» Canidio trasse un profondo respiro e guardò intorno, evitando però il volto di Antonio. «Queste sono le cifre. Fanteria ausiliaria, trentamila. Cavalleria ausiliaria, diecimila, più ventimila cavalli. Legionari, quattordicimila non più in grado di combattere, più gli altri ottomila al comando di Staziano. Infine, novemila non combattenti, per un totale complessivo di settantamila uomini e ventimila cavalli. Ventiduemila sono le perdite tra i legionari. Metà dell’esercito, per quanto non quella migliore. Non tutti morti per fortuna, anche se è come se lo fossero.» «Sarebbe meglio dire» disse Antonio con voce tremula, «un terzo morti e un quinto incapaci di combattere. Oh, Canidio, queste enormi perdite senza aver combattuto una sola battaglia! Non posso neppure dichiararmi vittima di un’altra Canne.» «Almeno nessuno di loro ha dovuto passare sotto il giogo, Antonio. Non è un disonore, ma semplicemente un disastro dovuto al tempo avverso.»

«Fonteio sostiene che dovrei proseguire per Leuke Kome e aspettare la regina, e se necessario inviarle un altro messaggio.» «Buona idea. Vai, Antonio.» «Conduci l’esercito meglio che potrai, Canidio. Calze di pelo o di cuoio per tutti, e se incontri una tempesta di neve lascia che passi e fai accampare gli uomini.

Costeggia il fiume Eufrate e immagino che il clima sarà più mite. Falli muovere, comunque, e prometti loro un’avventura nei Campi Elisi quando saranno a Leuke Kome: sole caldo, cibo abbondante, e tutte le puttane che riuscirò a trovare in tutta la Siria.»

La clemenza aveva fatto la stessa fine dei cavalli quando avevano trovato la carbonella tra il passo montuoso e Artaxata. Con le gambe penzolanti sin quasi a terra, Antonio partì da Carana su un cavallino locale, accompagnato da Fonteio, Marco Tizio ed Enobarbo.

Raggiunse Leuke Kome un mese dopo, e trovò il piccolo porto in subbuglio al suo arrivo. Cleopatra non era arrivata, e non c’era alcun messaggio dall’Egitto. Antonio spedì Tizio ad Alessandria, ma con scarse speranze; non aveva voluto che Antonio si imbarcasse in quella campagna, e non era donna incline al perdono. Non ci sarebbero stati aiuti, né denaro per rappezzare ciò che era rimasto delle legioni, e mentre lui poteva consolarsi di essere riuscito almeno a riportare indietro le sue legioni, per quanto decimate ma non annientate, si aspettava che Cleopatra si rammaricasse per i soldati ausiliari persi.

Venne colto dalla depressione e da una disperazione così profonda che si dette al bere, incapace di sopportare il pensiero del freddo glaciale, dei piedi in cancrena, dell’ammutinamento in una terribile notte, di file e file di facce ostili, di cavalieri che lo accusavano di avergli fatto perdere i loro beneamati cavalli, delle sue decisioni patetiche, sempre sbagliate e sempre disastrose. Lui e nessun altro portava la colpa di tutti quei morti, di tutta quella miseria umana. Oh, era insopportabile! Quindi bevve sino a raggiungere l’oblìo, e continuò a bere.

Venti o trenta volte al giorno usciva barcollando dalla tenda, con un bicchiere colmo tra le mani, si trascinava a fatica fino alla costa e guardava verso l’imboccatura del porto, dove non c’era traccia di navi o di vele.

«Arriva?» chiedeva a chiunque gli si avvicinasse. «Arriva? Arriva?» La gente lo prendeva per matto, e scappava ogni volta che lo vedeva emergere dalla tenda. Chi doveva arrivare?

Ritornato nella tenda, si chiudeva dentro e continuava a bere, poi usciva: «Arriva?

Arriva?».

Gennaio lasciò il posto a febbraio, poi finì febbraio e lei non arrivava, né inviava messaggi. Nulla, né da Ciro né da Tizio.

Infine le gambe di Antonio non lo sostenevano più; allora penzolava sulla fiasca di vino nella sua tenda e cercava di dire «Arriva?» a chiunque entrasse.

«Arriva?» chiese al movimento di un lembo della tenda all’inizio di marzo, un farfugliamento privo di senso per chi non sapeva da tempo cosa cercasse di dire.

«Lei è qui» disse una voce soave. «Lei è qui, Antonio.»

Sudicio, puzzolente, in qualche modo Antonio riuscì a rizzarsi in piedi, poi ricadde in ginocchio e lei si abbassò verso di lui, cullandogli la testa tra il seno mentre Antonio non smetteva di piangere.

Era inorridita, anche se il termine era una parola inadatta persino a cercare di descrivere le emozioni che si accavallavano nella mente di Cleopatra e le devastavano il corpo nei giorni seguenti, quando parlava con Fonteio ed Enobarho.

Una volta che Antonio aveva finito di piangere e si era addormentato, gli fecero un bagno e lo adagiarono su un letto più comodo del lettino militare da campo. Il procedimento doloroso di riaversi dalla sbronza e riuscire a fare a meno del vino mise a dura prova l’abilità di Cleopatra; non era un paziente facile, dato il suo stato d’animo: si rifiutava di parlare, si infuriava quando gli veniva negato il vino e sembrava rimpiangere di aver voluto che Cleopatra fosse accanto a lui.

