LE SORPRESE DELLA SCIENZA

Avevo ben capito che l'amico Tucci, nell'invitarmi con quelle sue calorose e pressanti lettere a passare l'estate a Milocca, in fondo non desiderava tanto di procurare un piacere a me, quanto a se stesso il gusto di farmi restare a bocca aperta mostrandomi ciò che aveva saputo fare, con molto coraggio, in tanti anni d'infaticabile operosità.

Aveva preso a suo rischio e ventura certi terreni paludosi che ammorbavano quel paese, e ne aveva fatto i campi piú ubertosi di tutto il circondario: un paradiso!

Non mi faceva grazia nelle sue lettere di nessuno dei tanti palpiti che quella bonifica gli era costata e di nessuno dei tanti mezzi escogitati, dei tanti guaj che gli erano diluviati, di nessuna delle tante lotte sostenute, lui solo contro Milocca tutta: lotte rusticane e lotte civili.

Per invogliarmi forse maggiormente, nell'ultima lettera mi diceva tra l'altro che aveva preso in moglie una saggia massaja, massaja in tutto: otto figliuoli in otto anni di matrimonio (due a un parto), e un nono per via; che aveva anche la suocera in casa, bravissima donna che gli voleva un mondo di bene, e anche il suocero in casa, perla d'uomo, dotto latinista e mio sviscerato ammiratore. Sicuro. Perché la mia fama di scrittore era volata fino a Milocca, dacché in un giornale s'era letto non so che articolo che parlava di me e d'un mio libro, dove c'era un uomo che moriva due volte. Leggendo quell'articolo di giornale, l'amico Tucci s'era ricordato d'un tratto che noi eravamo stati compagni di scuola tant'anni, al Liceo e all'Università, e aveva parlato entusiasticamente del mio straordinario ingegno a suo suocero, il quale subito s'era fatto venire il libro di cui quel giornale parlava.

Ebbene, confesso che proprio quest'ultima notizia fu quella che mi vinse. Non càpita facilmente agli scrittori italiani la fortuna di veder la faccia dabbene d'uno dei tre o quattro acquirenti di qualche loro libro benavventurato. Presi il treno e partii per Milocca.

Otto ore buone di ferrovia e cinque di vettura.

Ma piano, con questa vettura! Cent'anni fa, non dico, sarà anche stata non molto vecchia; forse qualche molla, cent'anni fa, doveva averla ancora, anche se tre o quattro razzi delle ruote davanti e cinque o sei di quelle di dietro erano di già attorti di spago cosí come si vedevano adesso. Cuscini, non ne parliamo! Là, su la tavola nuda; e bisognava sedere in punta in punta, per cansare il rischio che la carne rimanesse presa in qualche fessura, giacché il legno, correndo, sganasciava tutto. Ma piano, con questo correre! Doveva dirlo la bestia. E quella bestia lí non diceva nulla: s'ajutava perfino col muso a camminare. Sí, centomila volte sí, scambio dei piedi, voleva metterci le froge per terra, come ce le metteva, povera decrepita rozza, tanto gli zoccoli sferrati le facevano male. E quel boja di vetturino intanto aveva il coraggio di dire che bisognava saperla guidare, lasciarla andare col suo verso, perché ombrava, ombrava e, a frustarla, ritta gli si levava come una lepre, certe volte, quella bestiaccia lí.

E che strada! Non posso dire d'averla proprio veduta bene tutta quanta, perché in certi precipizii vidi piuttosto la morte con gli occhi. Ma c'erano poi le pettate che me la lasciavano ammirare per tutta un'eternità, tra i cigolii del legno e il soffiar di quella rozza sfiancata, che accorava. Da quanti mai secoli non era stata piú riattata quella strada?

— mi spiegò il vetturino. —

E se l'erano mangiata bene oh, quella strada! Certi solchi che, a infilarli, non dico, ci s'andava meglio che in un binario, da non muoversene piú però, badiamo! ma, a cascarci dentro per uno spaglio della bestia, si ribaltava com'è vero Dio ed era grazia cavarne sano l'osso del collo.

— domandai.

— mi rispose il vetturino.

Arrivai a Milocca a sera chiusa.

Non vidi nulla, perché secondo il calendario doveva esserci la luna, quella sera; la luna non c'era; i lampioni a petrolio non erano stati accesi; e dunque non ci si vedeva neanche a tirar moccoli.

