18.
ODILE
Parigi, 3 giugno 1940
Ero a diversi isolati dall’American Library, dove stavo andando a prendere dei libri per i miei soldati dell’ospedale, quando sulla città calò il silenzio. Nessun piccione tubava più, nessun parigino chiacchierava più. Solo un forte ronzio. Alzai lo sguardo e vidi gli aerei: decine e decine di aerei. Il cuore mi rimbombò nell’incavo della clavicola. Udii in lontananza lo schianto dei vetri che s’infrangevano mentre le bombe scoppiavano. Un allarme si fece largo stridendo tra le vie. La gente correva intorno a me, urtandomi nella fuga. Sentii il sapore del fumo e capii che dovevo precipitarmi al riparo. Paralizzata sul marciapiede, mi sentivo come intontita mentre fissavo a bocca aperta gli incursori nel cielo azzurro e limpido. Non riuscivo a pensare ad altro che a Rémy. Dov’era? Erano quelli gli odori e i rumori che lo assillavano?
Quando il bombardamento finì – era durato un’ora? Due ore? Oppure solo venti minuti? – continuai il tragitto fino all’American Library appoggiandomi alle facciate degli edifici. Al bancone all’ingresso, lo staff mi si strinse intorno. Guardai Bitsi, che esclamò: «Oh, santo cielo!»; la direttrice, che adesso aveva una ruga sottile tra le sopracciglia; Margaret, che stringeva le sue perle; e Boris, che disse: «Sta per svenire!».
La signorina Reeder mi fece sedere. Boris versò del whisky in una tazza da tè per calmarmi i nervi.
«Sei al sicuro», mi disse, «per ora.»
«Le truppe tedesche non riusciranno mai a superare la Linea Maginot», disse Margaret.
«Ci siamo illusi abbastanza», disse la signorina Reeder, «ora dobbiamo organizzarci.»
«Sta dicendo che dovremmo andarcene?» chiese Bitsi. «Non so proprio dove potremmo andare io e mia madre.»
La sirena continuava a fischiarmi nelle orecchie e non riuscivo a capire cosa stessero dicendo. Sapevo solo che dovevo tornare all’ospedale: i miei soldati avevano bisogno di me. Mi alzai dalla sedia.
«Dovresti restare qui seduta tranquilla», disse Bitsi.
No. Dovevo tornare dai feriti.
L’ospedale non aveva subito danni, ma dentro erano tutti scossi. Con il materiale da leggere nella mano tremante, avanzai nel reparto, facendo la spola tra i letti, tra le facce preoccupate. All’ora di cena, nessuno aveva molto appetito. Io e le infermiere distribuimmo scodelle di minestra e persuademmo i soldati a mangiare.
A casa, maman era in agitazione. «Arrivi ogni sera più tardi. Paul è qui, e l’arrosto è pronto già da un’ora.»
«Rémy ha scritto?»
«Non ancora», rispose papà.
«Una giornata d’inferno», disse Paul mentre mangiavamo di malavoglia. Avevo bisogno della rassicurazione del suo contatto, così spostai la gamba per infilarla tra le sue.
«Buone notizie a Dunkerque. “Un’ostinata battaglia continua…”» lesse papà dal bollettino di guerra. «“Magnifica resistenza delle truppe alleate.”»
«Prego che la guerra finisca, e che lui torni presto a casa», disse maman, una mano sulla tempia che le doleva, l’altra sullo schienale della sedia di Rémy.
Quando arrivai alla Library la mattina seguente, la signorina Reeder sedeva da sola a un tavolo della sala di lettura, interamente concentrata su un giornale. Impeccabile con il suo vestito azzurro di jersey, il mascara sulle ciglia, un accenno di rossetto, non permetteva che le sue paure le impedissero di venire al lavoro.
Avvertendo forse il mio sguardo, alzò gli occhi. Nella sua espressione, colsi molteplici emozioni: preoccupazione, curiosità, coraggio, affetto. «Qualcuno della tua famiglia è rimasto ferito durante il bombardamento?» chiese.
«No.»
«Bene.» Sollevò un fascio di telegrammi. «Temo che la mia mi stia supplicando di tornare a casa.»
Non potevo darle torto. A volte persino io avevo voglia di andarmene. «Perché rimane qui?»
