17.
ODILE
Parigi, maggio 1940
Nel cortile le rose erano in fiore e il loro profumo dolce si diffondeva nella biblioteca. Nonostante quelle giornate miti, erano tutti suscettibili… preoccupati per le persone care lontane da casa, per i bollettini di guerra che riferivano di battaglie cruente in Finlandia, per la probabilità che presto toccasse anche alla Francia. Il signor Pryce-Jones disse a monsieur de Nerciat di «andare al diavolo». Boris fece i complimenti alla professoressa Cohen per la sua nuova cartella, però madame Simon borbottò: «Quando vedo quello che vi potete permettere voi, mentre i bravi francesi come mio figlio lavorano per una paga misera…». Meno male che almeno io e Bitsi andavamo d’accordo.
Immersa nei miei pensieri, non sentii il fruscio delle sue ballerine finché lei non mi fu accanto. «La signorina Reeder vuole parlarci. Riunione dello staff.»
Bitsi e il custode furono gli ultimi ad arrivare; lei venne di fianco a me. Seduta alla scrivania, la signorina Reeder si schiarì la voce. «Ho delle notizie da darvi. Le truppe tedesche hanno invaso Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi. Hanno bombardato il nord e l’est della Francia.»
Il Nord. Rémy era al Nord. “Ti prego, fa’ che stia bene.” Cercai la mano di Bitsi e la tenni nella mia.
La signorina Reeder disse che dovevamo essere pronti per lo stato di guerra e persino per i bombardamenti. Non c’era proprio modo di saperlo. Lo staff parigino doveva lasciare la città; lo staff straniero, il paese.
«Tornare a casa?» chiese Helen della consultazione.
«Temo di sì», rispose la signorina Reeder.
«Lei se ne andrà?» domandò Boris.
«Per favore, non se ne vada», mormorò Bitsi.
«No», disse la direttrice. «L’American Library rimarrà aperta.»
Grazie al cielo. Bitsi mi strinse la mano. Eravamo spaventate, però almeno avevamo ancora la Library.
«Questo è tutto.» La frase, usata per segnalare la fine di una riunione, ci disperse come palle da biliardo… per condividere la notizia, per andare a piangere nel guardaroba. Intontita, barcollai verso la sala dei periodici, dove Paul camminava avanti e indietro vicino all’espositore delle riviste.
«Ho appena saputo», disse. «Devi essere molto in ansia per Rémy.»
Spalancò le braccia, e io lasciai che mi stringesse.
Una settimana dopo, la signorina Reeder si avvicinò, la fronte corrugata per la preoccupazione. «L’American Hospital è stracolmo», mi disse. «Perché non vai a dare una mano per qualche giorno? È improbabile, ma potresti incontrare qualcuno che conosce tuo fratello o il suo reggimento.»
«E la Library?»
«I libri sopravvivranno a tutti noi. Va’ e cerca di scoprire qualcosa.»
Le infermiere correvano da una sala operatoria all’altra, le cuffie inamidate storte, i grembiuli impregnati di sangue. Soldati con i bendaggi sporchi erano accasciati sulle sedie nei corridoi. I volontari lavavano loro la faccia e i piedi. Riempii una bacinella di acqua calda e mi inginocchiai davanti a un soldato, poi un altro e un altro. Ogni volta che pulivo il sangue dalla faccia di un soldato dai capelli scuri, speravo che si rivelassero gli occhi intelligenti di Rémy. Innumerevoli facce dopo, mi alzai per sgranchirmi e per vedere se potevo essere d’aiuto in reparto, dove i feriti erano sdraiati su stretti lettini. Non sapevo se essere sollevata dal fatto che Rémy non fosse tra i feriti o spaventata perché era ancora al fronte.
All’alba crollai su una brandina nella stanza del personale e mi svegliai due ore dopo per servire la colazione. In pigiama, i soldati francesi e inglesi erano spogliati di uniforme, rango e nazionalità. L’ordine sociale si basava sulla gravità delle ferite. Ecco come le valutavo: se un uomo flirtava, si sentiva meglio; se rimaneva zitto, stava male.
Uno di loro, appena uscito dalla sala operatoria su una barella, si lamentava. Mi avvicinai per tamponargli la fronte corrugata con il fazzoletto che maman aveva intinto nell’acqua di lavanda.