Villa Tucci era a circa mezz'ora dal paese. Ma, o che la rozza veramente non ne potesse piú o che avesse fiutato la rimessa lí vicina, come diceva sacrando il vetturino, il fatto è che non volle piú andare avanti nemmeno d'un passo.

E non seppi darle torto, io.

Dopo cinque ore di compagnia, m'ero quasi quasi medesimato con quella bestia: non avrei voluto piú andare avanti neanch'io.

Pensavo:

Mentre mi pascevo comodamente di queste dolci riflessioni, la rozza, piantata lí su i quattro stinchi, si pasceva a sua volta d'una tempesta di frustate, imperturbabilmente. Alla fine il vetturino, stanco morto di quella sua gran fatica, disperato e furibondo, mi propose di andare a piedi.

— dissi io, smontando. —

Fortuna ch'era bujo! Quel ch'occhio non vede, cuore non crede. Quando però il giorno dopo vidi quell'altra strada lí, restai basito, non tanto perché c'ero passato, quanto per il pensiero che se Dio misericordioso aveva permesso che non ci lasciassi la pelle, chi sa a quali terribili prove vuol dire che m'ha predestinato.

Fu cosí forte l'impressione che mi fece quella strada e poi l'aspetto di quel paese – squallido, nudo, in desolato abbandono, come dopo un saccheggio o un orrendo cataclisma; senza vie, senz'acqua, senza luce – che la villa dell'amico mio e l'accoglienza ch'egli mi fece con tutti i suoi e l'ammirazione del suocero e via dicendo mi parvero rose, a confronto.

— dissi al Tucci. —

E Tucci, socchiudendo gli occhi:

Mi venne di prenderlo a schiaffi. Perché non s'era mica incretinito quel pezzo d'omaccione là; pareva anzi che l'ingegno naturale, con l'alacrità e l'esperienza della vita, nelle dure lotte contro la terra e gli uomini, gli si fosse ingagliardito e acceso; e gli sfolgorava dagli occhi ridenti, da cui io, sciupato e immalinconito dalle vane brighe della città, roso dalle artificiose assidue cure intellettuali, mi sentivo commiserato e deriso a un tempo.

Ma se, ad onta delle mie previsioni, dovevo riconoscer lui, Merigo Tucci, degno veramente d'ammirazione, quel paesettaccio no e poi no, perdio! Ricco? felice?

— gli gridai. —

— mi rispose Merigo Tucci, con un sorriso, opponendo studiatamente alla mia stizza altrettanta calma. —

Passò tutto; mi sobbarcai a tutto; mi sorbii come decottini a digiuno tutti gli spassi e le distrazioni della giornata, col pensiero fisso alla dimostrazione che dovevo avere quella sera al Municipio della ricchezza e della felicità di Milocca.

Tucci, ad esempio, mi fece visitare palmo per palmo i suoi campi? Gli sorrisi. Mi fece una nuova e piú diffusa spiegazione della sua grande impresa lí su i luoghi? Gli sorrisi. E davvero l'impeto delle correnti aveva sgrottato tutte le terre e a lui era toccato asciugare e rialzar le campagne, corredandole della belletta, del grassume prezioso? Sí? davvero? Oh che piacere! Gli sorrisi. Ma far la roba è niente: a governarla ti voglio! E dunque gli ulivi si governano ogni tre anni con tre o quattro corbelli di sugo sostanzioso, pecorino? Sí? davvero? Oh che piacere! E gli sorrisi anche quando in cantina, con un'aria da Carlomagno, mi mostrò quattro lunghe andane di botti, e anche lí mi spiegò come valga piú saper governare il tino che la botte e com'egli facesse piú colorito il vino e come gli accrescesse forza e corpo mescolandovi certe qualità d'uve scelte, spicciolate, ammostate da sé, senza mai erbe, mai foglie di sambuco o di tiglio, mai tannino o gesso o catrame.

E sorrisi anche quando, piú morto che vivo, rientrai in villa e mi vidi venire incontro la tribú dei marmocchi in processione, i quali, mostrandomi rotti i giocattoli che avevo loro donati la sera avanti, mi domandavano con un lungo, strascicato lamento, uno dopo l'altro, tra lagrime senza fine:

Carini! carini! carini!