Quindi furono Fonteio ed Enobarbo a parlare con lei, il primo molto volenteroso nell’essere di aiuto in tutti i modi possibili, e il secondo non faceva alcuno sforzo per mascherare la disapprovazione e il disprezzo che provava nei suoi confronti.

Cleopatra decise di dividere le cose terribili che le venivano riferite in categorie, nella speranza che affrontando le cose in maniera logica e sequenziale, riuscisse a capire con maggior chiarezza come comportarsi per guarire Marco Antonio. Se doveva sopravvivere, doveva guarire!

Da Fonteio venne a conoscenza dell’intera storia di quella maledetta campagna, compresa la notte in cui il suicidio era sembrato l’unica alternativa. Delle bufere di neve, del ghiaccio e della neve fino alle cosce non aveva alcuna cognizione, avendo visto la neve solo durante i due inverni passati a Roma, e non erano stati rigidi, come a suo tempo le venne assicurato; il Tevere non era gelato e le poche nevicate sparse le erano sembrate una cosa incantevole, un mondo completamente silenzioso ricoperto di bianco. Nulla, ammise, lontanamente paragonabile alla ritirata da Fraaspa.

Enobarbo si concentrò maggiormente a dipingere quadri grafici per lei, di piedi e nasi corrosi dalla morsa del gelo, di uomini che masticavano grano crudo, di Antonio impazzito per il tradimento di tutti i suoi alleati e le sue guide.

«Voi avete pagato per questa sconfitta» disse Enobarbo, «senza neppure soffermarvi a pensare all’equipaggiamento mancante e che invece era necessario, come vestiti più pesanti per i legionari.» Cosa poteva rispondere? Che questo non spettava a lei, ma era un fatto circoscritto alla provincia di Antonio e al suo praefectus fabrum? Se l’avesse detto, Enobarbo avrebbe attribuito la sua risposta alla sua autoconservazione a spese di Antonio; chiaramente non era disposto a sentire critiche su Antonio, preferendo attribuire a lei la colpa proprio perché il denaro di Cleopatra era servito a finanziare la spedizione.

Quindi lei disse: «Tutto era già predisposto quando resi disponibile il mio denaro.

Come avrebbe potuto Antonio condurre la sua campagna se il mio denaro non fosse arrivato?».

«Non ci sarebbe stata alcuna campagna, regina! Antonio avrebbe continuato a rimanere in Siria, con debiti colossali verso i fornitori di tutto, dalle cotte di maglia all’artiglieria.»

«E voi avreste preferito che proseguisse così anziché avere il denaro con cui pagare ed essere in grado di condurre la sua campagna?» «Sì!» sbottò Enobarbo.

«Questo implica che non lo considerate un generale capace.» «Lascio a voi le conclusioni, regina. Non dirò altro» ed Enobarbo se ne andò infuriato, sprizzando odio.

«Ha ragione, Fonteio?» chiese al suo informatore bendisposto. «Marco Antonio è incapace di condurre grandi imprese?» Sorpreso e turbato, Fonteio maledì tra sé e sé la lingua dell’irascibile Enobarbo.

«No, Vostra Maestà, non ha ragione, ma non stava proprio dicendo ciò che voi pensate. Se non aveste accompagnato l’esercito sino a Zeugma con l’intenzione di proseguire oltre, ed espresso il vostro pensiero nei consigli, uomini come Enobarbo non avrebbero alcuna critica da muovervi. Ciò che stava dicendo era che voi avete rovinato la spedizione insistendo affinché fosse condotta in un certo modo… che, senza di voi, Antonio si sarebbe comportato in maniera diversa, e non avrebbe subìto una sconfitta senza una battaglia.» «Ah, ma questo non è corretto!» disse lei, ansimando. «Non ho impartito alcun comando ad Antonio! Nessuno!» «Io vi credo, signora. Ma non Enobarbo.»

Quando l’esercito iniziò ad arrivare a Leuke Kome tre nundinae dopo l’arrivo della regina d’Egitto, il piccolo porto era affollato di navi e molti accampamenti si estendevano intorno alla periferia della città. Cleopatra aveva portato medici, farmaci, un numero che sembrava illimitato di panificatori e cuochi per alimentare i soldati con un vitto migliore di quello servito loro dal personale non combattente delle legioni, letti comodi, e biancheria morbida e pulita; si era anche preoccupata di inviare i suoi schiavi a prelevare tutti i ricci di mare dal fondo di una vasta spiaggia affinché tutti potessero bagnarsi in acqua libera dal peggior flagello presente nelle spiagge in quel punto del Mare Nostrum. Se Leuke Kome non era esattamente come i Campi Elisi, per il legionario comune era abbastanza simile a essi. Il morale si alzò, specialmente quello degli uomini che non avevano subìto mutilazioni dal gelo.

«Vi sono molto grato» le disse Publio Canidio. «I miei ragazzi hanno bisogno di una vera vacanza, e voi l’avete resa possibile. Quando staranno meglio dimenticheranno il peggio delle prove cui sono stati sottoposti.» «Tranne che per gli alluci e i nasi persi» disse Cleopatra con amarezza.