DOVE FINISCE LA CARTA E
COMINCIA LO SCHERMO?
VIAGGIO
A SEUL TRA PUNTI
INTERROGATIVI
Perché?
Perché?
Perché?
Riempire una splendida giornata di domande
Per bambini di cinque anni
Sicuramente loro sanno
Che senza quei perché
Tutto sarebbe nulla.
KO UN
Mi trovo in Corea del Sud, il paese di LG e Samsung, il paese di Qualcomm Mirasol, il dispositivo elettronico di Kyobo che permette di leggere libri con immagini a colori. Mi trovo nel paese del mondo con la più alta percentuale di abitanti dotati di telefono cellulare intelligente: oltre il novanta percento dei sudcoreani sono connessi alla rete. Mi trovo in un paese diviso dal 1948 tra capitalisti e comunisti, tra l’orbita statunitense e quella sovietica, io stesso diviso tra la veglia e il sonno. O meglio: tra la melatonina e il jet lag, completamente intontito.
Penso a tutto questo senza troppa lucidità dall’alto del Deoksugung Lotte Castle, un edificio di appartamenti con il suo centro commerciale e la libreria a pianterreno, nella mia prima nottata a Seul, mentre guardo dalla finestra un’alba metallizzata. Nei dintorni di questo grattacielo l’oscurità si stempera sulle gradinate dello stadio di una scuola femminile, semicircolari e venerabili quanto un teatro romano, di fronte all’ambasciata russa in Corea, un blocco massiccio pieno di antenne paraboliche, entrambi gli spazi circondati di schermi che rimangono accesi ventiquattr’ore su ventiquattro.
In Spagna è ancora ieri e la popolazione connessa non arriva all’ottanta percento, penso prima di tornare a dormire per un po’: ho viaggiato nel futuro.
Com’è questa frontiera fatta di tempo? Una gradualità oraria? Dove finisce il presente e inizia il futuro?
Il giorno in cui lo hanno chiamato i promotori del centro-commerciale-fabbricato-con-container-per-navi più grande del mondo, Lee Kiseob si trovava nella nuova sede della sua libreria Thanksbooks, dopo aver dovuto lasciare un locale più grande, con servizio di caffetteria, per problemi economici.
«Non mi interessava aprire una succursale di Thanksbooks, con la stessa estetica e lo stesso concetto, a Commonground, perché ogni zona ha la sua identità e ogni libreria deve trovare il modo di dialogarci» mi dice questo libraio dagli occhiali tondi, capigliatura folta e nera, che non smette di sorridere, pacato ma nervoso, «e qui dovevamo sviluppare un concetto legato alla zona universitaria in cui ci troviamo e con il metallo dei container».
Per questo la porta scorrevole è antica, di legno, da hanok o casa tradizionale coreana. Per questo bisogna salire qualche gradino e l’intera superficie è ricoperta dal parquet: per rimarcare una transizione. Una volta all’interno, ti ritrovi davanti il metallo dei tavoli e degli scaffali.
Index è strutturata su tre livelli: in quello superiore c’è la caffetteria, dove non si serve caffè espresso, bensì filtrato, di marca Index; quello centrale ospita la libreria, curata come se si trattasse di una galleria d’arte, con i libri in ordine alfabetico con etichette tipo “D of Design”, “U for Used” o “W of With”, e quello inferiore è dedicato ai poster, suddivisi in grandi cassettiere.
«A me e ai nostri soci di Graphic Magazine è sembrato il tipo di testo più vicino esteticamente ai container» spiega la mia guida, che fa anche il grafico, «i nostri poster sono libri di una sola pagina, scritti da artisti, musicisti, scrittori e disegnatori, sono il principale segno distintivo della nostra identità».
Dove finisce l’identità di un libraio e comincia quella della sua libreria? In quale spazio di negoziazione con un edificio o un quartiere o una città lo spirito della libreria si contrae o si espande?
«Negli ultimi anni c’è stata un’esplosione di case editrici indipendenti, di riviste stampate e di piccole librerie, aprire un piccolo negozio, gestito da una sola persona, legato ai libri, è un buon modo per sfuggire alla pressione neoliberista del mondo professionale coreano» mi racconta la libraia Cha Kyoung hee, che si presenta sul biglietto da visita come “Bookshop Editor”.
Sebbene apra di solito a mezzogiorno, ci ha messo a disposizione il locale alle dieci del mattino perché possa intervistare qui Han Kang. «È una libreria molto letteraria, dove staremo tranquilli» mi aveva detto ieri sera via email la scrittrice coreana.
Neanche chi ha sempre vissuto a Seul riesce a orientarsi nel caos dei suoi indirizzi postali. «Jorge?», mi aveva chiesto qualche minuto prima qualcuno alle mie spalle. Anche Han Kang si era persa tra quei vicoli che circondano una specie di fortezza costruita negli anni Cinquanta da immigrati della Corea del Nord. E dire che è una cliente abituale e che martedì prossimo deve tornare qui per una lettura, in occasione dell’uscita di una sua raccolta di racconti. Alla fine siamo arrivati a Goyo, ci siamo seduti e, davanti al caffè che ci ha offerto Cha Kyoung hee, abbiamo cominciato la chiacchierata.
Indossa jeans neri e un maglione di lana anch’esso nero nella parte inferiore, ma con un bordo grigio in quella superiore, che evoca il profilo di una città di grattacieli. Capelli lisci, scuri, senza trucco: l’unica nota di colore è quella delle lancette rosse del suo orologio. Trasmette una calma tesa, sempre sul punto di svanire. Tutto in lei è discreto eccetto la maniera di parlare, che accompagna con gesti leggeri eppure carichi di una sottile determinazione. Tra una settimana compirà quarantotto anni. È abituata alle interviste.
