30.
ODILE
Quando arrivò la posta, sistemai le riviste di moda sugli scaffali. «Mode du Jour» ricordava ai lettori che «l’intelligenza e il gusto non sono razionati» e che, mentre le scarpe si logorano, i cappelli non si consumano mai. Mi mancavano «Time» e «Life». Mi girai per lamentarmi con l’uomo accanto a me, uno che non avevo mai visto prima. Un tempo avrei notato le sue labbra serrate e il completo di tweed verde e avrei pensato che fosse un severo professore. Ora l’avrei detto una talpa. Deglutii. Paranoia. La propaganda nazista aveva fatto presa su di me. Sicuramente era innocuo, anche se si era infilato una vecchia rivista nella giacca.
Mi accigliai. «I periodici rimangono qui.»
Lui la rimise sullo scaffale e uscì.
«Brava!» Boris applaudì. «Sei intimidatoria come madame Mimoun alla Bibliothèque Nationale, un vero drago.»
Feci una riverenza. «Ci provo.»
Quando Bitsi arrivò al lavoro, si limitò ad annuire in segno di saluto. In quei giorni era così silenziosa che mi spaventava. Volendo tenerla d’occhio, le dissi di aver bisogno di aiuto per consegnare libri alla professoressa Cohen. Salimmo le scale a escargot fino al secondo piano, dove la professoressa sollevò le pesanti biografie dalle nostre braccia.
«Ho finito il romanzo.» Indicò la pila di fogli sul tavolo.
«Congratulazioni!» esclamai.
Fui sorpresa nel vedere che la scintilla allegra nei suoi occhi era spenta, e che era stata sostituita dalla delusione.
Sospirò. «L’editore non lo pubblicherà.»
Ero sicura di sapere perché, e che lo sapesse anche lei. Nessun editore francese poteva pubblicare opere di un autore ebreo.
«Mi dispiace», dissi.
«Anche a me. In ogni caso, non avrei mai potuto finirlo senza di te. Non solo per i libri che mi hai portato per le ricerche, ma anche per la tua compagnia e per la tua gentilezza. Sei diventata la mia finestra su Parigi. Libri e idee sono come il sangue: hanno bisogno di circolare e ci tengono in vita. Mi hai ricordato che c’è del buono nel mondo.»
Avrei dovuto sentirmi lusingata per quelle lodi. Invece, un terrore gelido mi penetrò nelle ossa. «Sembra quasi che mi stia dicendo addio.»
«Sto dicendo che non sappiamo cosa succederà.» Mi porse il manoscritto. «Ti prego di conservarlo al sicuro.»
Onorata dalla sua fiducia, la baciai sulle guance. «È proprio certa di non volerlo spedire a un collega?»
«Questa è l’unica copia. Il romanzo sarà più al sicuro con te.»
«Come s’intitola?» chiese Bitsi.
«La Bibliothèque Américaine.» L’American Library.
«È decisamente una tragedia!» commentò Bitsi.
«Aspetta di conoscere i personaggi. Che cast di eccentrici!» La professoressa mi strizzò l’occhio. «Ne riconoscerete di certo qualcuno.»
Luce, 535; manoscritti, 091; biblioteche, 027.
Quando ci accompagnò alla porta, sembrava essere di umore migliore. Nella tromba delle scale, io e Bitsi sentimmo il rat-tap-tap della macchina da scrivere. Cullai la speranza che la professoressa avesse già preso a lavorare al seguito.
Mentre tornavamo al lavoro, Bitsi disse: «È una grande responsabilità».
Infilai le pagine nella mia cartella. «Lo metteremo in cassaforte.»
Svoltando nella via, superammo tre filles de joie in calze a rete, che ridevano. Capelli biondi arruffati, il trio grassoccio passeggiava disinvolto in una nuvola di profumo pungente.
«Sgualdrine!» Bitsi agitò una mano per scacciare l’odore. «Certa gente non sa che c’è in corso una guerra», proseguì ad alta voce mentre entravamo nella Library. «Ieri mattina ho visto un branco di prostitute barcollare verso casa. Puzzavano di alcol. Esiste una cosa chiamata buon gusto!»
Nella stanza sul retro, posai il manoscritto sul tavolo e feci sedere Bitsi.
«Alle persone sbagliate va tutto bene», disse con voce gelida. «Ho fame. Non riesco a pensare. Le stagioni passano, ma i giorni non mi mancano. Natale, Capodanno, sono felice che se ne siano andati. Ora è Pasqua e l’unica cosa che risorgerà sono i prezzi. Mi manca Rémy. Se non fosse per lui, potrei…»
«Scriviamogli.» La sua disperazione mi spaventò. Rémy sarebbe stato d’aiuto: pensare a lui ci faceva sempre sentire meglio. Presi una matita dalla borsa. «Tu usi le lettere minuscole, io userò le maiuscole.»
caro RÉMY, saluti DALLA american LIBRARY; ci MANCHI tanto. ODILE suggerisce QUESTA folle BRILLANTE idea.
