BIBLIOTECHE DI FINZIONE
I. Il patrimonio comune
Nel X secolo, in Persia, il gran visir Al-Sahib ibn Abbad al-Qasim, per non doversi separare dalla sua collezione di diciassettemila volumi durante i suoi viaggi» ci racconta Alberto Manguel in Una storia della lettura, «la faceva trasportare con una carovana di quattrocento cammelli addestrati a camminare in ordine alfabetico».
Dalla biblioteca di Alessandria ai nostri giorni l’essere umano non ha cessato di immaginare, costruire, rimpinguare, distruggere, salvare, bruciare, ricreare, ricostruire e anche difendere con le unghie e con i denti le sue biblioteche. Animale collezionista, assuefatto all’archivio, un altro nome possibile per l’Homo sapiens sapiens potrebbe essere stato Homo bibliotecarius perché l’ordine alfabetico o per generi o passioni fa ormai parte del nostro DNA – questi terabyte di informazioni microfilmate, questa biblioteca biologica, portatile e in miniatura che ognuno porta nelle sue vene e nella carne – perché il nostro bisogno di ordinare la memoria è ormai genetico.
La letteratura, l’architettura, la pittura, il cinema, il fumetto o la televisione hanno preso atto di questo bisogno umano di accumulare libri, classificarli, in uno spazio la cui frequenza sia la stessa di quella del desiderio. Perché è lì, nella costellazione di ciò che ci appassiona e ci intimorisce, in questa galassia che abbiamo creato a partire da immagini, racconti e miti, immaginazione trasformata in materia, dove convivono i bibliotecari alessandrini dell’antichità con i bibliotecari atemporali della Biblioteca di Babele di Borges, i lettori anarchici come Sherlock Holmes con i lettori sistematici come Bouvard e Pécuchet, le biblioteche minime come quella di David Copperfield all’ultimo piano di casa sua, ereditata dal padre, con quelle interstellari che troviamo nei romanzi di Isaac Asimov o nei film di fantascienza.
Il giovane Copperfield leggeva come se la sua vita dipendesse da questo, alimentando con Don Chisciotte, Robinson Crusoe o Tom Jones la speranza di una vita migliore, identificandosi con gli eroi e antieroi delle sue letture: desiderando essere loro. La lettura come desiderio ed evasione percorre gli ultimi secoli di storia letteraria. Già dai tempi dei personaggi danteschi di Paolo e Francesca sappiamo che la lettura dell’amore produce mostri. Le lettrici moderne, come Madame Bovary o La Regenta, soffrono proprio perché i libri che divorano non offrono loro modelli realmente utili a diventare felici, ovvero scendere a patti con la realtà. Molto prima, il loro nonno immaginario Alonso Quijano si trasforma per colpa della propria biblioteca nel suo mister Hyde, don Chisciotte della Mancia. Nell’Università Miskatonic creata da Lovecraft si trova a quanto pare un libro terribile, il Necronomicon, la cui lettura porta alla pazzia e alla morte: la sua possibile esistenza ci ricorda gli incubi che sono fatti della stessa pasta di cellulosa dei sogni.
La Bibbia non è un unico libro, bensì è una collezione di papiri e rotoli di pergamena, di libri canonici dell’ebraismo e del cristianesimo, una biblioteca sacra che oggi leggiamo in un unico volume – insomma: un’antologia di romanzi, poemi e racconti. Accade la stessa cosa con altre manifestazioni dell’idea di Libro, come l’Enciclopedia di Diderot e D’Alembert (che conta ventotto volumi del XVIII secolo) o Wikipedia (che se fosse stampata occuperebbe ottomila volumi da settecento pagine ciascuno), formalizzazioni del Libro di Sabbia che nessuno ha letto per intero, che esiste soltanto nelle nostre coscienze come selezione, come costellazione di frammenti. Leggere è precisamente questo: accumulare nel ricordo e nel subconscio tessere di un puzzle che non potremo mai completare.
In quanto lettori, ognuno di noi fa tesoro della propria biblioteca. Ci solleva e ci conforta sapere che al di là di quelle pareti esistono biblioteche pubbliche, municipali, universitarie, nazionali, che immagazzinano centinaia di migliaia di libri, un’immensa conoscenza stampata; ma la nostra cultura personale, al di là delle pareti del nostro cranio, si materializza negli scaffali del nostro studio, della nostra casa, ai quali per tutta una vita abbiamo aggiunto volumi, letti o meno, che leggeremo un giorno o che non verranno mai sfogliati, chissà, che importa. Ciò che davvero ci importa è possederli, ordinarli, sapere che stanno lì, alla nostra portata, che possiamo toccarli o sfogliarli o leggerli, parzialmente o completamente, a nostro piacimento, ricorrere a loro come fa il capitano Nemo nella sua biblioteca a bordo del Nautilus, o i monaci immaginati da Umberto Eco, notturni e furtivi, nel loro monastero del Basso Medioevo, labirinto assediato dalla censura e dal crimine.
