24.
ODILE

Nel cortile spoglio del nostro palazzo, maman strappava con una smorfia le sue amate felci dalle fioriere delle finestre. Accanto a lei, io ed Eugénie piantavamo semi di carote nella terra. Aiutare maman mi faceva sentire utile e la luce del sole era di uno splendore ultraterreno.

«Avremmo potuto piantare ortaggi anche l’anno scorso.» Passò le dita sulle felci indifese sparse sull’acciottolato. «Però mi piaceva avere qualcosa di bello.»

«E chi poteva sapere che l’occupazione sarebbe continuata?» chiese Eugénie.

«E se non finirà mai?»

«Lo abbiamo detto anche per la Grande Guerra. Tutte le cose belle finiscono; quelle brutte, anche.»

Maman ci lesse una lettera in cui le cugine in campagna promettevano di mandarci provviste. Quando ebbe finito, disse: «Per tutta la vita, le mie radici contadine mi hanno messo in imbarazzo. Quando i capi di papà venivano a cena con le loro mogli, mi sentivo sempre… non proprio raffinata come le signore parigine. Un grasso montone vicino al salmone affumicato».

«Oh, Hortense.» Eugénie prese la mano di maman sporca di terra.

«Ma ora le mie radici potrebbero salvarci.»

«Sotto forma di carote», scherzai.

«Perché hai nominato il montone?» protestò Eugénie. «Ora ho una fame da lupi.»

Ridacchiando, io e lei portammo le fioriere su per le scale e le sistemammo sui davanzali delle finestre. Maman ci seguì, il pugno pieno di giovani fronde che si arricciavano come punti di domanda.

«Immagino che dovremmo pensare alla cena», disse Eugénie. «Perché non inviti Paul?»

«Dovrà venire per la compagnia, non per il pasto», disse maman mentre metteva le sue felci in un bicchiere con un po’ d’acqua. «Di nuovo rutabaghe.»

«Al forno, questa volta», disse Eugénie con impudenza.

Finito di mangiare, maman fece finta di riordinare il secrétaire mentre io e Paul eravamo seduti sul divano. Visto che non potevamo parlare liberamente, gli mostrai una pagina dell’Età dell’innocenza, le nostre spalle che quasi si toccavano mentre leggevamo. «Quando siamo lontani e io aspetto con ansia il momento di vederti, ogni ragionamento viene distrutto in una grande fiammata. Ma poi tu arrivi; e rappresenti tanto di più di quello che io ricordavo, e ciò che io voglio da te è tanto di più di un’ora o due ogni tanto, tra eterni, inutili intervalli di attesa, di sete

Eugénie arrivò di corsa e tirò maman per una mano. «Oh, lasciamoli divertire un po’.»

«Quando saranno sposati potranno avere tutto il “divertimento” che vogliono», ribatté lei.

«Dov’è tuo padre?» chiese Paul, riportando la nostra comunicazione nel pubblico dominio.

«Ancora al lavoro. Arriva a casa di notte con dei documenti, ma non ci dice niente. Quando vedo i cerchi scuri che ha sotto gli occhi…»

«Ti preoccupi di tutti gli altri, ma io mi preoccupo per te», disse Paul. Mi spiegò che aveva risparmiato per un intero anno per farmi una sorpresa speciale.

«Di cosa si tratta?»

«Domani andremo a un cabaret.»

«Un cabaret!» Maman rimase senza fiato.

«Saranno circondati da decine di persone», disse Eugénie per tranquillizzarla.

Gli gettai le braccia al collo. Musica! Champagne! Niente chaperon! Avremmo ballato tutta la notte, perché chi andava alle feste aggirava il coprifuoco rimanendo nel locale fino all’alba.

«Non risolverà i nostri problemi», disse lui, «ma saremo spensierati per qualche ora.»

La sera seguente, maman mi sistemò una fronda rugiadosa nei capelli mentre Paul si agitava nel suo abito di velluto a coste. Al cabaret, sorseggiammo vino frizzante mentre danseuses formose in reggiseno e gonna corta su calzoni stretti alla caviglia ballavano sul palco, offrendo di tanto in tanto uno scorcio di scollatura. Io ero più interessata al petto di pollo nel mio piatto. Il coltello e la forchetta mi tremavano in mano. Era passato tanto tempo dall’ultima volta in cui avevo mangiato carne di qualsiasi tipo. Afferrai la carne tenera e, addentandola, feci scivolare la lingua lungo l’osso. Non volevo sprecare nemmeno una goccia di sugo sul tovagliolo, così mi leccai le dita. Dopo cena, circondati da coppie sulla pista da ballo, io e Paul ci stringemmo l’uno all’altra.

