19.
LA SIGNORINA REEDER
Parigi, 16 giugno 1940
Era davvero Parigi, quella? La signorina Reeder pensava di no. I viali erano deserti, le bancarelle dei mercati vuote. Persino i passeri erano volati via. Si avviò a passo veloce verso la fermata dell’autobus, oltrepassò il fiorista, dove scorse carcasse filiformi di ortensie, e una panetteria sprangata. Aveva nostalgia del profumo semplice e magico dei croissant. Di solito prendeva il 28 fino alla Library, ma i trasporti pubblici erano cessati. Proseguendo a piedi, munita di borsa e maschera antigas, rabbrividì alla vista di un trio di soldati tedeschi di pattuglia. Angosciata dalla prospettiva di incontrare uomini come quelli anche altrove, la signorina Reeder accelerò il passo con un solo pensiero in mente: la Library.
Attraversò la Senna. Non c’era anima viva sulla vasta Place de la Concorde, nemmeno un’auto lungo gli Champs Élysées, il tratto di strada più trafficato di tutta la Francia. Nella città più animata del mondo, avrebbe potuto sentire uno spillo cadere. Il silenzio era strano. Non si era mai sentita così sola. Malgrado ciò, vedere l’ambasciata la rassicurò e fu tentata di fermarsi per avvisare l’ambasciatore Bullitt che l’American Library sarebbe rimasta aperta… dopotutto, lui ne era il presidente onorario. Però sapeva che il primo ministro francese, prima che il governo si desse alla macchia, aveva chiesto all’ambasciatore americano di occuparsi dell’arrivo dei generali tedeschi e di mantenere l’ordine. La svastica che stavano issando in cima all’opulento Hôtel de Crillon, proprio di fronte all’ambasciata, dall’altra parte del viale, indicava che l’ambasciatore aveva da fare.
La direttrice entrò nel cortile della Library mentre il custode stava aprendo le imposte. Era arrivata appena in tempo per vedere gli occhi assonnati del suo mondo che si svegliavano.
«Vado nel mio ufficio. Nessun visitatore fino alle nove, per favore», disse come sempre al custode, prima di prepararsi una caraffa di caffè. Alla scrivania, rilesse i telegrammi sperando che fossero cambiati nella notte, come tutto il resto. «La richiesta di fondi è stata respinta», aveva scritto da New York il terzo vicepresidente del consiglio di amministrazione. «Potrebbero sorgere delle incertezze nella mente dei nostri amici a proposito dell’apertura della Library.» Un altro aveva scritto: «Diamo per scontato che la Library chiuda. Dubito che possa svolgere qualsiasi attività nell’immediato futuro».
«Io non ho abbandonato il mio posto!» avrebbe voluto gridare. «Noi siamo qui!» Doveva convincerli della necessità che l’ALP restasse aperta. «Le biblioteche sono polmoni», si affrettò a scrivere, benché la penna tenesse a fatica il passo con le sue idee. «I libri sono aria fresca inalata per continuare a far battere il cuore, a fare immaginare il cervello, a tenere viva la speranza. Gli utenti dipendono da noi per le notizie, oltre che per sentirsi parte di una comunità. I soldati hanno bisogno di libri, hanno bisogno di sapere che i loro amici all’American Library tengono a loro. Il nostro lavoro è troppo importante per interromperlo adesso.» Rilesse quelle righe: troppo vere, troppo sentimentali. Si ricompose, scrisse altre lettere, una al signor Milam dell’American Library Association, un’altra al consiglio di amministrazione a New York: «Stiamo dando agli studenti ciò di cui hanno bisogno, al pubblico i libri che desidera e ai soldati quel che possiamo. In fondo è già qualcosa continuare a resistere, a sperare in un più ampio contributo all’umanità».
Si versò un caffè.
«Ne è rimasto un po’?» chiese Bill Bullitt, infilando la testa calva nell’ufficio.
«Ambasciatore.»
«Direttrice», le disse. «Sa già perché sono qui.»