Per millenni c’è stata in ogni abitazione una piccola rappresentazione del Tempio: una cappella, un altare, un angolo consacrato ai lari, ai defunti o agli dèi. La modernità li ha gradualmente cancellati dall’architettura domestica, allo stesso tempo in cui l’imperare della stampa e la proliferazione delle edizioni tascabili riempivano di libri le case, rendevano gli scaffali una presenza abituale quanto il tavolo e le sedie, le superfici del pane nostro quotidiano. La biblioteca ha occupato il posto del divino domestico. L’Enciclopedia Espasa ha soppiantato la Bibbia.
Abbiamo tutti la nostra biblioteca personale, intima, che è anche in parte immaginaria. Questo libro parla di tre biblioteche di finzione ma anche della somma di tutte le nostre biblioteche. Di quelle biblioteche di finzione che sono state così lette e così visitate, talmente ammirate e temute e godute, che ormai non appartengono più al conte Dracula o alla Bestia o ai bibliotecari di Babele o al Dottor Who, e neppure a Bram Stoker, Walt Disney, Jorge Luis Borges o Sydney Newman, ma sono patrimonio dell’umanità, dell’immaginario collettivo, sogno e proprietà di tutti e di ciascuno di noi, esemplari di Homo bibliotecarius.
In altre parole: sebbene siano di finzione sono reali; anche se sono state create da altri, sono nostre, perché siamo lettori. Ci appartengono.
II. La biblioteca di Alonso Quijano, il Buono
La biblioteca di Don Chisciotte non ha pareti né scaffali né volumi rilegati né altro tetto che quello di un cranio ricoperto da quattro tristi capelli canuti, un elmo un po’ ridicolo, pur essendo portato con orgoglio, convinzione e dignità, tutta la dignità che concede il trotto alquanto goffo di Ronzinante. Perché la biblioteca portatile di Don Chisciotte sta nella sua testa, a volte folle, spesso sensata, sempre stimabile. Quando parla lo fa come se leggesse ad alta voce uno dei tanti romanzi cavallereschi che ha divorato, riletto, memorizzato fino a impazzire per le troppe letture di romanzi cavallereschi e il troppo poco sonno, quando era un hidalgo smagrito, conosciuto come Alonso Quijano, il Buono, e i suoi libri non erano ancora costellazioni di neuroni, miniature biochimiche nel suo cervello.
La biblioteca di Alonso Quijano, invece, ha pareti e scaffali e poco più di cento libri, i più voluminosi ben rilegati, mentre Cervantes non ci dice nulla sull’aspetto di quelli più piccoli. Vi accediamo, paradossalmente, non attraverso il lettore protagonista, bensì tramite i suoi censori: coloro che si preoccupano della sua follia. Mentre la governante e la nipote – armate di un’acqua benedetta che in realtà potrebbe essere benzina – sono dell’opinione che tutti i libri siano dannosi senza eccezione alcuna e dovrebbero finire al rogo, il curato e il barbiere decidono di portare a termine una sorta di esame, cioè osservare uno per uno gli oggetti incriminati. Guardarli, sfogliarli, commentarli, affinché noi lettori avessimo la fortuna di assistere a una insperata scena di critica letteraria.
Il primo libro che controllano è Amadigi di Gaula: uno ritiene che meriti di finire nelle fiamme essendo il primo romanzo cavalleresco stampato in Spagna e pertanto l’origine di tutti i mali; l’altro obietta che sia il migliore dei libri di quel genere e quindi, per la sua qualità, andrebbe salvato. Ma non ottengono la stessa sorte i successivi libri esaminati: vengono scaraventati dalla finestra uno dopo l’altro, perché giudicati pessimi, arroganti, assurdi. Dopo la lunga serie di condanne, alla fine viene salvato un secondo volume e allora la morale e l’estetica iniziano a giocare la loro singolare partita a tennis. Purtroppo, vince quasi sempre la strana morale dei due inquisitori, che mascherano sotto argomentazioni sociali e letterarie una malsana avversione per la narrativa popolare e d’evasione. Per fortuna non vi sono soltanto romanzi cavallereschi, ma anche poemi. Grazie a ciò, compare La Galatea, di Miguel de Cervantes, amico del curato e «più incline alle sventure che ai versi». Viene così rivelato che il curato e il barbiere sono lettori avvezzi e fanatici di prosa e versi quanto lo stesso Alonso Quijano, partecipi dell’ambiente letterario ma con la mala o buona sorte di non perdere il senno nei libri.