L’autrice della Vegetariana è stata vegetariana per qualche anno, «ma poi mi sono ammalata e il mio medico mi ha convinta a mangiare il pesce, però continuo a evitare la carne rossa». Sebbene le piacciano le piante, non ne ha molte perché abita in un appartamento, senza giardino. Si considera femminista, perché «lo sei se stai contro il sessismo». Le piace viaggiare ma non ama gli hotel, «sono troppo solitari, preferisco fermarmi a lungo quando viaggio nei luoghi che mi interessano, a casa di amici o in appartamenti affittati». Seul è una città mostruosa, «troppo grande, ma non la cambierei per un posto più tranquillo, voglio vivere qui, perché la Corea è il paesaggio della mia letteratura».
Come raccontare un paese che nel 1948 si è spezzato in due parti radicalmente diverse, il cui paesaggio è brutalmente scisso? Tramite romanzi o film o esposizioni o cronache a loro volta percorse da crepe, interrotte?
Index è stata inaugurata nel novembre del 2017: esattamente un anno fa. In questi giorni alla fine del 2018 in cui la temperatura scende lentamente ma in modo costante, visito altre librerie anch’esse nuove. Historybooks, con la sua grande e iconica ruota della storia in vetrina, ha aperto prima dell’estate. E la casa editrice IANÑ, che pubblica libri d’arte dal 2007, in marzo ha inaugurato uno spazio di vendita di libri: The Reference.
Ne sfoglio uno: A Blow Up, di Seung Woo Back, un libro fotografico realizzato con i frammenti dei negativi che la censura della Corea del Nord gli consegnò alla frontiera, dopo aver tagliato con le forbici le immagini non autorizzate. Il fotografo sudcoreano ci ha messo diversi anni a rendersi conto che in quel materiale mutilato c’era un racconto del paese gemello più eloquente dei negativi originali ancora interi.
Da Seoul Selection, un piccolo locale specializzato in libri sulla Corea, situato al piano interrato di fronte al palazzo Gyeongbokgung e quindi nei pressi del museo d’Arte moderna e contemporanea di Seul, consulto il catalogo dell’ultima biennale di Gwangju, dove è stata esposta per la prima volta l’arte nordcoreana recente. Molte delle opere erano collettive, tutte erano accademiche: la carriera di artista, come quella di scrittore, è una delle opzioni professionali che può scegliere un giovane del paese più ermetico al mondo. Ma nel quadro Nell’Esposizione Internazionale, di Choe Chang Ho, mi ritrovo davanti un’immagine inaspettata: quattro donne, in uno studio di pittore ottocentesco, guardano lo schermo di un Mac portatile. Nel cuore del realismo socialista, il massimo emblema del capitalismo digitale. Nella scenografia del passato, il disegno del futuro.
Dai giochi olimpici invernali che si sono tenuti quest’anno a Pyeongchang il disgelo ha avuto un’accelerazione: le librerie colgono la temperatura dei cambiamenti. Per questo da Veranda Books, la più hipster tra quelle che ho visitato, un posto incantevole con il soppalco mansardato che vende soprattutto libri illustrati, nel quartiere delle hanok più antiche e pertanto con più turisti in giro, non mi stupisce trovare vari libri e cartoline in tema turistico. Dopo che i suoi abitanti hanno visitato il mondo intero, la Corea ora si prepara a diventare essa stessa una destinazione turistica. La frontiera nord è una delle principali attrazioni. E le librerie e le biblioteche, che non cessano di moltiplicarsi, sono avviate a diventarle.
Quale superficie riflette in maniera più precisa una cultura? Quali superfici possono o meno rappresentarla? Ogni viaggio non è forse una ricerca di lenti, di sguardi e specchi?
«In quest’ultimo decennio le librerie di Seul sono cambiate radicalmente, prima erano tutte uguali, adesso ognuna ha una sua identità e vale la pena visitarle» mi dice Lee Kiseob prima di salutarci, mentre tre ragazze si scattano foto davanti all’espositore delle cartoline postali di Index. In una c’è scritto: «There is always another kind of game».
Siamo in diversi turisti culturali a farci foto nell’allucinante Starfield Library. Percorsa da scale mobili, la biblioteca da cinquantamila volumi ordinati su venticinque ripiani sovrapposti – inaugurata il 31 maggio 2017 – occupa con le sue scaffalature imperiali e i tavoli di lettura la hall e alcuni spazi laterali del centro commerciale Coex. Ma la maggior parte di coloro che sono venuti qui lo hanno fatto per incontrarsi o per leggere, non per caricare immagini su Instagram.
Anche noi turisti che visitiamo la libreria Kyobo, la più famosa di Seul, facciamo foto, ammirati dall’armonica integrazione fra le varie sezioni di libri – su varie centinaia di metri quadri – e quelle di articoli tecnologici e da regalo, e dalle sue caffetterie.
Bookpark, nel grande complesso culturale Hannam-dong nel quartiere di Itaewon (e proprietà di Interpark, la “Amazon coreana”), potrebbe convertirsi in una terza icona turistica: nel posto migliore per scattare la foto delle sue scaffalature chilometriche e verticali, piene di libri, c’è un cartello segnaletico con il profilo di una fotocamera. Una macchina fotografica del XX secolo, perché le icone sono più lente a cambiare rispetto alla realtà.