Alle prime luci dell’alba, i festaioli – sazi e assonnati – sfilarono fuori dal cabaret. Io e Paul vagammo per le strade deserte, passando davanti alla mairie, dove erano esposte le pubblicazioni. “Mademoiselle Anne Jouslin di Parigi sposerà monsieur Vincent de Saint-Ferjeux di Chollet.”

«Strano vedere che la gente si sposa», dissi pensando a Rémy, così lontano, mentre Bitsi passava le serate da sola.

«La vita va avanti.» Paul mi guardò.

Sospettavo che, se fosse dipeso solo da lui, saremmo già stati sposati. Lo trascinai per le vie serpeggianti di Mont­martre. Al sorgere del sole, ci sedemmo sui gradini della chiesa del Sacré-Coeur. Rannicchiata tra le sue braccia, guardai le nuvole arancioni e rosa sbocciare come fiori.

«Fin dall’inizio ho capito che tu eri diverso dagli altri», dissi contenta.

«E come?»

«Hai difeso Rémy e poi me, quando volevo lavorare.»

Mi attirò a sé. «Sono felice che tu sia indipendente. È un sollievo.»

«Un sollievo?»

«Mi sono preso cura di mia madre da quando mio padre se n’è andato.»

«Ma eri giovanissimo!»

«Da bambino, non sapevo mai in che stato l’avrei trovata tornando a casa… ubriaca, in lacrime, mezza nuda con qualche uomo. In seguito ho dovuto lasciare la scuola per trovarmi un lavoro. La maggior parte di quello che guadagno lo mando a lei. Sinceramente, capisco perché mio padre se n’è andato.»

«Oh, Paul.»

Lui si scostò. «Dobbiamo andare.»

«Parliamo.»

«Non voglio che i tuoi genitori si preoccupino.»

Per tutto il tragitto fino a casa rimase distaccato. Io volevo ridurre la distanza che si era creata tra noi. Sul pianerottolo oscurato, lo abbracciai. Riuscivo ad avvertire il suo cuore che batteva, e godetti nel sentire le sue labbra sulle mie, il suo sapore di champagne nella mia bocca. Le mie mani vagarono sul suo corpo mentre lui mi baciava la guancia, il collo, il décolleté. Alla mercé di quella tenera, folle magia che creavamo insieme, lo volevo su di me, dentro di me. Era ora di scrivere un nuovo capitolo nel nostro rapporto.

Gli allentai la cravatta. «Facciamolo.»

«Ne sei sicura?» chiese, ma la sua cintura era già slacciata.

Amai sentirlo irrigidirsi sotto le mie dita, amai udire i suoi gemiti sommessi, sapendo di avere su di lui lo stesso effetto che lui aveva su di me. Con un piede gli accarezzai il polpaccio, il ginocchio. Lui mi afferrò la coscia e sollevò il mio corpo sul suo. Le nostre lingue si incontrarono, colpo su colpo. Lui si avvolse le mie gambe intorno alla vita. Il sangue mi pulsava nelle vene.

«Odile, sei tu?» La voce di maman arrivò smorzata da dietro la porta.

Paul mi riappoggiò lentamente per terra. Vibrando di desiderio, barcollai sui miei tacchi alti. Lui mi sostenne con una mano e con l’altra tirò giù l’orlo del mio vestito. Il corpo mi doleva. Non avrei voluto fermarmi. La passione mi aveva reso spericolata, e la cosa mi piaceva.

La porta d’ingresso si spalancò. «Hai dimenticato le chiavi?» chiese maman.

«Trova un modo per restare da soli», sussurrai a Paul. Mi sfregai le labbra gonfie. Che rischio avevamo corso…

Alla Library appesi la giacca, canticchiando un po’ alticcia una ballata che aveva suonato l’orchestra. Avevo la pancia piena, il mio corpo cantava ancora. Quando entrò Bitsi – avvolta nel suo manto di malinconia – tornai immediatamente sobria.