Con un gesto gentile, mi posò le mani sulle guance. «Perché credo nel potere dei libri: noi svolgiamo un lavoro importante, assicurandoci che la conoscenza sia fruibile e creando una comunità. E perché ho fede.»
«In Dio?»
«Nelle giovani donne come te, Bitsi e Margaret… so che voi rimetterete il mondo a posto.»
Gli habitué si raccolsero per leggere le ultime notizie. «Le Figaro» si congratulava con i parigini per il loro sang-froid. Affermava che erano state lanciate 1084 bombe, che avevano ucciso quarantacinque civili e ne avevano feriti centocinquantacinque. Una foto mostrava un edificio bombardato, le stanze aperte al mondo come in una casa di bambole.
«Ogni battaglia è una “magnifica lotta” o un “combattimento coraggioso”», osservò monsieur de Nerciat.
«Ogni giorno vengono censurati sempre più articoli sui giornali», disse la professoressa Cohen. «Cosa nascondono i censori?»
Il signor Pryce-Jones chiese il permesso di parlarmi in privato. I suoi occhi azzurri lattiginosi erano offuscati dall’apprensione. «Se avessi un fratello, lo vorrei sapere.»
Nel guardaroba, tra ombrelli rotti e sedie traballanti, il diplomatico in pensione mi confidò che i bollettini di guerra non raccontavano le cose per come stavano veramente.
«Ma… i giornali dicono che stiamo vincendo.»
No, replicò lui. Secondo i suoi informatori all’ambasciata, decine di migliaia di francesi e inglesi erano stati catturati. A Dunkerque, i tedeschi avevano circondato le truppe alleate, che davano le spalle alla Manica. Sfidando gli attacchi del nemico, le navi inglesi erano salpate per recuperare i loro uomini. Presto non sarebbe rimasto alcun presidio militare britannico sul continente.
Mi accasciai su una sedia, incapace di riconciliare l’abisso tra ciò che avevamo letto e quello che mi stava dicendo lui. Gli inglesi si stavano ritirando poche settimane dopo l’inizio dei combattimenti. Cosa sarebbe successo alle truppe francesi? Cosa sarebbe successo a Rémy?
«Mi dispiace, ma grande.»
«Ha fatto bene a dirmelo. Perché non sono riusciti a salvare anche i nostri soldati?»
«Secondo i miei informatori, hanno aiutato tutti quelli che hanno potuto. Ricordati, stiamo parlando di pescherecci e imbarcazioni di fortuna, oltre alle navi militari, che hanno cercato di evacuare trecentomila uomini.»
La Linea Maginot ci avrebbe tenuti al sicuro, la Francia aveva l’esercito più attrezzato: nient’altro che bugie. “Oh, Rémy, dove sei?” Avevo dato per scontato che se gli fosse successo qualcosa me lo sarei sentito, ma non sentivo niente.
Qualche giorno dopo, tornando a casa, svoltai nel boulevard alberato, aspettandomi di dovermi fare largo tra le mademoiselles che si beavano davanti alle vetrine dei guanti Kislav (seta o cotone, pelle o pizzo) e dei tailleur di Nina Ricci (bordati di code di scoiattolo, bien sûr). Invece, i marciapiedi e i vialetti acciottolati erano affollati da migliaia di persone, così tante che non riuscivo a vedere dall’altra parte della strada. Avevano tutti un’espressione sconcertata, spaurita. Non riuscivo a immaginare che cosa avesse passato quella gente, gli orrori della guerra da cui era fuggita.
Alcune famiglie viaggiavano su carri trainati da buoi, con i materassi impilati alle spalle. Altre avanzavano faticosamente a piedi, trascinando fagotti o spingendo carrozzine piene di piatti. C’erano campagnoli con gli stivali da lavoro, cittadini con mocassini dalla mascherina allungata e scarpe décolleté. Una nonna con l’abito macchiato di sudore teneva in braccio una padella di ghisa, mentre il marito reggeva un sacco di iuta. Persino i bambini portavano qualcosa: una Bibbia, una sacca da cui spuntavano fuori dei vestiti, una voliera. Molti camminavano a gruppetti, ma altri erano da soli. Un soldato con una fasciatura sporca intorno al braccio mi venne quasi addosso. Arrancando a fatica, una ragazza della mia età teneva un bambino piccolo in braccio davanti a sé, come se non sapesse bene come maneggiarlo. Forse suo marito era stato chiamato alle armi e lei era rimasta da sola con il figlio. Lo scuoteva delicatamente, come se volesse svegliarlo. Il piccolo aveva le guance di un verde malsano, le membra irrigidite. Non riuscendo a guardare in faccia la realtà, distolsi lo sguardo.