Lo stesso cartello si trova nella biblioteca metropolitana di Seul, accanto al municipio, a indicare lo spettacolare anfiteatro per lettori, tutto in legno, che scende fino alla sezione di letteratura per l’infanzia della biblioteca. A pochi metri, all’ingresso di Kyobo, ci sono delle gradinate che, a quanto mi dicono, con il bel tempo si riempiono di gente che legge. Anche alla Book by Book e alla Starfield Library ci sono grandi scalini di legno dove sedersi per leggere.
Nella vasta rete di interconnessioni che è la metropolitana di Seul, invece, non si vede nessuno che legga un libro: in questo spazio, un mondo congelato nel silenzio, predominano i telefoni cellulari.
Dove finisce la città e comincia il teatro?
Han Kang mette sul tavolo i tre volumi della sua narrativa breve. «Rappresentano vent’anni di racconti, e come puoi immaginare, sono molto importanti per me» mi spiega in inglese, lentamente ma con precisione e fluidità. Questi testi collegano la donna adulta con la ragazza che voleva diventare scrittrice. Proviene da una famiglia povera, in una casa dove quasi non c’erano mobili, ma molti libri sì: «Mio padre negli anni Settanta era un giovane romanziere, adesso è un autore prolifico, ma allora non avevamo neanche un tavolo su cui mangiare, mentre c’era una grande biblioteca, dove io godevo di una totale libertà di leggere quello che volevo: la lettura era il mio territorio».
Quando frequentava le superiori le piaceva immaginare che Seul si pronunciasse come soul, anima: «Ricordo che fu allora, a diciassette anni, che acquistai per la prima volta un libro, l’inizio della mia biblioteca personale, in una piccola libreria di Suyu-ri, qui a Seul, dove sono cresciuta dopo esserci trasferiti da Gwangju». Il libro era una raccolta di poesie di Han Yong-un intitolata Il tuo silenzio.
Nell’adolescenza cominciò a scrivere poesie, i racconti sarebbero arrivati all’università. Negli anni Novanta in Corea dovevi vincere un premio per essere considerato uno scrittore: «Io vinsi quello che promuoveva un importante quotidiano, e pubblicai alcune poesie su una rivista, così diventai una scrittrice, adesso il sistema non ha più questi margini ristretti, ma allora funzionava così, sebbene sembri strano a qualcuno che viene dall’Europa». A ventotto anni pubblicò il suo primo romanzo, il cui titolo si potrebbe tradurre come Corna nere, e parla di una donna che scompare. Il fidanzato e un’amica intraprendono un viaggio di ricerca. Le chiedo se lo considera ancora soddisfacente: «È piuttosto lungo, circa quattro volte la lunghezza della Vegetariana, ci ho lavorato tre anni, è stata un’esperienza profonda, sì, mi piace ancora».
Può essere un’unica persona la migliore via di accesso all’anima di una città, di un intero paese? E una libreria? E una biblioteca? E un dispositivo tecnologico? E un libro?
Tongmungwan passa inosservata in Gwanhun-dong, una strada molto trafficata e piena di negozi di artigianato e souvenir. Una targa sulla facciata (della “Seoul Future Heritage”) e un diploma incorniciato all’interno certificano il suo valore patrimoniale. Ha aperto i battenti nel 1934: è la libreria più antica della Corea. La maggior parte dei libri è in caratteri cinesi, questo significa che i clienti abituali non sono comuni lettori coreani ma accademici e collezionisti di tutta l’Asia, in particolare della Cina e del Giappone. Sono in vendita anche documenti storici, diari, pamphlet politici. Dietro il bancone, in fondo al corridoio centrale costeggiato da scaffalature metalliche, si trova il rappresentante della terza generazione di librai, letteralmente sepolto dai libri che si accumulano nel grande scaffale di legno scuro. Lee Jong-un – contratto, orgoglioso – mi racconta che hanno fatto un solo trasloco, nel 1957, per trasferirsi a pochi metri, sulla stessa via.
A diciassette anni Lee Gyeom-no, il fondatore della libreria, se ne andò di casa, nell’attuale Corea del Nord, con l’intenzione di studiare in Giappone, ma un terremoto nella poderosa isola vicina cambiò i suoi piani. Rimase a Seul e cominciò a lavorare in una libreria antiquaria, non tanto per amore dei libri – stando a quanto avrebbe poi ribadito tante volte – bensì per fame. La fame di cibo si può saziare: quella di letture, nel bene e nel male, è insaziabile. Per decenni non solo comprò e vendette libri, ma pubblicò anche testi eruditi di ogni parte del paese e recuperò documenti e libri rubati per restituirli o donarli alle principali biblioteche nazionali. Quando, durante i bombardamenti del 1950, dovette scegliere tra salvare da casa sua una collezione di ottanta libri antichi, o il vasellame o il materasso o i quadri, non ebbe alcuna esitazione. È morto a novantasette anni, quattro anni dopo aver saldato un debito rimasto in sospeso. In una riunione dei membri dei due rami della famiglia, separati da quasi mezzo secolo dalla nuova frontiera, nel 2000, Lee Gyeom-no rincontrò Ryu Ryeol, anche lui bibliofilo, anche lui un uomo saggio, e gli consegnò il mezzo milione di won che gli doveva in diritti d’autore per il libro che gli aveva pubblicato prima della guerra. Ormai senza alcun debito, poteva riposare in pace.