E sorrisi anche al suocero, mio ammiratore, il quale – sissignori – era cieco, cieco da circa dieci anni e del mio libro non conosceva che qualche paginetta che il genero gli aveva potuto leggere di sera, dopo cena. Voleva egli ora che glielo leggessi io, il mio libro? Ma subito! E fu una vera fortuna per lui, che non potesse vedere il mio sorriso, e tutti quelli che gli porsi poi, ogni qualvolta il brav'uomo, ch'era straordinariamente erudito, m'interrompeva nella lettura (oh, quasi a ogni rigo!) per domandarmi con buona grazia se non credessi per avventura che avrei fatto meglio a usare un'altra parola invece di quella che avevo usata, o un'altra frase, o un altro costrutto, perché Daniello Bartoli, sicuro, Daniello Bartoli…

Finalmente arrivò la sera! Ero vivo ancora, non avrei saputo dir come, ma vivo, e potevo avere la famosa dimostrazione che Tucci mi aveva promesso.

Andammo insieme al Municipio, per la seduta del Consiglio comunale.

Era, come la maestra e donna di tutte le case del paese, la piú squallida e la piú scura: una catapecchia grave in uno spiazzo sterposo, con in mezzo un fosco cisternone abbandonato. Vi si saliva per una scalaccia buja, intanfata d'umido, stenebrata a malapena da due tisici lumini filanti, di quelli con le spere di latta, appiccati al muro quasi per far vedere come ornati di stucco, no, per dir la verità, non ce ne fossero, ma gromme di muffa, sí, e tante!

Saliva con noi una moltitudine di gente, attirata dalla discussione di gran momento che doveva svolgersi quella sera; saliva con un contegno, anzi con un cipiglio che doveva per forza meravigliare uno come me, abituato a non vedere mai prendere sul serio le sedute d'un Consiglio comunale.

La meraviglia mi era poi accresciuta, dall'aria, dall'aspetto di quella gente, che non mi pareva affatto cosí sciocca da doversi con tanta facilità contentare d'esser trattata com'era, cioè a modo di cani, dal Municipio.

Tucci fermò per la scala un tozzo omacciotto aggrondato, barbuto, rossigno, che, evidentemente, non voleva esser distratto dai pensieri che lo gonfiavano.

E disse il mio nome. Quegli si voltò di mala grazia e rispose appena, con un grugnito, alla presentazione. Poi mi domandò a bruciapelo:

— risposi.

E lui, cupo:

E via, a balzi, per il resto della scala.

— mi ripeté Tucci, stringendomi il braccio. —

La mastra sala, la Sala del Consiglio, rischiarata da altri lumini a cui quelli della scala avevano ben poco da invidiare, pareva un'aula di pretura delle piú sudice e polverose. I banchi dei consiglieri e le poltrone di cuojo erano della piú venerabile antichità; ma, a considerarli bene nelle loro relazioni con quelli che tra poco avrebbero preso posto in essi e che ora passeggiavano per la sala, assorti, taciturni, ispidi come tanti cocomerelli selvatici pronti a schizzare a un minimo urto il loro sugo purgativo, pareva che non per gli anni si fossero logorati cosí, ma per la cura cupamente austera del pubblico bene, per i pensieri roditori che in loro, naturalmente, erano divenuti tarli.

Tucci mi mostrò e mi nominò a dito i consiglieri piú autorevoli: l'Ansatti, tra i giovani, rivale dello Zagardi, tozzo e barbuto anche lui, ma bruno; il Colacci, vecchio gigantesco, calvo, sbarbato, dalla pinguedine floscia; il Maganza, bell'uomo, militarmente impostato, che guardava tutti con rigidezza sdegnosa. Ma ecco, ecco il sindaco in ritardo. Quello? Sí, Anselmo Placci. Tondo, biondo, rubicondo: quel sindaco stonava.

— mi disse Tucci. —

Nessuno lo salutava; solo il Colacci gigantesco gli s'accostò per battergli forte la mano su la spalla. Egli sorrise, corse a prender posto sul suo seggio, asciugandosi il sudore, e sonò il campanello, mentre il capo-usciere gli porgeva la nota dei consiglieri presenti. Non mancava nessuno.

