5.
ODILE
Parigi, marzo 1939
«Ha telefonato mademoiselle Reeder», mi disse maman quando io e Rémy entrammo in casa. «Vuole vederti.»
Mi voltai verso Rémy e vidi il mio vortice di speranza e sollievo riflesso nei suoi occhi.
«Sei sicura che accettare un lavoro sia una buona idea?» mi chiese maman.
«Sicura.» La abbracciai.
Rémy mi diede la sua borsa verde. «Come portafortuna. E per i libri che porterai a casa.»
Precipitandomi verso la Library prima che la signorina Reeder cambiasse idea, attraversai di corsa il cortile e salii di volata la scala a chiocciola, poi mi fermai di colpo sulla soglia del suo ufficio, dove lei stava esaminando dei documenti seduta alla scrivania, la penna d’argento in mano. Con gli occhi stanchi, il rossetto sparito da un pezzo, aveva un’aria smunta. In effetti erano già passate le sette di sera. Mi fece cenno di sedermi.
«Sto definendo il budget.»Mi spiegò che l’American Library, essendo un’istituzione privata, non godeva di finanziamenti governativi: dipendeva dagli amministratori fiduciari e dalle donazioni per qualsiasi cosa, dall’acquisto dei libri alle bollette del riscaldamento. «Ma non è di questo che si dovrà occupare lei.» Chiuse la cartellina. «La professoressa Cohen dice un gran bene sul suo conto, e lei mi ha fatto una buona impressione. Parliamo della posizione. Il fatto è che abbiamo assunto dei candidati che, per un motivo o per l’altro, non sono stati in grado di continuare, ragion per cui chiediamo agli impiegati di firmare un contratto di due anni.»
«Perché non sono rimasti?»
«Alcuni erano stranieri, e la Francia era semplicemente troppo lontana da casa, Altri hanno avuto difficoltà a rapportarsi con il pubblico. Come lei ha scritto nella sua lettera, l’American Library è un rifugio; il personale s’impegna molto perché resti tale.»
«Credo di potercela fare.»
«Lo stipendio è modesto. È un problema?»
«Per niente.»
«Un’ultima cosa. Il personale su turni lavora anche nel weekend.»
Niente più messe né pretendenti? «Io voglio lavorare la domenica!»
«Il posto è suo», disse la direttrice con aria solenne.
Balzai in piedi. «Davvero?»
«Davvero.»
«Grazie, non la deluderò!»
Lei mi strizzò l’occhio in modo malizioso. «Niente colpi in testa agli utenti!»
Risi. «Non faccio promesse che non potrò mantenere.»
«Inizierà domani», annunciò, prima di tornare a dedicarsi al suo budget.
Corsi fuori, sperando di incrociare Rémy prima che uscisse per il suo raduno politico e gli andai a sbattere contro sul marciapiede.
«Sei venuto!»
«Il verdetto?» chiese. «Sei rimasta dentro un’eternità.»
«Venti minuti.»
«È la stessa cosa», borbottò lui.
«Ho avuto il lavoro!»
«Te l’avevo detto!»
«Pensavo che fossi andato al raduno.»
«Alcune cose sono più importanti.»
«Ma tu sei il presidente. Hanno bisogno di te.»
Mi coprì il piede con il suo. «E io ho bisogno di te. Senza toi, non c’è moi.»
A casa, entrai in salotto dove maman stava facendo una sciarpa a maglia.
«Allora?» Mise da parte gli aghi.
«Sono una bibliotecaria!» La feci alzare e volteggiare per la stanza a passo di valzer.
UN-due-tre.
LIBRI-indipendenza-felicità.
«Congratulazioni, ma fille», disse. «Convincerò papà, te lo prometto.»
Con l’intenzione di prepararmi per il nuovo lavoro, andai nella mia stanza per rivedere gli appunti sulla classificazione decimale di Dewey. Il giorno prima, ai giardini del Lussemburgo, avevo visto molti 598 (uccelli). Prima o poi avrei imparato il 469 (portoghese)… Esisteva un numero per l’amore? Se io avessi avuto il mio numero personale, quale sarebbe stato?
Ripensai alla zia Caro: era stata lei per prima a farmi conoscere la classificazione decimale di Dewey. Come mi piaceva, da bambina, restarmene seduta in braccio a lei durante l’Ora della fiaba! Anni dopo, quando ne avevo nove, mi mostrò lo schedario, uno strano mobile di legno fatto di cassettini, ciascuno con sopra una lettera.
«Dentro, ci troverai i segreti dell’universo.» La zia Caro aveva aperto il cassetto della N per rivelare decine e decine di schede d’archivio. «Ognuna contiene delle informazioni che schiuderanno interi mondi. Perché non dai un’occhiata? Scommetto che troverai qualcosa di buono.»