E se in realtà la Corea del Nord e la Corea del Sud fossero lo stesso paese in due universi paralleli?
Se Johann Gutenberg avesse viaggiato nella Corea del XV secolo seguendo la Via della Seta – come fece Marco Polo all’inizio del secolo precedente – forse avrebbe scoperto che ciò che lui intendeva per futuro era in realtà una versione del passato. Nel luglio del 1377 due artigiani chiamati Seokcan e Daldam stamparono con caratteri tipografici mobili in metallo il Jikji, l’opera in cui il loro maestro, Beagun Hawsang, riassumeva gli insegnamenti del buddhismo zen. Ottant’anni prima che Gutenberg stampasse la Bibbia.
La cultura coreana tradizionale fu una e poderosa, nonostante le periodiche invasioni cinesi e giapponesi, finché si scisse a metà del XX secolo in due realtà simultanee, apparentemente opposte, ma egualmente dittatoriali. Perché mentre al nord, sotto il controllo di Kim Il-Sung, la Repubblica popolare democratica di Corea era una dittatura del proletariato che – al pari di tutte – aveva un unico grande leader, nel sud la Repubblica di Corea era anch’essa governata da personaggi torbidi, conservatori e neoliberisti, come il presidente Syngman Rhee e il generale Park Chung-hee.
Ma mentre il nord sprofondava nella povertà, il sud diventava protagonista di un miracolo economico senza precedenti e, in una sola generazione, balzava dal terzo al primo mondo. Questa transizione accelerata è stata traumatica. Probabilmente il giorno dell’anno che ravviva con maggiore intensità il trauma è quello dell’esame di ammissione all’università, il famoso Suneung, che si è convertito in un brutale rito di passaggio per gli adolescenti coreani. I genitori, che ricordano la fame patita nell’infanzia, pongono tutte le loro speranze nonché un’eccessiva pressione sui cervelli dei figli. Dopo mesi trascorsi a studiare anche tredici ore al giorno, con una narcotica carenza di sonno, i ragazzi e le ragazze si giocano tutto in otto ore di esami. Un dieci percento di coreani confessa di aver pensato al suicidio durante la giovinezza. E circa dieci ogni centomila lo hanno tentato, riuscendovi.
La maggior parte dei cinquanta milioni di abitanti della Corea del Sud, metà dei quali vivono a Seul e nell’area metropolitana, sono sopravvissuti alla guerra, alla povertà, alle dittature, a pressioni di ogni genere, in una rara e vitale e ancora giovane democrazia. Manca ancora molto tempo per poter sapere se i venticinque milioni che abitano attualmente in Corea del Nord siano anch’essi sopravvissuti.
Può il realismo rappresentare la nostra epoca?
Se dovessi stabilire un elenco di romanzi del XX secolo citando solo dieci titoli, uno di questi sarebbe La vegetariana. L’ipnotica storia di una donna che, dopo aver preso la decisione di non mangiare carne, rinuncia gradualmente alla propria umanità, fino a identificarsi negli alberi, non solo affronta uno dei grandi temi della nostra epoca, quello dell’empatia con il resto degli esseri viventi e in particolare con il regno vegetale, ma lo fa anche con una grande sensibilità nei confronti dell’arte contemporanea, ricorrendo alle scelte narrative più adeguate per rendere conto del dramma inesplicabile della protagonista. La prima parte è raccontata dal punto di vista del marito, che non la ama; la seconda, da quello del cognato, che stranamente la desidera sia artisticamente che sessualmente, e l’ultima, da quello della sorella, che non sa cosa fare con lei. Così, la vegetariana rimane al centro del romanzo come il suo nucleo oscuro, il mistero affascinante, che non verrà mai risolto: «Aveva la sensazione che fosse un essere sacro, di cui non si poteva dire se fosse umano o animale, o forse un essere che era una via di mezzo tra il vegetale, l’umano e l’animale».
Il seme del romanzo era stato un racconto: «Nel “Frutto della mia donna”, del 1997, scrissi una prima versione di quella che poi sarebbe diventata la prima parte della Vegetariana». Il racconto – leggibile sul sito della rivista Granta – narra la storia di un uomo che torna da un viaggio di affari e trova la moglie nel pieno di un processo di trasformazione vegetale; la aiuta; la sostiene nel suo commiato dalla specie umana: «Fu il risultato di una visione, a un tratto mi era apparsa l’immagine di una donna che si trasformava in un albero, e sebbene abbia momenti luminosi, è un racconto profondamente triste».
Sembra una versione contemporanea della storia di Apollo e Dafne: «Non ci avevo pensato finché, dopo che La vegetariana è stato pubblicato in altri paesi, si è cominciato a parlare dell’influenza di Ovidio e di Kafka nella mia opera, li ho letti entrambi durante l’adolescenza, suppongo che siano dentro di me». È molto curioso – mi dice – constatare che in ogni cultura si siano proiettati sul romanzo riferimenti diversi e le abbiano posto domande su argomenti anch’essi diversi: i giornalisti e i lettori italiani si sono dimostrati interessati soprattutto a Ovidio e alla difficoltà di comunicazione; quelli tedeschi, a Kafka, per il senso dell’umano e la violenza; nel mondo anglosassone, invece, l’ossessione era il femminismo; in Argentina e in Spagna, il martirio e il sacrificio. «A questo punto devo chiederti di Borges» la interrompo. «Amo Borges» risponde, «è uno dei miei autori preferiti, una delle mie letture fondamentali».