Bitsi percepì la mia agitazione. «Cosa c’è che non va?»

«Niente.» Non sopportavo di incrociare il suo sguardo.

«Invece c’è qualcosa.»

«Con Rémy lontano, non è giusto che io vada avanti con la mia vita.»

«Chi ha detto che la vita è giusta?» disse lei in tono gentile.

«Come faccio a concedermi di essere felice mentre lui è angosciato, mentre tu sei angosciata?»

«Spero che tu e Paul non stiate rimandando il matrimonio.»

La guardai. «Lui vi ha accennato…»

«La tua felicità non è a scapito di Rémy. Tu e Paul siete fatti l’uno per l’altra.»

«Lo pensi davvero?»

«Sì.»

Quando Bitsi si voltò per andare nella sala dei bambini, mi sembrò che la corona della sua treccia di capelli fosse diventata un’aureola.

Prima che avessi modo di seguirla, Boris mi affidò un pacco di libri da consegnare. Mentre andavo dalla professoressa Cohen, passai davanti a una fiorista all’angolo della via. Mi venne in mente che la professoressa, quando chiacchieravamo, a volte lanciava uno sguardo triste al suo vaso di cristallo vuoto. Sperando di rallegrarla, comprai un mazzo di fiori.

Quando le porsi i gladioli viola, il suo viso s’illuminò. Scelse un’anfora dalla credenza e vi sistemò i fiori.

Indicai il vaso. «Perché non ha usato quello?»

«Non ci ho mai messo dentro niente.»

«Perché no?»

«La prima volta che il mio terzo marito mi invitò a casa dei suoi genitori, fu un interminabile pranzo domenicale. Avevo bisogno di una pausa e uscii dalla stanza.»

«Come la capisco.»

«Quando tornai, sua madre mi stava criticando: “È fredda. Troppo intellettuale. Così vecchia che sarà sterile”. Prima che lui avesse il tempo di replicare, dissi che me ne andavo. Il giorno dopo lui venne nel mio ufficio con quel vaso. Quando mi disse che gli ricordava me, ribattei: “Freddo, duro e vuoto?”.»

«E lui cos’ha risposto?»

«Che era una bellissima opera d’arte. Piena di vita, eppure capace di contenere tante cose. Perfetta in sé.»

Capivo perché lo avesse sposato.

«Come vanno le cose alla Library?» chiese.

Udii le domande che lei non osava fare. “Sanno che gli ebrei non possono più insegnare, e che ho perso il lavoro? A loro importa qualcosa?”

«Monsieur de Nerciat e il signor Pryce-Jones passeranno oggi pomeriggio», le dissi.

Lei drizzò la testa. «Insieme? Hanno fatto pace?»

Ebbene sì. La settimana precedente, stanco di quella situazione di stallo, il francese aveva chiesto alla signorina Reeder di mediare.

«La direttrice è formidabile», mi aveva confidato il signor Pryce-Jones. «Non possiamo competere con lei.»

«Quando lei punta i piedi», aveva aggiunto monsieur de Nerciat, «trema tutta la Library.»

La sala di lettura tornò a risuonare delle loro discussioni: «Gli Stati Uniti entreranno in guerra!», «Gli americani sono isolazionisti. Ne resteranno fuori».

Come mi era mancato il loro battibeccare!

«Sono contenta che abbiate fatto pace», dissi a monsieur de Nerciat, che si era fermato al bancone per dire bonjour.

«Be’, mi sono dovuto mettere “nelle sue scarpe”.»

Sorrisi per quella espressione idiomatica, dato che i francesi avrebbero detto «nella sua pelle».

«È stata dura fare il primo passo?» chiesi.

«Sarebbe stato peggio perdere un amico.»

Nella sala di consultazione si formò una coda di utenti e io risposi a richieste che andavano da «Come faccio la polenta?» a «Può dire alla donna laggiù di smetterla di parlare a voce così alta?». Quando venne il suo turno, anche Paul aveva una richiesta. «Puoi uscire a pranzo?»

Il mio sguardo si diresse subito verso la sala dei bambini. Io e Paul potevamo stare insieme. Lo aveva detto Bitsi, e la sua benedizione valeva più di quella di qualsiasi prete.

Vicino a Parc Monceau, un quartiere elegante famoso per le sue ambasciate, Paul mi guidò verso un maestoso palazzo in arenaria.