Avevo sbirciato dentro e, tra le schede, avevo scorto un dolcetto. «Un torroncino!»
Mi aveva insegnato come trovare l’indizio successivo, una segnatura che ci avrebbe guidato alla sezione, allo scaffale, al libro esatto. Una caccia al tesoro!
La zia Caro aveva la vita sottilissima e un gran cervello. Come gli occhi di maman, anche i suoi erano color pervinca, ma mentre quelli di mia madre erano sbiaditi come una delle camicie blu eleganti di papà, gli occhi di zia Caro brillavano di vita. Era una lettrice onnivora: divorava scienze, matematica, storia, teatro e poesia. I suoi scaffali traboccavano, così sulla sua toeletta si mescolavano belletti rosa e Dorothy Parker, mascara e Montaigne. Il suo armadio conteneva Orazio e scarpe dal tacco alto, calze e Steinbeck. Il suo amore per i libri e il suo amore per me impregnavano il mio essere come la fragranza ambrata del profumo Shalimar che mettevamo dietro le orecchie.
I ricordi legati alla zia Caro mi rammentarono perché avevo bisogno di quel lavoro.
Il primo giorno di lavoro ero più nervosa di quando avevo sostenuto il colloquio. E se avessi deluso la signorina Reeder? E se qualcuno mi avesse fatto una domanda a cui non sapevo rispondere? Se solo la zia Caro fosse stata ancora con noi! Le avrei detto di non venire il primo giorno, ma lei sarebbe venuta lo stesso. Carica di Shelley e di Blake, mi avrebbe strizzato l’occhio e il mio nervosismo si sarebbe sciolto mentre ricordavo le sue parole: le risposte erano lì, bastava cercarle.
«Le presentazioni», disse la direttrice in tono vivace, facendomi conoscere innanzitutto Boris Netchaeff, il cortese capo bibliotecario franco-russo, impeccabile come sempre nel suo completo blu con cravatta. Al bancone dei prestiti, gli abbonati si mettevano in fila per sfilare davanti a lui come facevano con il parroco… per la comunione, per una parola a quattr’occhi. Il bagliore nei suoi occhi verdi non si spegneva mai, nemmeno quando doveva sorbirsi i racconti verbosi degli utenti. Sapeva dove procurarsi i tessuti più raffinati («La persona che conosco al Bazar de l’Hôtel de Ville la consiglierà bene») e cosa cercare quando si comprava un cavallo. A detta dell’austera signora Turnbull, era un aristocratico che un tempo possedeva una scuderia di purosangue. Il signor Pryce-Jones diceva che Boris era stato nell’esercito russo. Nella biblioteca, c’erano altrettante dicerie che libri.
Boris era famoso per la sua biblioterapia. Sapeva quali libri avrebbero consolato un cuore infranto, cosa leggere in una giornata d’estate e quale romanzo scegliere per un’evasione avventurosa. La prima volta che ero tornata all’American Library senza la zia Caro, dieci anni prima, gli alti scaffali sembravano schiacciarmi. I titoli impressi a secco sui dorsi delle storie non mi parlavano com’erano soliti fare. Con le lacrime agli occhi, mi ero ritrovata a fissare una macchia sfocata di libri.
Preoccupato, Boris mi si era fatto vicino. «Tua zia non ti ha accompagnato?» aveva detto. «È da un po’ che non la vediamo.»
«Non tornerà più.»
Aveva scelto un libro dallo scaffale. «Parla della famiglia, e della perdita. E di come sia possibile passare momenti felici anche quando si è giù.»
“Non ho paura delle tempeste e sto imparando a tener bene il mare con la mia barca.”
Piccole donne era ancora uno dei miei libri preferiti.
«Boris ha cominciato qui come fattorino – una specie di apprendista bibliotecario – e conosce praticamente tutto dell’ALP», disse la signorina Reeder.
Lui mi strinse la mano. «Lei è un’abbonata.»
Annuii, contenta che mi avesse riconosciuto. Prima che io potessi rispondere, lei mi trascinò via verso la sala di lettura, dove ci avvicinammo a una donna che scriveva vicino alla finestra. La faccia era incorniciata da capelli grigi, e teneva gli occhiali neri in equilibrio sulla punta del naso. Il tavolo davanti a lei era coperto di libri sull’Inghilterra elisabettiana. La signorina Reeder mi presentò l’amministratrice fiduciaria, la contessa Clara de Chambrun. La conoscevo di nome. Avevo da poco finito di leggere Giocare con le anime, uno dei suoi romanzi. Una contessa e una scrittrice in carne e ossa!