Tra il racconto e il romanzo c’è un doppio giro, le dico: scompare l’amore del marito e la storia abbandona la fantasia e diventa realistica. «Credo che il genere sia molto importante per capire tali questioni, certe decisioni: la poesia è molto personale, è intimamente condizionata dal linguaggio; anche il racconto lo è, ma non così tanto, perché è più visuale; però il romanzo per me è il genere più importante, perché mi permette di pormi le domande elementari». Durante la stesura della Vegetariana è arrivata ad affrontare una questione che non c’era nel “Frutto della mia donna”: il senso dell’umanità, sebbene «fin da bambina mi chiedo cosa sia un essere umano, perché per me non è qualcosa di naturale, ho fatto fatica ad accettare di appartenere alla specie umana, allo stesso genere di animale che ha creato Auschwitz o perpetrato il massacro di Gwangju». La sua intenzione era di rimarcare il fatto che la decisione presa dalla protagonista, quella di cessare di essere umana, non viene compresa da nessuno; ma lei non viene meno alla propria determinazione: «E la verità è che non credo che opterei per il realismo né che La vegetariana sia un romanzo propriamente realista».
E questa cronaca è realista solamente nei suoi frammenti con punti interrogativi?
Nella libreria Book by Book ti offrono un caffè americano se scrivi su una delle schede a disposizione una recensione di un libro che ti è piaciuto. Questo scambio di genetica ancestrale contrasta con la filiale bancaria che occupa una metà del locale.
Intorno al bancone del caffè Conma, sempre nei dintorni del municipio, si eleva fino al soffitto una gigantesca scaffalatura colma di libri, che si riflette sulla vetrina di fronte, dove c’è un espositore con una collezione di poesie, un arcobaleno di copertine colorate. Una ragazza vestita come una collegiale mi saluta mentre ne sfoglia uno: per un attimo penso sia una studentessa, ma ha una targhetta con il nome sul petto, è una commessa del negozio di vestiario al cui interno è situata la libreria caffè – le sue colleghe indossano la stessa divisa scolastica.
Sull’alto del Deoksugung Lotte Castle, il mio ultimo giorno a Seul, mi sveglierò davanti a una città irriconoscibile. L’anfiteatro della scuola femminile, le antenne paraboliche dell’ambasciata russa e gli schermi dei grattacieli saranno sul punto di svanire sotto una fitta cappa bianca. Sebbene non sia abituale la neve in novembre, sulla strada per l’aeroporto constaterò che la macchina municipale si è messa in moto fin dalle prime ore: i portieri puliscono le vie d’accesso ai condomini e gli spazzaneve sgombrano le strade sulle quali attraversiamo la megalopoli per raggiungere Incheon. Non mi sorprenderà il fatto che, dopo aver sbrigato le formalità del check-in e i controlli di sicurezza, finirò per fare colazione in un accogliente caffè libreria che condivide lo spazio con i banconi di tax refund. Sky Book Cafe contro Tax Refund: e in mezzo, un robot bianco che si muove sulle rotelle, con due cuori rosa al posto degli occhi e un messaggio sul display: “I love you”.
Tutte le crisi delle librerie si somigliano tra loro, ma ogni città affronta la propria alla sua maniera. Seul si è imposta un’inaspettata ibridazione: libreria e poster in un centro commerciale fatto con container navali; libreria e filiale bancaria; libreria e negozio di vestiario; libreria e aeroporto. Quattro risposte alla stessa domanda, in una città che sembra trovarsi nel prossimo decennio dell’umanità.
Come si garantiranno la sopravvivenza le librerie del futuro?
Andrés Felipe Solano – scrittore colombiano che da dieci anni esplora Seul in modo rigoroso e appassionato – mi regala l’ultimo numero della rivista dell’Istituto di traduzione letteraria della Corea, dove lavora gomito a gomito con i traduttori dallo spagnolo al coreano. Nell’editoriale risulta chiaro che il prestigioso Man Booker Prize alla Vegetariana di Han Kang è uno spartiacque nella storia della letteratura del paese. Qui non molti lo riconoscono come un capolavoro, ma le sue traduzioni nelle principali lingue del mondo lo rendono un’opera di fiction importante. Anche la pubblicazione mette in chiaro che per la Corea del Sud l’inglese è una lingua determinante quanto il cinese e il giapponese.
La stessa certezza viene ribadita nei cinque piani di Still Books, la libreria più squisitamente postmoderna della capitale, al cui pianterreno sono esposti in questo momento tutti i numeri, in coreano e in inglese, della rivista Brand, mentre all’ultimo piano si possono degustare i migliori whisky giapponesi. Camminando tra i banconi tematici, dove i libri convivono con oggetti di design, andando avanti e indietro sulle scale e i pavimenti di parquet marrone chiaro, tra minuscole esposizioni di cartografia, illustrazione e fotografia nelle intersezioni, puoi constatare che il centro di gravità della libreria è Seul, che intorno a questa protagonista si dispiega la cultura coreana e la sua lingua; ma che quelle anglosassone, cinese e giapponese sono le tre periferie che più interessano ai librai e ai loro clienti. Ai lettori.
Compro il numero di Brand dedicato a Tsutaya, la catena di librerie che si definisce la principale “piattaforma giapponese della cultura pop”. Al pari di Amazon e Fnac, è nata con il libro in primo piano, ma a differenza delle altre due non ha finito per relegarlo: nelle sezioni di televisori o computer, a quanto leggo, trovi migliaia di libri sulla tecnologia, e in quella di accessori da cucina, una bibliografia gastronomica. Ogni anno vengono aperte decine di filiali in franchising, ma l’intera struttura cresce su una base libraria. Persino l’architettura più iconica, come quella della sede di T-Site (opera di Klein Dytham architecture), si assoggetta a questa icona, questo simbolo, questa basilare unità di significato della cultura degli ultimi secoli e chissà se anche di quelli a venire: il libro.
