«IN CORPORE VILI»

I

Cosimino, il sagrestano di Santa Maria Nuova, teneva di guardia i suoi tre marmocchi ai tre mercati della città, che corressero subito subito a chiamarlo, scorgendo da lontano quella zoppaccia della Sgriscia, la vecchia serva di don Ravanà.

Dal mercato del pesce accorse quella mattina il terzo figliuolo, tutto trafelato:

E Cosimino, via di volo.

Sorprese la vecchia che stava a contrattare con un pescivendolo per una manciata di gamberi.

E volgendosi al pescivendolo:

La Sgriscia arrovesciò le mani sui fianchi, appuntò le gomita davanti, in atto di sfida; ma Cosimino non le diede tempo di rimbeccare; uno spintone, e le fu sopra di nuovo, con le braccia levate, incalzando:

Il pescivendolo allora prese le parti della cliente che sbraitava: accorse gente da tutto il mercato a trattenere i due rissanti che già venivano alle mani. Cosimino urlava furibondo:

Per fortuna, si trovò a passare, in quella, dal mercato, proprio lui: don Ravanà.

— gridò Cosimino, scorgendolo.

Il faccione di don Ravanà tremò, impallidendo, in un sorriso nervoso. Balbettò:

— esclamò la Sgriscia, dandosi un pugno sul petto ossuto, stupita, trasecolata.

Don Ravanà le diede su la voce, arrabbiatissimo.

— gridò allora Cosimino, tra la serva e il padrone, mentre tutta la gente rideva.

— s'affrettò a dirgli don Ravanà, tutto confuso, mortificato; e, volgendosi alla serva: —

Gli astanti accolsero quest'ordinazione con un nuovo e piú alto scoppio di risa, e don Ravanà si fece largo tra la ressa sorridendo male, come una lumaca nel fuoco, e dicendo a questo e a quello:

II

— disse piano, davanti all'altare, don Ravanà, con gli occhi bassi, al sagrestano che gli mesceva acqua e vino nel calice. —

Cosimino s'accigliò, impallidí, strinse i denti per frenare un impeto d'ira.

— lo rimproverò don Ravanà non tanto piano, voltandosi a guardarlo severamente.

Dalla prima pancata s'intese il rimprovero del sacerdote al sagrestano, e un sussurrío si propagò per un momento nella chiesa, di protesta contro il povero Cosimino che diventò di bragia, tremando tutto dalla rabbia e dalla vergogna. Non sapeva piú dove posare le ampolline della bile e dell'aceto.

Finita la messa, seguí don Ravanà in sagrestia, aggrondato, ingrugnato. Poco dopo entrò il dottor Liborio Nicastro, piccino piccino, vecchissimo, tutto rattrappito dall'età. La falda della tuba gli posava quasi su la gobba. Vestiva all'antica e portava la barba a collana.

— domandò, parlando col naso e socchiudendo al solito gli occhietti calvi. —

Don Ravanà guardò un tantino, perplesso, il medico, se credergli o no; poi con voce irritata, come se si lagnasse d'un 'ingiustizia di lui, rispose:

— sbuffò Cosimino, voltandosi a guardare da un'altra parte.

Don Ravanà lo fulminò con un'occhiata.

— riprese il dottor Liborio. —

Cosimino, con gli occhi bassi, porse una seggiola a don Ravanà. Il dottor Nicastro trasse flemmaticamente gli occhiali dall'astuccio, se li aggiustò sul naso e guardò la lingua.

— ripeté don Ravanà, cacciandosela subito dentro, come se la voce del dottore gliel'avesse scottata.

Cosimino soffiò, questa volta col naso, un altro sbuffo. La bile gli ribolliva nello stomaco. E teneva le pugna strette e le labbra serrate. Ma, alla fine, proruppe:

— confermò placidamente il dottor Nicastro, porgendo la ricetta a don Ravanà e rimettendosi in tasca occhiali e taccuino. —

Non c'entrava: ma, tanto, era latino, e tappò la bocca al povero sagrestano.

— domandò questi, pallido, accigliato, appena andato via il medico.

Don Ravanà aprí le braccia, senza guardarlo, e disse:

— riprese Cosimino, funebre, —

III

— a ogni scalino, —

La Sgriscia intese quel lamento per le scale, e corse ad aprire a don Ravanà.