Il segretario, senza aspettar l'ordine, aveva preso a leggere il verbale della seduta precedente, che doveva essere redatto con la piú scrupolosa diligenza, perché i consiglieri che lo ascoltavano accigliati approvavano di tratto in tratto col capo, e infine non trovarono nulla da ridire.

Prestai ascolto anch'io a quel verbale, volgendomi ogni tanto, smarrito e sgomento, a guardare l'amico Tucci. A proposito delle strade di Milocca, si parlava come niente di Londra, di Parigi, di Berlino, di New York, di Chicago, in quel verbale, e saltavan fuori nomi d'illustri scienziati d'ogni nazione e calcoli complicatissimi e astrusissime disquisizioni, per cui i capelli del magro, pallido segretario mi pareva si ritraessero verso la nuca, man mano ch'egli leggeva, e che la fronte gli crescesse mostruosamente. Intanto due o tre uscieri, zitti zitti, in punta di piedi, recavano a questo e a quel banco pile enormi di libri e grossi incartamenti.

— domandò alla fine il sindaco, stropicciandosi le mani paffutelle e guardando in giro. —

Nessun segno d'approvazione.

E si levò prima a parlare il consigliere Maganza, quello dall'impostatura militaresca. Premise che sarebbe stato brevissimo, al solito suo. Tanto piú che per distruggere e atterrare quel fantastico edificio di cartapesta (sic), ch'era il progetto della Giunta, poche parole sarebbero bastate. Poche parole e qualche cifra.

E punto per punto il consigliere Maganza si mise a criticare il progetto, con straordinaria lucidità d'idee e parola acuta, incisiva: il complesso dei lavori e delle spese; la sanzione che si doveva dare per l'acquisto della concessione dell'acqua di Chiarenza; i rischi gravissimi a cui sarebbe andato incontro il Municipio: il rischio della costruzione e il rischio dell'esercizio; l'insufficienza della somma preventivata, che saltava agli occhi di tutti coloro che avevano fatto impianti meccanici e sapevano come fosse impossibile contener le spese nei limiti dei preventivi, specialmente quando questi preventivi erano fatti sopra progetti di massima e con l'evidente proposito di fare apparir piccola la spesa; il carattere impegnativo che aveva l'offerta dell'accollatario, fermi restando i dati su i quali l'offerta medesima era fondata; dati che per forza il Consiglio avrebbe dovuto alterare con varianti e aggiunte ai lavori idraulici, con varianti e aggiunte agl'impianti meccanici; e ciò oltre a tutti i casi imprevisti e imprevedibili, di forza maggiore, e a tutte le accidentalità, incagli, intoppi, che certamente non sarebbero mancati. Come poi fare appunti particolareggiati senza avere a disposizione i disegni d'esecuzione e i dati necessarii? Eppure due enormi lacune apparivano già evidentissime nel progetto: nessuna somma per le spese generali, mentre ognuno comprendeva che non si potevano eseguire lavori cosí grandiosi, cosí estesi, cosí varii e delicati, senza gravi spese di direzione e di sorveglianza e spese legali e amministrative; e l'altra lacuna ben piú vasta e profonda: la riserva termica che in principio la Giunta sosteneva non necessaria e che poi finalmente ammetteva.

E qui il consigliere Maganza, con l'ajuto dei libri che gli avevano recati gli uscieri, si sprofondò in una intricatissima, minuziosa confutazione scientifica, parlando della forza dei torrenti e delle cascate e di prese e di canali e di condotte forzate e di macchinarii e di condotte elettriche e delle relazioni da stabilire tra riserva termica e forza idraulica, oltre la riserva degli accumulatori; citando la Società Edison di Milano e l'Alta Italia di Torino e ciò che per simili impianti s'era fatto a Vienna, a Pietroburgo, a Berlino.