Né la fortuna. Edward Baker, nella Biblioteca de don Quijote, dimostra quanto sia inverosimile che qualcuno dello status sociale ed economico di Alonso Quijano possedesse quella biblioteca, valutandola attorno ai quattromila reali dell’epoca, e quindi degna di un milionario; ed è anche inverosimile che quei libri stiano assieme, perché potevano esistere individualmente, ma a nessun lettore colto del XVII secolo sarebbe mai venuto in mente di ordinarli in uno stesso sistema. Baker mette a confronto la collezione di libri del protagonista con altre due che compaiono nel romanzo: quella del locandiere e quella di Diego de Miranda, cavaliere dal Verde Gabbano. E conclude che la biblioteca di Alonso Quijano è moderna perché vi predominano la narrativa di fiction e la poesia, ciò che oggi consideriamo letteratura, a discapito della teologia e altre discipline che avrebbero dovuto prevalere in qualsiasi libreria nello strano caso in cui qualcuno avesse deciso di dedicare uno spazio di casa sua ad accumulare e ordinare libri.
Il capolavoro di Cervantes è un classico grazie a questa capacità di adeguarsi al futuro che l’opera stessa genera. Perché è il romanzo che ha generato più romanzi. Per cui la sua biblioteca di narrativa e versi, con il passare dei decenni e dei secoli, ha finito per assomigliare sempre più alle biblioteche delle nuove generazioni di lettori, che hanno gradualmente dimenticato la teologia e le vite dei santi per lasciarsi conquistare dalla fantasia, dal realismo, dalla narrativa picaresca, d’amore o del terrore – che è il suo opposto.
Grazie alla sua biblioteca doppiamente immaginaria Alonso Quijano, il Buono, ha potuto trasformarsi in Don Chisciotte. Fu la sua magistrale scusa per lasciarsi alle spalle quel paesino della Mancia del cui nome più nessuno si sarebbe potuto ricordare, quel villaggio che è ormai un qualsiasi villaggio della regione, simile a tutti i villaggi castigliani, a tutti i paesini ancorati a una landa sperduta come barche arenate quando una laguna si prosciuga; per abbandonare, per quel che possa durare un sogno, la sua vita sedentaria; per scambiare la lettura, che è contemplazione delle vite altrui, con l’azione, che significa diventare protagonista della propria vita affinché sia contemplata da altri, i tuoi lettori; per espandere i limiti della sua biblioteca e incrociare decine di narratori e di lettori, compresi quelli delle sue avventure apocrife; per diventare un viaggiatore. Grazie alla benedetta follia di Don Chisciotte, dal facile contagio, anche Sancho Panza o Sansone Carrasco hanno potuto viaggiare, dal villaggio dell’interno fino al porto di Barcellona: dalla steppa solida fino al mare liquido.
L’obiettivo segreto di questo viaggio è che Don Chisciotte conosca una tipografia, che entri nell’ovulo, la matrice, la balia della sua passione di lettore, della sua alienazione libraria: il ventre in cui si generano i libri che sono destinati a nutrire le nostre biblioteche. E i nostri viaggi. E le nostre benedette follie.
III. La biblioteca del Nautilus
Jules Verne descrive in ogni dettaglio la biblioteca del Nautilus. Il ritratto parte dai libri, numerosi e rilegati in modo uniforme; poi allarga lo zoom verso i mobili che li contengono: scaffali in palissandro – il pregiato legno rosso scuro dell’albero del guayacán – con i bordi rivestiti di rame, comodi divani di cuoio marrone trapuntato, e qua e là, scrivanie mobili, leggere, che consentono di appoggiare il libro che si sta consultando al momento, ma è il grande tavolo centrale quello che invita allo studio approfondito. La biblioteca è illuminata da quattro globi luminosi. Nonostante il lusso dell’arredamento, i protagonisti assoluti sono i dodicimila volumi che percorrono instancabilmente gli abissi marini, le acque torbide, vaste, materne del nostro subconscio collettivo.