«Tu», disse.
«Io», risposi.
«Tu mi hai lavato la faccia. Il tuo tocco era delicato…» Si appisolò, poi si svegliò di soprassalto. «Ti amo.»
«Con tutto quello che ti hanno iniettato nelle vene», ribattei, «ameresti anche una capra.»
La sera seguente, in reparto, lo aiutai a scrivere una lettera a casa, in America. Era andato in Canada e là si era arruolato nella Royal Air Force. «Non sono mai stato uno che se ne sta seduto in panchina», disse. Indicò le mie mani, screpolate per avere lavato i feriti. «Nemmeno tu lo sei.»
«Sono abituata a rappezzare libri, non persone.»
«Libri?»
«Sono una bibliotecaria.»
«Zittisci la gente?»
Gli diedi un colpetto scherzoso sul braccio. «Solo i soldati impertinenti.»
«Vorrei trovarmi in una biblioteca in questo momento.»
«Che tipo di lettore sei?» Era la prima volta da settimane che facevo quella domanda.
«La Bibbia. Da dove vengo io, sono forti sulla Bibbia.»
«Vuoi che te ne porti una?»
«Oddio, no! Cioè: no, grazie, l’ho già letta.»
«E se domani ti portassi qualcosa da leggere?»
«Sarebbe bello.»
Sbadigliò e un attimo dopo si era già addormentato. Erano quasi le nove di sera e dovevo tornare a casa prima che maman strappasse tutte le sue felci per l’ansia. Mentre mi avviavo verso la porta, un soldato che si chiamava Thomas allungò una mano e le sue dita sfiorarono il mio vestito sporco di sangue. Aveva diciannove anni.
Un barbiere, prima della guerra. Il giorno precedente, quando gli avevo portato una copia di «Life» con Lana Turner in copertina, si era rifiutato di aprire la rivista. «Non serve guardare oltre», aveva detto.
«Non andartene, mademoiselle Divoralibri.» Si aggrappò al mio orlo.
Gli accarezzai i capelli – castani come quelli di Rémy – scostandoli dalla fronte.
«Non andartene», sussurrò di nuovo.
Maman avrebbe dovuto aspettare. Gli sistemai la coperta sotto il mento.
«Parlami», disse.
«Di cosa?»
«Qualsiasi cosa.»
«Mi piacerebbe che tu potessi conoscere i clienti abituali dell’American Library. C’è un inglese… immagina una gru con un farfallino a motivi cachemire. E il suo amico francese… un tricheco con i baffoni folti. Ogni giorno accendono un sigaro puzzolente e si mettono a discutere. L’argomento di oggi: la madeleine di Proust avrebbe dovuto essere un croissant? Quello di ieri: chi è il più grande atleta con una J nel nome? Johnny Weissmuller o Jesse Owens.»
Fui ricompensata da un accenno di sorriso. «Si sbagliano entrambi: è il vogatore Jack Beresford. Continua a raccontare.»
«C’è madame Simon, con una dentiera usata che non si adatta alla sua bocca enorme. Oh là là, adora spettegolare.»
«Come le donne della mia parrocchia. Ancora.»
«L’ultima chiacchiera riguarda la mia utente preferita, una professoressa con un passato misterioso. “Ha sposato un uomo con la metà dei suoi anni”, ha cominciato a raccontare madame Simon, ma la nostra catalogatrice, l’austera signora Turnbull, con la sua frangetta storta grigiazzurra, l’ha interrotta: “No, aveva il doppio dei suoi anni”. Be’, avevano ragione entrambe: il primo marito della professoressa aveva il doppio dei suoi anni, il secondo la metà. Poi si sono messe a fare ipotesi sul terzo.»
«Il terzo?» disse lui. «Che vita.»
Lanciai un’occhiata all’orologio. Quasi le undici.
«Non andartene», mi disse.
La sua voce era diventata roca, perciò gli sollevai la testa e gli diedi un sorso d’acqua. «Non resterai mai da solo», promisi. «Devo raccontare ancora? Riconosceresti la professoressa da lontano perché veste sempre di viola. Parla dei libri come se fossero i suoi migliori amici…»
«Voglio conoscerla.»
Per tutta la notte gli rimasi vicino, raccontando storie, calmando i suoi sogni febbricitanti, tenendogli la mano finché morì.