Il progetto gemello di Tsutaya in Corea potrebbe essere la catena di librerie Kyobo, nata negli anni Ottanta come scommessa nell’industria culturale dell’omonima impresa di assicurazione. “Le persone creano libri, i libri creano persone” si legge, a caratteri cubitali, sulla parete di una delle sue succursali. Anche se all’interno delle dieci sedi possiamo trovare migliaia di libri e migliaia di articoli da regalo, disposti in decine di sezioni tematiche, lo spazio più emblematico è la biblioteca. Grandi tavoli di legno che alle nove e mezzo del mattino sono pieni di lettori di giornali e di studenti di ogni età chini sui libri aperti. Anche al centro della T-Site di Tsutaya ce n’è una, la Anjin Library, con centoventi posti a sedere e un’impressionante collezione di riviste. In fin dei conti, la via sulla quale si affacciano i tre edifici della libreria si chiama Magazine Street.
Da Still Books vendono sia la guida delle librerie di Seul, nella versione originale in coreano e nella traduzione in giapponese, sia tre guide di librerie giapponesi con i titoli in inglese: New Standard of Japanese Bookstores, Tokyo Bookstore Guide e Tokyo Book Scene. Guardo attentamente le foto nei quattro volumi: c’è un’evidente somiglianza tra le librerie di Tokyo e quelle di Seul che ho visitato negli ultimi giorni. Annoto i nomi di alcune di quelle giapponesi che in un prossimo futuro includerò senza dubbio nella mia collezione: Isseido, Beyer, Shibuya Publishers and Booksellers, Los Papelotes, Orion Papyrus, Sunday Issue, Book and Bed, Sanyono Book Store, Kitazawa, Books and Sons. Nel prologo di ogni viaggio c’è sempre uno o più libri. E un elenco.
Persino Bunkitsu, la libreria di Tokyo che ha aperto i battenti pochi mesi fa ed è diventata la prima nella storia a far pagare un biglietto di ingresso fin dalla sua inaugurazione, ha un’inaspettata anima gemella a Seul. Perché questa esauriente collezione di riviste e libri d’arte, architettura e design, che offre ampi spazi con tavoli per lavorare in gruppo e altri per le letture individuali (ispirandosi senza dubbio a quelli della Public Library di New York o alla Nacional di Buenos Aires, con le sue rinomate lampade verdi), non assomiglia tanto alla Index quanto alla Design Library di Hyundai Card. In effetti, non tanto a una libreria quanto a una biblioteca.
Seul e Tokyo si guardano l’un l’altra attraverso lo specchio del mare del Giappone. La storia di violenza tra i due paesi pesa, gli abusi che il Giappone ha commesso nel passato continuano a pulsare e sanguinare, ma le librerie sembrano – almeno in queste foto, in queste illustrazioni, in queste mappe – luoghi di incontro, zone di pace.
Dove finisce la cronaca e comincia il saggio? Dove finisce la cronaca saggistica o la saggistica che narra e comincia la fiction?
L’immagine della metamorfosi della protagonista nel “Frutto della mia donna” era così potente che Han Kang voleva continuare a lavorarci, ma non si sentiva pronta per questo progetto e intanto un altro incrociò la sua strada: il suo secondo romanzo, il cui titolo si potrebbe tradurre con Hai le mani gelate. Soltanto successivamente avrebbe affrontato la stesura del terzo, La vegetariana, la storia che l’ha resa famosa in tutto il mondo. Pubblicato nel 2007, il premio le è stato assegnato per l’edizione inglese, nel 2016: «È stato strano dover riprendere a parlarne, perché mi ero ormai staccata da quel libro, però mi sono ritrovata a pensarci molto, per i dialoghi con i traduttori, con gli editori o con i giornalisti, dai quali avrei imparato tanto».
In questi giorni al Museo nazionale d’Arte moderna e contemporanea di Corea si espone l’opera che Yun Hyong-Keun ha dedicato al ricordo del massacro di Gwangju – nel quale oltre un migliaio di cittadini morirono sotto i colpi dell’esercito del dittatore Park Chung-hee – alcune tele in cui grossi blocchi scuri si infrangono formando crepe bianche. Quel massacro è al centro di Atti umani, il quarto romanzo di Han Kang e il secondo che Summe Yoon traduce in spagnolo: «Dal mio punto di vista i due romanzi sono collegati, benché siano molto diversi, perché in entrambi il tema della violenza è centrale; ma senza dubbio Atti umani è un romanzo più personale, il più personale che ho scritto».
Le dico che, per la sua complessa struttura, leggendolo ho pensato a Shoah di Claude Lanzmann e a un film che in qualche modo è il suo erede, S-21, la macchina di morte dei Khmer rossi, di Rithy Panh, oltre ai grandi scrittori sulla memoria del genocidio, come Paul Celan: «Mi interessa molto Il sistema periodico, di Primo Levi, e anche gli altri suoi libri, a dimostrazione che è possibile scrivere su Auschwitz, ho letto anche Celan, uno scrittore straordinario, ma la lettura essenziale per Atti umani è stato un libro coreano, di testimonianze dei superstiti di Gwangju, l’ho letto per un mese intero, con sedute di nove ore al giorno, ho pianto a ogni pagina, ma prima di questa esperienza mi sentivo perduta, non sapevo come affrontare il romanzo, e dopo un mese di lettura e pianto la struttura si è rivelata e ho potuto iniziare a scrivere».