«Dove mi stai portando?» chiesi mentre salivamo la scalinata di marmo.

Lui sorrise. «Vedrai.»

Al secondo piano, aprì la porta di un appartamento ancora più sontuoso di quello di Margaret. Tende di velluto legate mettevano in evidenza le finestre alte. Alla luce del sole, i prismi del lampadario scintillavano.

«Chi ci abita qui?» sussurrai in soggezione.

«Probabilmente un ricco uomo d’affari che è scappato nella Zona Libera.»

«Come hai fatto ad avere le chiavi?»

«Da un amico nella nostra stessa situazione. Incontra qui la sua ragazza.»

Un appartamento per romantici appuntamenti segreti!

Paul si strofinò sul mio collo. «Ti amo», disse. «Farei qualsiasi cosa per te, qualsiasi.»

Lo desideravo più di ogni altra cosa, ma ero spaventata. Spaventata dall’eventualità che questo avrebbe cambiato tutto, spaventata alla prospettiva di provare dolore, spaventata dall’idea che fare l’amore ci avrebbe legati per sempre o divisi per sempre.

«Anche per me è la prima volta», disse.

Guardandomi negli occhi, aspettò la mia risposta.

Gli accarezzai la guancia. «Anch’io lo voglio.»

Gli tremavano le dita mentre mi sbottonava il vestito. Che bello mettere a nudo il mio corpo! Che bello vedere il suo senza la preoccupazione che maman entrasse di colpo! Mi accarezzò le calze di seta consunte. «Que tu es belle», disse, attirandomi sul divano.

Sollevai le gambe e lui si infilò lentamente. All’inizio fece male ma, mentre guardavo Paul, ero felice che fosse con lui. Quando si mosse dentro di me, i miei fianchi si alzarono per andare incontro ai suoi. Per una volta, la mia mente smise di analizzare ogni piccola cosa.

Dopo, accoccolata contro il suo corpo, mi chiesi perché i libri sorvolassero su questa parte. Mi ero sentita perfetta, anzi, più di quello… giusta. Stare con Paul sembrava un sogno, sembrava importante e giusto.

Quando lui si mosse, alzai la testa e mi guardai intorno. Mi domandai dove portasse il corridoio. Nuda, camminai sui raggi di sole che scaldavano il parquet. Paul mi seguì. La prima porta dava su uno studio con una scrivania dorata. Rémy avrebbe adorato la collezione di penne stilografiche decorate che trovammo dentro il primo cassetto.

«Perché non si sono portati via questi tesori?» chiesi.

«Quando è scoppiata la guerra, la gente è fuggita in preda al panico.»

Non volevo ricordare quei giorni terribili. Trascinai via Paul dalla stanza, lasciandomi alle spalle tutte le domande. La porta a sinistra dava su un boudoir rosa, dove salimmo sul letto a baldacchino. Rimbalzammo esitanti, un piede dopo l’altro, prima di metterci a saltare. Su e giù, ridevamo come bambini. Paul fu il primo a fermarsi, improvvisamente serio. Adoravo il modo in cui mi guardava con gli occhi colmi di ammirazione.

Senza fiato, mi lasciai cadere sul letto e mi infilai sotto la trapunta, sapendo che mi avrebbe seguito in quel soffice paradiso. Intrecciò le gambe alle mie e sussurrò: «Siamo a casa» nella nuvola arruffata dei miei capelli.

Quando lasciammo il calore del letto, pattinammo sul parquet scivoloso fino in salotto, dove indossammo gli abiti lasciati in un mucchio impaziente. Paul mi mostrò il suo orologio da taschino. «Sarà meglio che torniamo prima che quella bisbetica con la dentiera troppo grande si lamenti perché sei stata via troppo.»

«Promettimi che ci torneremo», dissi mentre ci chiudevamo la porta alle spalle.

Mi infilò dietro l’orecchio una ciocca fuori posto. «Tutti i giorni, se vuoi.»

Indugiammo davanti alla Library. «Meglio che vada», dissi tremando. Avevo la sensazione che il mio corpo fosse stato addormentato e che si fosse risvegliato di colpo. Notavo ogni battito di ciglia, ogni respiro, ogni pulsazione del cuore. Mi domandai se qualcuno avrebbe notato un cambiamento in me.

La biblioteca di Parigi
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