Accanto a me, un contadino implorava il suo toro di muoversi. Una madre sussurrava al figlio di pochi anni. Ma perlopiù la gente stava zitta, come se non trovasse le parole per esprimere quanto aveva visto. Dalle loro facce tormentate, capii che la vita non sarebbe più stata la stessa. Mi trattenni con loro per rispetto, come avrei fatto a una processione funebre, prima di riguadagnare la via di casa a passi malfermi.
A cena, papà disse che lui e i suoi uomini avevano portato vassoi di caffè a quei profughi inattesi. La maggior parte arrivava dalle regioni nordorientali del paese. Molti non avevano mai lasciato il proprio villaggio. «Fuggivano dai soldati tedeschi. Gli uomini con cui ho parlato – semplici agricoltori e mercanti – non avevano ricevuto né aiuti né direttive. Il loro sindaco era stato il primo ad andarsene.»
«Ma cos’è diventato il mondo?» chiese maman. «Quella povera gente. Dove andranno a finire?»
Massaggiandole la mano, lui rispose: «Al Sud, dove dovreste andare anche tu e Odile. Io devo fare il mio dovere qui, ma voglio che voi vi mettiate al sicuro».
Le sue parole avevano senso. Mi aspettavo che maman acconsentisse, invece lei fece uno scatto all’indietro come se lui l’avesse schiaffeggiata con una richiesta di divorzio.
«Non!»
«Insomma, Hortense…»
Allontanò di colpo la mano dalla sua. «È qui che tornerà Rémy. Io non me ne andrò.»
Point final.
Noi parigini eravamo una razza blasé. Camminavamo con passo veloce, senza mai correre. Non battevamo ciglio vedendo degli innamorati al parco. Eravamo eleganti anche quando portavamo fuori la spazzatura, forbiti quando insultavamo qualcuno. Ma all’inizio di giugno, alla notizia che i carri armati tedeschi erano solo a pochi giorni dalla città, noi parigini perdemmo la testa. C’era così tanto da dire – finisci di fare i bagagli, chiudi la porta, muoviti – che balbettavamo. Alcuni correvano alla stazione per assicurarsi che i loro cari fossero saliti sui treni che avrebbero dovuto portarli in salvo. Altri si unirono alla processione derelitta di carri e carriole, auto e biciclette, mentre ciabattini, macellai e guantai sprangavano con le assi le vetrine dei loro negozi e partivano. Ogni appartamento sbarrato, ogni porta chiusa era la prova che stava per succedere qualcosa di terribile.
L’ambasciata britannica consigliò al suo staff di lasciare Parigi, così Lawrence e Margaret decisero di andare in auto in Bretagna con la figlia. «Finché la situazione non tornerà tranquilla», disse Margaret, con il sottinteso che sarebbero stati via solo qualche settimana. Ricordando le facce spaventate dei francesi che da un giorno all’altro erano diventati profughi nel loro stesso paese, non ne ero così sicura.
Anche se Parigi era una città fantasma, i miei habitué bazzicavano ancora la sezione dei periodici. Assiepati intorno al tavolo, studiavamo i giornali. Parigi sarebbe stata bombardata di nuovo? I tedeschi potevano spingersi fino a quel punto? Persino i generali non lo sapevano. Forse era quella la cosa più spaventosa: non sapevamo cosa sarebbe successo.
«Andrà in Inghilterra?» chiese la professoressa Cohen al signor Pryce- Jones.
La sua testa scattò all’indietro. «Certamente no! Non potrei stare lontano da Parigi.»
Monsieur de Nerciat chiese di Rémy, ma io mi limitai a scuotere la testa, temendo che sarei scoppiata a piangere se avessi aperto bocca.
«I politici sono scappati.» Il signor Pryce-Jones cambiò gentilmente argomento.
«Come pure i diplomatici.»
L’inglese si schiarì la voce per dissentire, così monsieur aggiunse: «Esclusi i presenti».
«Parigi senza i politici è come una casa di tolleranza senza filles de joie», disse il signor Pryce-Jones.
«Sta paragonando Parigi a una casa di malaffare?» chiesi.