I libri scritti nella lingua madre e le traduzioni hanno ritmi divergenti. Mentre presentava questi romanzi in vari paesi, l’autrice realizzava in Corea del Sud performance sul suo ultimo titolo, The White Book, in cui, attraverso frammenti che coniugano poesia, narrativa e saggio, parla di sua sorella, che morì poche ore dopo essere nata. Delle quattro performance realizzate nel 2016 è stato tratto un video di diciotto minuti in cui intervengono altri performer: «Sebbene siano indipendenti dal libro in sé, hanno un rapporto metaforico molto chiaro, ovvero capire i meccanismi del lutto».
Tutte queste nuove librerie e biblioteche di Seul non saranno un sintomo, una reazione, una forma di lutto?
Nell’epoca in cui le biblioteche tendono a essere grandi spazi trasversali e multimediali, mi sorprende trovare a Seul le Hyundai Card Libraries, quattro piccoli laboratori specializzati. Nell’epoca in cui le biblioteche si sono popolate di persone che nell’ambito librario cercano un contesto dove astrarsi sui loro schermi, in queste quattro biblioteche i libri vengono consultati in rapporto con oggetti che danno loro un senso: i testi conducono all’azione fisica, anziché alla tecnologia. Nella biblioteca del Design, della Cucina, della Musica e del Viaggio, i libri continuano a essere i protagonisti.
La Biblioteca del Design sembra un piccolo museo d’arte contemporanea, con un giardino al centro dell’edificio a tre piani. Le tre zone si basano su criteri classici della biblioteconomia: nella prima si trovano i libri d’arte contemporanea, i cataloghi dei musei, le pubblicazioni periodiche e i volumi di design industriale; questi sono presenti anche nella terza area, assieme a quelli di architettura, design di interni, pubblico e organico, e la fotografia; mentre nella seconda troviamo la bibliografia sul design del libro, il marketing, la comunicazione visiva, design per utenti e titoli vari. In un minuscolo angolo al secondo piano, per esempio, accanto a un cubicolo con vista sui tetti delle hanok del quartiere, hanno selezionato una ventina di libri sulle cose di dimensioni ridotte: bagni, miniature, minimalismo, miniappartamenti.
Perché un libro venga selezionato per il fondo della Biblioteca del Design deve essere d’ispirazione, utile, intermediario, influente, trasversale, un classico (di fatto o potenziale) e bello. Anche le altre biblioteche hanno reso pubbliche le norme seguite dai rispettivi curatori per selezionare il catalogo dei titoli. Ciò che rende singolare il progetto, dunque, non è un nuovo concetto sulla dimensione libraria della biblioteca, bensì la curatela e una scenografia che genera un’atmosfera del tutto diversa rispetto a quella che troveremmo nella biblioteca di una facoltà universitaria di design. L’architettura e la cura dei dettagli sono state messe al servizio della creazione di un’esperienza diversa, sensoriale, artigianale e molto gradevole. Accanto ai tavoli e alle poltrone per la lettura ci sono la macchina del caffè e un frigorifero con bottigliette d’acqua. Su tutte le superfici dove si possono appoggiare i libri si trovano cassettine di legno con matite Faber-Castell e fogli bianchi. Tutto è stato pensato e scelto affinché il lettore si senta un essere privilegiato, che viene a godere della possibilità di tradurre le sue letture in appunti, disegni, progetti.
In ciascuna delle quattro biblioteche vengono offerti segnalibri diversi, puntando sempre sul cartaceo, sia per il tatto che per il design. Il dépliant in cui viene spiegata la Hyundai Card Libraries è di un gusto squisito, perché il libro cartaceo è al centro di tutte le esperienze: bibliografia su arte, artigianato e design nella Biblioteca del Design; libri di ricette, sulle materie prime o sulla gastronomia in quella di Cucina; letteratura di viaggio, carte geografiche, guide o l’intera collezione del National Geographic in quella di Viaggio; biografie di cantanti, saggistica musicologica, spartiti e titoli per melomani in quella di Musica.
Tutto intorno, si dispiegano le interfacce che consentono di convertire la lettura in esperienza vissuta e ricordo. Le matite della Design Library. I dischi e i giradischi della Music Library (in vendita nel vicino negozio, Vinyl & Plastic). Le carte geografiche interattive della Travel Library. I vassoi e le pentole, i fornelli e i forni della Cooking Library. Il lettore si converte in artefice pratico, in maker. In questo contesto stimolante, le sue conoscenze non derivano da YouTube o da Wikipedia, ma da un libro che – in generale – sceglie assieme al partner o agli amici. Grazie alla carta geografica, al giradischi, al caffè o al tavolo del ristorante, la lettura diventa collettiva, esperienza di gruppo, messa alla prova dai cinque sensi.
Le quattro biblioteche contengono all’interno strutture che evocano una casa portatile. In quella del Design è lo schema di una capanna di legno; in quella del Viaggio è un tetto a forma di alveare irregolare che ricorda la mansarda di un bed and breakfast; in quella della Musica ci sono moduli che evocano l’intimità della stanza dove gli adolescenti creano le loro colonne sonore (e una sala da concerti o discoteca), e in quella della Cucina, una sorta di serra esterna che funge da sala da pranzo e uno spazio, interno, che espone ogni genere di ingredienti.