— La Sgriscia andò a rintanarsi mogia mogia. Don Ravanà entrò in camera; si tolse la zimarra, restò con le brache scinte e un panciottone lungo lungo e largo, in maniche di camicia, e si mise a passeggiare e a riflettere amaramente.

La coscienza gli rimordeva. Non c'era dubbio! Dio misericordioso gli concedeva la grazia di metterlo alla prova per mezzo di quel diavolo zoppo travestito da donna, e lui, lui, ingrato non ne sapeva profittare.

— esclamava, con intensa esasperazione, fermandosi di tanto in tanto, e scotendo in aria le pugna.

La poca e povera masserizia pareva, in quella camera, quasi smarrita su l'ampio e nudo pavimento di vecchi mattoni di Valenza qua e là rotti e sconnessi. In mezzo alla parete a destra era il letticciuolo pulito, dai trespoli di ferro esposti; a capezzale, un antico crocifisso d'avorio, ingiallito dal tempo. (Gli occhi di don Ravanà non osavano, quel giorno, levarsi a guardarlo.) In un angolo, presso il letto, una vecchia carabina, e, appese alle pareti, alcune grosse chiavi: quelle della casa di campagna.

Tin tin tin.

E andò ad aprirgli lui stesso:

— premise Cosimino prima d'entrare, —

— disse, umile e premuroso, don Ravanà. —

Ritornò poco dopo, pallido e tremante, col cucchiajo in mano.

— rispose asciutto e serio Cosimino. —

Don Ravanà chiuse gli occhi trafitto, e trasse un lungo sospiro. Parlava bene, sí, Cosimino; era, senza dubbio, una barbarie dare a prendere a lui ogni volta il tartaro emètico ordinato dal dottor Nicastro. Bastava a don Ravanà assistere agli effetti del medicinale nel corpo della vittima, perché ne avesse lo stesso beneficio, per virtú d'esempio. Barbarie, sí; ma sapeva forse Cosimino quante volte il pensiero di lui tratteneva don Ravanà lí lí per cadere in tentazione? Aveva bisogno di lui, come freno, don Ravanà, aveva bisogno del rimorso che gli cagionava il vederlo soffrire lí, sotto i suoi occhi, ingiustamente, per trionfare in seguito della sua carne vile. Cosimino aveva ricevuto da lui tanti e tanti benefizii; ebbene, in ricambio, che gli chiedeva lui? questo solo sacrifizio per la salute, non tanto del corpo, quanto dell'anima. Ogni volta però la vista di quel supplizio a cui la vittima si sottoponeva senza ribellarsi, lo sconvolgeva talmente; rimorso, stizza, avvilimento gli facevano tale impeto nello spirito, che don Ravanà si sarebbe gettato dalla finestra.

— gli disse Cosimino. —

— gemette, con sincera afflizione, don Ravanà.

Don Ravanà si buttò sul letto con gli occhi lagrimosi e il volto contratto dalla pena. Cosimino pose il bricco su la spiritiera, per aver pronta al bisogno l'acqua: tepida; poi, chiudendo gli occhi, ingollò la prima cucchiajata del medicinale.

Cosimino ascoltava con molta attenzione, ma forse senza intender sillaba: di tanto in tanto si faceva in volto di mille colori; poi, d'un tratto, impallidiva, impallidiva vieppiú, sudava freddo, si agitava un po’ su la seggiola, l'occhio gli vagellava.

— gridava allora don Ravanà, impallidendo anche lui e guardando fiso Cosimino per promuovere anche in sé con quella vista gli effetti del medicinale. —

La Sgriscia accorreva a sorreggere la fronte al padrone, e Cosimino intanto, tra i conati e i contorcimenti, le appoggiava sotto sotto calci di vero cuore.

IV

— ordinò verso sera don Ravanà alla serva. —

— fece il povero sagrestano rifinito, pallidissimo, con la testa cascante appoggiata al muro senza neppur forza di fiatare.

— aggiunse forte don Ravanà, tutto premuroso. —

— gemette questi al colmo dell'esasperazione. —

E se n'andò con le mani sul ventre, nicchiando cosí.

— esclamò stizzito don Ravanà. Prima, tutto mansueto; poi ci ripensa, e diventa una vespa. E dire che gli ho fatto tanto bene, a quel brutto ingrato!

Stette un po' a tentennare il capo, con gli angoli della bocca contratti in giú; poi chiamò:

Novelle per un anno
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