«Per consigliarmi di tornare negli Stati Uniti», rispose lei in tono distaccato.
«Il presidente Roosevelt mi ha ordinato di lasciare Parigi, invece sono ancora qui. Non le consiglierò di fare una cosa che io stesso mi rifiuto di fare.»
«Dov’è finito il nostro buonsenso?» commentò lei con un sorriso appena accennato.
«Probabilmente lo abbiamo lasciato negli Stati Uniti.»
Lo osservò mentre si versava una tazza di caffè.
«Si rifugi al Le Bristol, dove sono alloggiati gli altri americani», le disse l’ambasciatore dopo essersi seduto.
«Non posso permettermelo.»
Lui bevve un sorso. «Lasci che ci pensi io.»
«Starò bene a casa.»
«Il suo palazzo ha un rifugio in cantina che protegga contro i gas velenosi?»
La direttrice indicò la maschera antigas appoggiata a uno scaffale della libreria.
«I trasporti saranno interrotti per un po’», disse lui. «Il Le Bristol dista solo quattro isolati da qui.»
La vicinanza le avrebbe fatto sicuramente comodo.
Calò il silenzio per quella situazione di stallo.
«Può raccontarmi qualcosa?» disse infine lei.
Il tono sicuro dell’ambasciatore perse consistenza. «Trattare con i tedeschi è un inferno. Mi prometta che starà attenta. E che si trasferirà in albergo.»
«Ci andrò stasera.» Gli porse la corrispondenza da inviare con il corriere diplomatico.
«Non la trattengo oltre.» L’ambasciatore si avviò da solo all’uscita.
Una piccola parte di lei rimpiangeva di non avere dato retta ai suoi genitori quando l’avevano supplicata di imbarcarsi su una nave. Aveva una loro foto in borsetta. Ogni volta che comprava una baguette o vi frugava dentro per cercare il fazzoletto, gli occhi della mamma e del papà la imploravano di tornare a casa. Avrebbe tanto voluto far capire loro che Parigi era casa. Era lì che si era creata il lavoro della sua vita, che si era creata una vita.
Restare era stata la decisione giusta. Se c’era una cosa che le avevano insegnato i suoi genitori, era di tener duro sempre, che si trattasse di un compagno di scuola cattivo o del catalogatore dispotico alla Library of Congress. Non sei niente senza principi. Non vai da nessuna parte senza ideali. Non sei nessuno senza coraggio. Anche mentre la supplicavano di tornare a casa, erano orgogliosi che restasse.
Cari mamma e papà,
ci sono molte cose che vorrei dirvi, molti pensieri che vorrei trasmettervi ma, ahimè, dovrò affidarmi al vostro cuore e alla vostra comprensione perché capiate tutto quello che porto dentro…
Le Bristol. I suoi genitori sarebbero stati più tranquilli sapendola insieme ai suoi compatrioti. L’albergo vantava una lunga lista di ospiti illustri: star del cinema, ereditiere, lord, lady, e adesso anche una bibliotecaria. Dopo il lavoro, tornò a casa a piedi al numero 1 di rue de la Chaise per prendere le sue cose. Mentre apriva la porta, madame Palewski le corse incontro. La pelle olivastra della portinaia era terrea.
«Cos’è successo?» chiese la signorina Reeder.
«Mio marito era alla biblioteca polacca. Sono arrivati.» Madame scoppiò a piangere. «Sono entrati con la forza. Hanno chiesto le chiavi. Hanno perquisito tutto l’edificio. Gli archivi, i manoscritti rari. Il direttore ha cercato di fermarli. I soldati hanno minacciato di portarlo via.»
«Suo marito sta bene?»
«Sì. Ma hanno rubato tutto…»
I nazisti erano a Parigi da tre giorni, era solo l’inizio. La signorina Reeder aveva sperato che le chiese e le biblioteche – luoghi di pacifica devozione – non sarebbero stati disturbati.
Si rese conto che presto avrebbe dovuto affrontare il nemico.