«Sta facendo ricerche per un altro libro sul bardo?» chiese la direttrice. «Perché non usa il mio ufficio?»
«Non c’è bisogno di un trattamento speciale! Sono un’utente come tutti gli altri.»
L’accento della contessa non era decisamente francese, e nemmeno inglese. Esistevano contesse in America? Avrei dovuto risolvere quel mistero un altro giorno. La direttrice mi guidò verso la sala dei periodici, che sarebbe stata la mia postazione. Lungo il tragitto mi presentò la segretaria, mademoiselle Frikart (franco-svizzera), la contabile signorina Wedd (inglese), e l’addetto agli scaffali Peter Oustinoff (americano).
Esaminai i lunghi scaffali su cui erano disposti quindici quotidiani e trecento periodici dall’America, dall’Inghilterra, dalla Francia, dalla Germania e da paesi lontani come il Giappone. Quando la signorina Reeder mi disse che sarei stata responsabile anche della bacheca, del bollettino di informazioni e della rubrica dell’ALP sull’«Herald», andai nel panico al pensiero di non riuscire a gestire tutto.
«Sa», disse la direttrice, «io ho cominciato in questa sezione e guardi dove sono adesso.»
Condividemmo un momento di complicità mentre guardavamo gli utenti che leggevano, a testa china, i libri tenuti in mano con riverenza.
Si avvicinò il signor Pryce-Jones. Mi ricordava una gru arzilla con un farfallino a motivo cachemire. Insieme a lui c’era un abbonato che assomigliava a un tricheco con folti baffi bianchi. «Buongiorno, signori, vi prego di dare il benvenuto all’ultima arrivata nel nostro staff», disse la signorina Reeder, prima di fare ritorno nel suo ufficio.
«Grazie per il consiglio di esporre per iscritto le mie motivazioni», dissi al signor Pryce-Jones.
«Sono contento che tu abbia ottenuto il lavoro», rispose lui, facendo ondeggiare il farfallino. Poi, indicando l’amico, aggiunse: «Questo giornalista connivente è Geoffrey de Nerciat. Pensa che la copia dell’“Herald” della biblioteca appartenga a lui».
«Sempre a diffondere menzogne, vecchio mio?» chiese monsieur de Nerciat. «Voi diplomatici non sapete fare altro.»
«Io sono Odile Souchet, bibliotecaria e arbitro», scherzai.
«Dov’è il tuo fischietto?» chiese il signor Pryce-Jones. «Con noi te ne servirà uno.»
«Le nostre gare a chi grida più forte sono leggendarie», si vantò monsieur de Nerciat.
«L’unica persona che sa sbraitare più forte di noi è la contessa.»
«Lo abbiamo appreso quella volta che è riuscita a mettersi in mezzo e insisteva perché risolvessimo le nostre divergenze fuori di qui.» Il francese fissò Clara de Chambrun.
«Mi ha fatto proprio spaventare! Pensavo che mi portasse via per un orecchio.»
Monsieur de Nerciat sorrise. «Quella gentildonna può portarmi ovunque voglia.»
«Dubito che suo marito sarebbe d’accordo.»
«Ed è un generale! Meglio che io stia attento.»
I due continuarono a beccarsi; io tirai fuori i quotidiani e familiarizzai con le riviste. Ben presto mi persi nei vari sommari, la testa piena di storia, moda e attualità.
«Mademoiselle? Odile?»
Immersa nella nebbia del lavoro, quasi non udii.
«Mi scusi. Mademoiselle?»
Sentii una mano sul braccio. Alzai lo sguardo e vidi Paul.
Era elegante nella sua divisa delle hirondelles, le «rondini», i poliziotti che facevano la ronda in bicicletta. Il mantello blu scuro metteva in risalto il petto ampio. Doveva essere arrivato direttamente dal lavoro.
Una volta, mentre stavo leggendo al parco in una giornata ventosa, una folata aveva sfogliato le pagine, facendomi perdere il segno. Paul mi fece svolazzare il cuore come quelle pagine che si voltavano in fretta.
Poi mi venne in mente un pensiero terribile: e se lo aveva mandato papà?
«Che cosa ci fai qui?» gli chiesi.
«No sono qui per te.»
«Non pensavo che lo fossi», mentii.
«Molti turisti chiedono indicazioni alla polizia. Mi serve un libro per migliorare il mio inglese.»
«Mio padre te l’ha detto che ho ottenuto il lavoro?»
«L’ho sentito borbottare a proposito delle donne che non sanno stare al loro posto.»
«Hai seguito l’indizio», dissi con sarcasmo. «Presto ti farà investigatore capo. Proprio quello che desideri.»