Eran passate circa due ore e il brevissimo discorso non accennava ancora di finire. Il pubblico stipato pendeva dalle labbra dell'oratore, per nulla oppresso da tanta copia d'irta, spaventevole erudizione. Io quasi non tiravo piú fiato; eppure lo stupore mi teneva lí, con gli occhi sbarrati e a bocca aperta. Ma, alla fine, il Maganza, mentre il pubblico s'agitava, non già per sollievo, anzi per viva ammirazione, concluse cosí:

Scoppiarono frenetici applausi e il consigliere Ansatti si precipitò dal suo banco ad abbracciare e baciare il Maganza; poi, rivolto al pubblico e ritornando man mano al suo posto, prese a gridare tutto infocato, con violenti gesti:

E con questo tono e con crescente fuoco, il consigliere Ansatti spiegò al pubblico attonito e affascinato la scoperta del Pictet, e come col sistema da lui inventato le fiamme delle reticelle Auer sarebbero arrivate alle altissime temperature di tre mila gradi, aumentando di ben venti volte la loro luminosità; e come la luce cosí ottenuta sarebbe stata, a differenza di tutte le altre, molto simile a quella solare; e che se poi, al posto del gas, si fosse messa un'altra miscela derivante da un trattamento del carbon fossile col vapore acqueo e l'ossigeno industriale, il potere calorifico sarebbe aumentato di altre sei volte!

Mentr'egli spiegava questi prodigi, il consigliere Zagardi, suo rivale, quello che mi aveva compianto per la scala, sogghignava sotto sotto. L'Ansatti se ne accorse e gli gridò:

E glielo dimostrò, difatti; e alla fine, balzando da quella terribile dimostrazione piú vivo e piú infocato di prima, concluse, rivolto alla Giunta:

— diss'io piano all'amico Tucci, mentre gli applausi scrosciavano nella sala con tale impeto che il tetto pareva ne dovesse subissare, —

Ma Tucci non volle rispondermi:

Il tozzo omacciotto barbuto s'era infatti levato, col sogghigno ancora su le labbra, torcendosi sul mento, con gesto dispettoso, il rosso pelo ricciuto.

— disse, —

E qui lo Zagardi, non smettendo mai di tormentarsi sul mento la barbetta rossigna, piano piano, col suo fare mordace e dispettoso, parlò della semplicità meravigliosa delle lampade a lusol, nelle quali il calore di combustione dello stoppino e la capillarità bastavano a determinare senz'alcun meccanismo l'ascesa del liquido illuminante, la sua vaporizzazione e la sua mescolanza alla forte proporzione d'aria che rendeva la fiamma piú viva e sfavillante di quella ottenuta con qualunque altro sistema. E per un miserabilissimo centesimo si sarebbe ormai avuta la stessa luce che si aveva a quattro o cinque centesimi col vile petrolio, a otto o dieci con l'ambiziosa elettricità, a quindici o venti col pacifico olio. E il Lusol non richiedeva né costruzioni di officine, né impianti, né canalizzazioni. Non aveva egli dunque ragione di sogghignare?

O fosse per la tempesta suscitata nella poca aria della sala dalle deliranti acclamazioni e dai battimani del pubblico, o fosse per mancanza d'alimento, essendosi la seduta già protratta oltre ogni previsione, il fatto è che, alla fine del discorso dello Zagardi, i lumi si abbassarono di tanto, che si era quasi al bujo quando sorse per ultimo a parlare il Colacci, il vecchio gigantesco dalla pinguedine floscia. Ma ecco: prima un usciere e poi un altro e poi un terzo entrarono come fantasmi nell'aula, reggendo ciascuno una candela stearica. L'aspettazione nel pubblico era intensa; indimenticabile la scena che offriva quella tetra sala affollata, nella semioscurità, con quelle tre candele accese presso il vecchio gigantesco che con ampii gesti e voce tonante magnificava la Scienza, feconda madre di luce inestinguibile, produttrice inesauribile di sempre nuove energie e di piú splendida vita. Dopo le scoperte mirabili di cui avevano parlato l'Ansatti e lo Zagardi, era piú possibile sostenere l'impianto idro-termo-elettrico proposto dalla Giunta? Che figura avrebbe fatto il paese di Milocca illuminato soltanto a luce elettrica? Questo era il tempo delle grandi scoperte, e ogni Amministrazione che avesse veramente a cuore il decoro del paese e il bene dei cittadini, doveva stare in guardia dalle sorprese continue della Scienza. Il consigliere Colacci, pertanto, sicuro d'interpretare i voti del buon popolo milocchese e di tutti i colleghi consiglieri, proponeva la sospensiva sul progetto della Giunta, in vista dei nuovi studii e delle nuove scoperte che avrebbero finalmente dato la luce al paese di Milocca.

— mi domandò Tucci, uscendo poco dopo nelle tenebre dello spiazzo sterposo innanzi al Municipio. —

Novelle per un anno
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