«Peggio!» disse monsieur. «Sta paragonando i politici a prostitute.»
«Se il confronto è calzante», dissi, e gli uomini risero.
«Bill Bullitt è ancora qui», disse il signor Pryce-Jones, indicando la foto su «Le Figaro». «Ha detto che nessun ambasciatore americano è mai scappato – né durante la rivoluzione francese, né quando i crucchi sono arrivati nel 1914 – e che di certo non sarà lui il primo.»
«Un manifesto diceva che Parigi sarebbe stata una città aperta», dissi. «Che cosa significa?»
«Parigi non si difenderà, e il nemico non attaccherà. È un modo per assicurare la salvezza degli abitanti.»
«Quindi basta bombe?» domandai con cautela. Non bisognava credere sempre ai bollettini di guerra, ma nutrivo una fiducia sconfinata nel signor Pryce-Jones.
«Bombe, no», rispose lui. «Tedeschi, sì.»
Margaret entrò di corsa nella Library. Pallida come le sue perle, esaminò la stanza e si precipitò verso di me. «Devo chiedertelo un’ultima volta», disse. «Sei sicura di non voler venire?»
«Se Rémy torna…»
«Capisco.» Mi strinse le mani. «E se non ci dovessimo più rivedere?»
Era una domanda senza risposta. Riuscii solo a dirle: «Sei la mia amica più cara».
«Non so cosa farò senza di te. Per quanto io adori l’American Library, è niente rispetto al bene che ti voglio.»
Il clacson di una macchina strombettò.
«È Lawrence. Christina dev’essere agitata», disse poi con un fremito. «Sarà meglio che vada. Bon courage.»
“Per quanto io adori l’American Library, è niente rispetto al bene che ti voglio.” Era esattamente quello che provavo anch’io. Eravamo proprio come Janie e Pheoby nel mio libro preferito. Potevamo dirci qualsiasi cosa.
Guardare la mia migliore amica che se ne andava mi trasformò in una teiera sbeccata. Non volevo che i miei habitué mi vedessero perdere il controllo, quindi sbattei rapidamente le palpebre e corsi verso l’archivio. Sfogliando le schede, lasciai che le lacrime impregnassero i cartoncini, nascondendo con cura tutta l’angoscia nel cassetto delle O.
«Margaret sta facendo la cosa più sensata.» La professoressa Cohen mi avvolse il suo scialle intorno alle spalle.
«Se ne andrà anche lei?»
Lei fece un sorrisetto ironico. «Ma grande, nessuno mi ha mai tacciato di fare la cosa più sensata.»
Una biblioteca è un santuario di informazioni, ma ormai le dicerie si erano fatte largo nella sala dei periodici, dove la professoressa Cohen e madame Simon chiacchieravano sedute al tavolo. «Ho sentito che d’ora in poi nelle scuole insegneranno solo il tedesco», mi disse madame mentre sistemavo una pila di riviste. «Non ci sarà permesso camminare sui marciapiedi, potranno farlo esclusivamente i tedeschi. Mi stai ascoltando, ragazza?» Mi diede una spintarella sul petto. «Violenteranno qualsiasi cosa abbia le gambe. Specie quelle carine come te.» La paura mi ribollì nello stomaco mentre cercavo di ignorarla. «Spalmati di senape, così ti lasceranno in pace.»
«Basta!» esclamò la professoressa Cohen.
La direttrice aveva noleggiato delle auto per portare alcuni colleghi ad Angoulême, dove avrebbero aiutato il personale della clinica americana. Volevo andare ad assistere alla partenza, ma papà mi ordinò di restare a casa.
«Ma devo salutarli!»
«Assolutamente no.»
«Se non vado, la signorina Reeder sarà da sola.» Mi ricordai di come un’utente in lacrime si fosse accasciata tra le sue braccia. La direttrice sarebbe rimasta, e non era nemmeno il suo paese a essere in guerra.
«Non mi preoccupo per lei. Mi preoccupo per te.»
«La signorina Reeder dice…»
«La signorina Reeder dice! E quello che dico io?»
«E la biblioteca?» chiesi.
«La biblioteca cosa?» disse lui, esasperato. «Ma non ti rendi conto del pericolo?»
La mattina seguente ci svegliammo al suono degli altoparlanti che tuonavano. «Proteste e atti ostili contro le truppe tedesche verranno puniti con la morte!»