«Tu non hai proprio idea di quello che desidero io.» Tirò fuori un mazzo di fiori dalla borsa a tracolla. «Questi sono per il tuo primo giorno di lavoro.»
Avrei dovuto ringraziarlo con un bacio sulle guance, ma provai timidezza e immersi il naso nei fiori. I miei favoriti, i narcisi, che contenevano la promessa della primavera.
«Devo aiutarti a recuperare dei libri?»
«Mi farà bene impratichirmi a trovarli da solo.» Mi mostrò una tessera della biblioteca. «Ho intenzione di passare un po’ di tempo qui.»
Paul si avviò verso la sala di consultazione, lasciandomi spaesata nel corridoio. La sua tessera era stata appena emessa. Forse era venuto per me.
Nel corso della mattinata molti utenti aspettarono pazientemente che li aiutassi a trovare i periodici; solo uno si lamentò. «Perché nessuno riesce a rintracciare l’“Herald”?» borbottò. In seguito trovai il giornale stropicciato sotto la cartella di monsieur de Nerciat.
Una baruffa mi fece uscire dalla sala dei periodici, diretta verso il bancone dei prestiti, dove una donna dalla faccia tutta rossa agitava un libro all’indirizzo di Boris e gridava che l’American Library doveva smetterla di prestare romanzi «immorali». Quando capì che la sua mozione di censura non avrebbe trovato alcun sostegno, la donna tolse il disturbo con un’uscita drammatica.
«Non fare quell’aria scioccata», mi disse lui. «Capita almeno una volta alla settimana. C’è sempre qualcuno che pensa che il nostro compito sia di proteggere la morale.»
«Per curiosità, di che libro stava parlando?»
«Studs Lonigan.»
«Mi segno di leggerlo.»
Lui rise e, guardandolo, non potei fare a meno di pensare quanto fosse strano – e fantastico – che adesso fossimo colleghi.
«Ho qualcosa per te», mi disse.
«Sì?» Speravo che avesse scelto un romanzo per me. Invece mi porse un elenco di settanta libri che dovevo prendere e incartare per gli abbonati fuori città. Guardai l’ora. Già le due. Ero stata così occupata che mi ero dimenticata di pranzare. Troppo tardi, ormai. Da Estate, 813, ad Alcolici, 841, la caccia al tesoro mi portò in tutti e tre i piani di scaffali. Alle sei mi facevano male i piedi e la testa. Non mi ero mai sentita così stanca, nemmeno durante la settimana di esami. Avevo conosciuto venti persone e non riuscivo a ricordarmi nemmeno un nome. Avevo parlato inglese tutto il giorno, rispondendo a una decina di richieste: «È vero che i francesi mangiano le zampe delle rane e, se è così, cosa ne fanno del resto?» «Posso accedere agli archivi?» «Dov’è il bagno?» «Che cos’ha detto, ragazza? Parli più forte!». Alla fine del turno, non mi venivano più le parole. Era come aprire un romanzo e trovare le pagine bianche.
Tenendo stretti i miei narcisi appassiti, uscii nell’aria fredda della sera. La brina copriva i ciottoli del vialetto, rendendoli scivolosi. Le vesciche ai piedi pulsavano. Mi sembrò che il tragitto verso casa potesse durare quindici anni, invece di quindici minuti. Mentre camminavo zoppicando, sul lato opposto della strada, sotto la luce tenue del lampadaire, notai un’auto nera in attesa. Mio padre scese e mi aprì la portiera del passeggero.
«Oh, papà, merci.» Sollevata alla prospettiva di poter tornare a parlare francese, salii in macchina, sedendomi per la prima volta dalla colazione.
«Hai fame?» Mi diede una scatola della pasticceria Honoré. La aprii, assaporando l’aroma burroso del financier prima di mangiarne un morso. Il dolce si sfaldò in bocca; chiusi gli occhi e masticai lentamente.
«Ça va?» chiese. «Il primo giorno e sei già sfinita. Non avrai uno dei tuoi mal di testa, eh?»
«Sto bene, papà.»
«Alla tua età», disse in tono affettuoso, «io e maman eravamo appena sopravvissuti alla guerra e stavamo piangendo la perdita di amici e parenti. Hai solo vent’anni… vogliamo che tu ti goda la giovinezza, che trovi un fidanzato con cui andare a ballare, invece che sgobbare in questa fabbrica dei libri.»
«Papà, ti prego, non stasera…» Per tutta la vita, i discorsi dei miei genitori sulla guerra mi erano rimbalzati intorno: carri armati e trincee, gas mostarda e soldati mutilati.
«Va bene, parliamo di qualcos’altro. Ah, so che lavori la domenica, quindi ho invitato a cena una persona mercoledì. Questo dice che ama leggere!»