«Sembra una richiesta di riscatto», disse. «Chissà se la riceverà.»
«Almeno confonderemo i censori.»
Bitsi fece un mezzo sorriso. Era già qualcosa.
«Credi che alla professoressa Cohen dispiacerà se diamo un’occhiata al suo romanzo?» chiese.
Combattuta tra il rispetto per la riservatezza della professoressa e il bisogno di confortare Bitsi, girai il frontespizio e lessi ad alta voce: «L’Aldilà è pieno del profumo paradisiaco dei libri ammuffiti. Le pareti sono fiancheggiate da alti scaffali stipati di tomi dimenticati. In questo accogliente soppalco tra i mondi, non ci sono finestre né orologi, anche se un’eco occasionale di risate dei bambini o la zaffata di un croissant al cioccolato si diffondono dal piano terra.»
«È la mia sezione preferita della Library», osservò Bitsi.
«Anche la mia.»
Stavo per leggere la riga seguente quando sentimmo una donna gridare: «Sono stufa di aspettare! Datemi i miei libri o sarà peggio per voi!».
«Oh santo cielo. Un’altra baruffa.»
Precipitandoci al banco dei prestiti, dove una mezza dozzina di utenti aspettavano per ritirare dei libri, scoprimmo che persino Clara de Chambrun era emersa dal suo ufficio. «Cosa diavolo sta succedendo?» chiese.
«La signora Smythe è stanca di aspettare», spiegò Boris alla contessa. Poi, rivolto all’utente, disse: «La prego di avere pazienza e di tornare al suo posto in coda».
«Informerò la polizia», minacciò lei.
«Della nostra inefficienza?» Boris sollevò un sopracciglio. «Tanto vale denunciare l’intero paese.»
Il commento fece ridacchiare alcune persone in coda.
«Vi denuncerò perché servite gli ebrei.»
«Adesso basta!» La contessa afferrò la signora Smythe per un braccio e la trascinò alla porta. «E non torni mai più.»
L’utente cominciò a singhiozzare. «Non posso andare avanti senza i libri che trovo qui.»
Al banco dei prestiti, ben prima che la Library aprisse al pubblico, mentre io e Boris riponevamo le schede nelle tasche dei libri restituiti, lasciai che i miei pensieri andassero a Paul. A mezzogiorno ci saremmo incontrati nell’appartamento, l’unico posto in cui la delusione non varcava mai la soglia. Ci crogiolavamo nel boudoir roseo, dove i suoi schizzi della Bretagna erano appesi alla parete. Li amavo tutti: un campo di grano limitato da papaveri, cumuli di fieno dorato, un vecchio cavallo dalla postura oscillante.
Una serie di colpi insistenti mi riportò alla realtà. Vidi il dottor Fuchs sbirciare dalla finestra. Perché era arrivato così presto e da solo? Lo invitammo a entrare, ma non si mosse dal gradino.
«State attenti», sussurrò. «La Gestapo sta tendendo delle trappole. Non lasciate che le opere proibite cadano in mano loro. Useranno ogni pretesto per arrestarvi.» Lanciò un’occhiata indietro, oltre la spalla. «Non posso farmi vedere qui.»
«Che genere di trappole?» chiesi, ma lui era già scappato via.
«Ho sentito dire che la Gestapo sta prendendo il controllo di Parigi», commentò Boris accendendosi una sigaretta, «e loro sono ancora più pericolosi.»
Più pericolosi dei nazisti che avevano sconfitto l’esercito francese? Più pericolosi dei Soldaten che pattugliavano le strade giorno e notte?
Per il resto della mattinata lavorammo in un silenzio turbato.
Quando uscii dalla Library all’ora di pranzo, fui sorpresa di trovare Paul in cortile. «Non dovevamo incontrarci all’appartamento?» chiesi. In quei giorni confondevo tutto.
«Il mio amico e la sua ragazza ci sono andati ieri. C’erano nuovi mobili mescolati a quelli vecchi, ma lui non ci ha fatto caso. Si stavano, ehm, baciando quando hanno sentito entrare qualcuno. Sono rimasti nascosti per un po’, poi sono sgattaiolati fuori dalle scale della servitù. Lui è tornato più tardi, ma avevano cambiato la serratura.»
Il nostro nido, il posto in cui potevamo tenerci stretti l’un l’altra, in cui potevamo dire qualsiasi cosa o stare zitti, il posto in cui potevamo dimenticare la guerra era svanito.
«E i tuoi disegni?» chiesi incupita.
«Ne farò altri.» Mi cinse la vita con il braccio. «Su con il morale, ho trovato un nuovo posto per noi.»
Per strada incontrammo madame Simon. «Dove pensate di andare?» chiese.