Si tratta di offrire ambienti tranquilli, silenziosi, in cui si possano mettere in pratica le manualità e le conoscenze che non appartengono all’accademia né all’impresa. Che sono pratici e comunque legati alla vita domestica, l’ozio, la lettura come piacere, il tepore di un focolare semipubblico, condiviso, e non alla carriera professionale o alla diretta trasformazione del lavoro in profitto. Anche se l’accesso avviene con carta di credito.
Dove finisce il cartaceo e inizia lo schermo? E viceversa?
Prima di salutarci, chiedo a Han Kang quali sono le sue librerie preferite: «Mi piace visitare le piccole librerie della città, come questa dove siamo, Goyo, o Thanksbooks, o Wit-n-cynical, che è specializzata in poesia, o anche The Book Society».
E lì mi dirigo. È stata aperta da Helen Ku e Lim Kyung Yong nel quartiere di Sangsu-dong nel 2010, dopo due anni di esperienza editoriale con il progetto di libri d’arte Mediabus, e ora si trovano a un primo piano con l’atmosfera di una galleria d’arte, sopra un garage di Jongno-gu. «Dall’inaugurazione» mi racconta lui, «ci siamo focalizzati sull’organizzazione di eventi che creino comunanza, concerti, performance artistiche, presentazioni, dibattiti».
È stato qui, mi racconta la scrittrice spagnola Lourdes Iglesias, dove lei e suo marito, Bartomeu Marí – che ha diretto il Museo d’Arte moderna e contemporanea di Corea negli ultimi tre anni – sono entrati in contatto con la scena locale. «Vogliamo stabilire ponti» spiega Lim Kyung Yong, «tra il mondo del cartaceo e quello delle reti, digitali e umane, per questo stiamo traducendo e divulgando gli ultimi testi più importanti di teoria critica dall’inglese al coreano».
In un passage qui vicino c’è Irasun, che si definisce con due parole chiave: “Photobook and Booktalk”. In effetti, nell’interno accogliente sono esposti libri di fotografia delle migliori case editrici di tutto il mondo e una mezza dozzina di persone sta leggendo o conversando a bassa voce.
Queste piccole librerie non sono facili da trovare. Come tante altre a Seul, sono situate in vicoli, in stradine laterali, oppure non sono a pianterreno, perché non possono permettersi gli affitti che pagano gli onnipresenti negozi di cosmesi o di tecnologia varia.
Alla Alibaba, una libreria dell’usato molto vicina alla Kyobo di Ganman, ambiente da bunker postapocalittico, si accede direttamente dall’ascensore che scende nei sotterranei di un edificio commerciale. E, di fronte, ci sono grandi tavoli su cui i lettori consultano libri o prendono appunti. L’autentico Gangnam Style è underground.
Dove finisce una risposta e inizia la domanda seguente? Quale frontiera unisce e separa ogni viaggio? Qualsiasi testo non è forse una sovrapposizione di strati, una sequenza di domande e risposte?
L’editore Seunghwan Lee – eloquio professionale, viso da adolescente – mi racconta che nel mercato coreano «le vendite risultano circa all’ottanta percento di cartaceo e al venti percento di digitale, ma ci sono libri che si pubblicano esclusivamente su carta, perché il lettore coreano preferisce toccare le pagine e sentire l’odore della stampa». È per questo che il comune denominatore di tutte le librerie che ho visitato in questi giorni è la sofisticata grafica della copertina e dell’interno dei libri.
In questa città inquinata, dove tante persone transitano con la mascherina sulla bocca, sono assolutamente necessari i percorsi a piedi nei parchi che vengono creati in continuazione. Per lo stesso motivo, in questa città a misura di pixel, con innumerevoli edifici dotati di schermi giganti e dieci milioni di cellulari in perpetuo movimento, ha un senso che si moltiplichino le librerie e gli anfiteatri per la lettura. Ma così tanti lettori sono comunque una minoranza: la Corea del Sud non è solo il paese con più internauti al mondo, è anche il paese con l’indice di lettura più basso del pianeta. Mentre gli indiani leggono in media dieci ore alla settimana, e gli spagnoli quasi sei, i coreani non superano le tre ore.
Tutte queste nuove biblioteche e librerie ibride che sono state aperte a Seul negli ultimi anni forse sono una moda o una tendenza destinata a finire nel giro di qualche tempo. O magari sono legate al progetto di convertire la Corea del Sud in una meta turistica. Ma si possono interpretare anche come una rettifica.
Il miracolo economico in soli due decenni ha trasformato un paese povero in un paese molto ricco; un’economia senza tessuto imprenditoriale oggi si ritrova all’avanguardia nella tecnologia, la cosmesi, l’industria automobilistica; le scuole e le università antiquate sono diventate un sistema di istruzione di grande successo ma inesorabilmente competitivo. Il futuro è arrivato così rapidamente da ignorare l’assenza di un passato. Nel resto del mondo le collezioni di libri, pubbliche e private, hanno costruito la struttura fisica e mentale, critica e democratica, che poi si sono gradualmente stemperate. Qui sta succedendo l’esatto contrario. In realtà non ho fatto un viaggio nel futuro, ma nel passato che doveva precederlo e che la Corea del Sud sta costruendo – o inventando – adesso.
Nord Sud Est Ovest: senza fare distinzioni
Il bianco ricopre il mondo in egual maniera
non si può controllare la bufera di neve.
KIM KWANG-KYU