Ancora sconvolta per aver perso l’appartamento, non riuscii a parlare.
«Mademoiselle Souchet ha diritto alla pausa pranzo», rispose Paul.
«Basta che tu sia indietro per l’una», mi disse madame.
«Mademoiselle non deve rendere conto a lei», ribatté Paul, serrando la stretta mentre mi spingeva giù dal marciapiede.
«Non c’era bisogno di essere così brusco», gli dissi. «È come la burbera zia March in Piccole donne. Sgarbata all’esterno, ma gentile nel profondo dell’anima.»
«Non tutti hanno un’anima profonda.»
«E non tutti sono criminali», dissi, alleggerendo il tono.
«Certe persone sono esattamente come si presentano al mondo.» Ci fermammo davanti a un imponente palazzo haussmanniano. «Siamo arrivati.»
Nell’atrio, un folto tappeto cremisi attutì i nostri passi. Guardando il lampadario dorato, ebbi la sensazione formicolante di un déjà-vu. Forse ero già stata lì per consegnare dei libri.
Di sopra, nell’appartamento, le tende di broccato erano tirate. Non mi importava della vista, mi importava solo di Paul. Volevo un’ora in cui potessimo dimenticare tutto. Mentre mi baciava il seno, il ventre, il sedere, tutto il mio corpo vibrava.
Dopo, ancora nudi, visitammo l’appartamento come se fosse un museo, ammirando i vasi cinesi sulla mensola del camino, gli antichi maestri alle pareti. Ma la cosa più bella era la cucina: il cioccolato nella dispensa. La nuova casa non era poi così male: esplorarla era eccitante.
Ma stavamo facendo tardi, quindi lanciai camicia e pantaloni a Paul. Lui se li infilò senza allacciarli; invece, mi aiutò ad abbottonare il retro della mia camicetta. Dietro di me, quasi con riverenza, mi baciò la nuca mentre allacciava i bottoni di madreperla. Era in quei momenti di tenerezza che lo amavo di più.
Concentrata sulle mie emozioni, a malapena notai il clic della serratura, il cigolio dei cardini.
«E voi chi diavolo siete?» chiese un uomo dal torace possente.
A piedi nudi e scompigliati, io e Paul ci separammo di scatto.
«Questa è casa mia, adesso.»
Mi avvicinai piano alla porta. Paul mi afferrò la mano e mi attirò a sé. «Noi pensavamo…»
«Uscite! E non fatevi più vedere!»
A testa bassa, tornammo di soppiatto alla Library, imbarazzati per essere stati sorpresi. Dove ci saremmo incontrati in futuro? Ma in testa frullava anche un’altra domanda. “Di chi era l’appartamento?” «Non abbiamo fatto nulla di male», disse Paul. Mi diede un bacetto sulla guancia e proseguì per la stazione di polizia. “Di chi era l’appartamento?” Agitata, entrai nella sezione dei periodici, poi mi ricordai che ormai lavoravo nella sala di consultazione. Senza i quotidiani recenti, poche persone vi trascorrevano del tempo, quindi mi sorpresi nel vedere qualcuno che frugava tra le vecchie riviste.
«Posso aiutarla?»
«Ho notato che alcuni utenti sono stranieri.» Aveva un’aria familiare. Ah, sì, l’uomo in tweed che aveva cercato di portarsi via una rivista.
«Uno dei nostri molti motivi d’orgoglio. Tutti si sentono a casa, qui.»
«Mi piacerebbe contattarli.»
«Abbiamo distrutto i nostri archivi. Non volevamo che finissero nelle mani sbagliate», dissi in tono pungente, prima di raggiungere il banco dei prestiti, dove Boris e Bitsi confabulavano a bassa voce.
«Mi ha chiesto da dove vengo», sussurrò Boris. «Gli ho detto che sono parigino.»
«Viene sempre più spesso», disse Bitsi. «Quando è dietro di me, sento il suo fiato acido sul collo.»
Feci scivolare un piede sul suo.
«Cosa voleva?» chiese Boris.
«Ha chiesto degli utenti stranieri.»
«A proposito di stranieri», disse Bitsi, «dov’è Margaret?»
Doveva essere arrivata, ormai.
«Chiamala», disse Boris.
Le telefonai per tutto il pomeriggio, senza ottenere risposta. E se fosse stata arrestata come la signorina Wedd? No, c’era un motivo per cui non era venuta, un motivo perfettamente valido. Guardai l’orologio. Il suo quadrante rimase impassibile, le sue lancette si rifiutarono di muoversi. Portando il polso all’orecchio, ascoltai il debole ticchettio. Il panico mi si gonfiò nel petto, mozzandomi il respiro.
«Vai», mi esortò Boris. «Ci occupiamo noi del lavoro qui.»
Feci un’ultima telefonata, poi mi precipitai a casa di Margaret.