Perché Ventimila leghe sotto i mari è molto più che un romanzo: è uno di quei miti che tutti condividiamo. Perché Jules Verne è molto più che uno scrittore: è una macchina popolare che genera lettura compulsiva, icone, utopia, speranze. Nel cuore del sottomarino c’è una biblioteca di testi stampati in tutte le lingue, sia di letteratura sia di scienza, ordinati senza badare alle lingue, perché il capitano Nemo è un lettore poliglotta: da Omero e Senofonte a George Sand e Victor Hugo, dalla meccanica e la balistica all’idrografia e la geologia. Ci sono solo due materie al bando: l’economia e la politica. Come se, superstiziosamente, il capitano pensasse che eliminando i libri su queste due discipline la sua imbarcazione fosse immune dall’influenza della geopolitica internazionale.
Nelle prime sessanta pagine il personaggio narrante, a bordo di una nave statunitense, ci lascia credere che stiamo inseguendo una balena. Il cetaceo più veloce e sfuggente che si possa immaginare: è in grado di solcare i sette mari a una tale velocità da lasciar pensare che ricorra al teletrasporto. Aronnax, lo scienziato francese che ci racconta la storia, è accompagnato dal fedele servitore Consiglio e dal canadese Ned Land, il re dei ramponieri, che ricorda molto il tatuatissimo Queequeg. Di fatto il romanzo di Jules Verne si può leggere come l’antitesi del capolavoro di Herman Melville: se in Moby Dick assistiamo al racconto epico di come un’ossessione, quella del capitano Achab per il Mostro Bianco, si converte in un combattimento letale dalle tinte apocalittiche, bibliche, in Ventimila leghe sotto i mari la tenebrosità del capitano Nemo, il travolgente desiderio di vendetta che condivide con Achab, non oscura la luce del suo progetto scientifico, tecnologico, quel progresso che si contrappone all’atavismo della religione. Il capitano Nemo è uno scienziato, un amante della tecnologia, un collezionista: a parte la sua ira irriducibile, tutto può essere misurato e compreso attraverso la ragione. Entrambe le opere sono pervase da un anelito enciclopedico: la volontà di riassumere tutto ciò che si sapeva a quell’epoca riguardo il mare. Se l’esperienza fatta a bordo di una baleniera aveva offerto a Melville una conoscenza diretta delle questioni legate ai cetacei, successivamente ampliate con letture che traspaiono nella narrazione (le digressioni zoologiche sono di dimensioni analoghe a quelle delle stesse balene), Verne invece si nutrì, come sempre, della sua condizione di topo di biblioteca.
Non c’è da stupirsi, dunque, se le biblioteche siano una presenza costante nella sua opera. Quando nel romanzo Parigi nel XX secolo, ambientato in un 1960 in cui la tecnologia impera su tutto, immagina il futuro della Biblioteca Imperiale, dice che in cento anni è passata da ottocentomila a due milioni di volumi e che nella sezione di letteratura i bibliotecari, annoiati, si appisolano per l’assenza di lettori. Il protagonista di Viaggio al centro della Terra, da parte sua, visita la biblioteca di Reykjavík e trova gli scaffali vuoti, perché i suoi ottomila volumi si spostano costantemente per l’Islanda, di casa in casa, perché gli abitanti dell’isola sono lettori compulsivi e la loro biblioteca nazionale, un arcipelago frammentato e portatile. Dice di Cyrus Smith, personaggio dell’Isola misteriosa, dove non c’è una biblioteca, che «era un libro vivente, sempre disponibile e sempre aperto alla pagina che serviva». In questo romanzo compare e muore Nemo: Smith lo incontra dopo aver attraversato la biblioteca del Nautilus, descritta come «un capolavoro pieno di capolavori». Stanziali o mobili, monumentali o nomadi, collettive o unipersonali, centrali o remote, queste decine di biblioteche descritte da Verne sono la colonna vertebrale della sua opera, della sua poetica transmediale.
Dopo la descrizione iniziale, la biblioteca del Nautilus compare raramente nel corso del romanzo. Aronnax vi accede soprattutto per trovare spiegazione a fenomeni o realtà sconosciute che scopre durante la traversata, come l’isola di Ceylon. La vita quotidiana a bordo del sottomarino è spesso monotona, l’avventura scarseggia. La narrazione, di fatto, a parte alcune scene come la lotta con i calamari giganti o quando il sottomarino viene circondato dai ghiacci, è più di studio che di avventura. Un inno al positivismo: osservare, leggere, prendere appunti, elaborare una teoria basandosi sulla somma di migliaia di casi concreti, sulla sperimentazione diretta nel reale. «Lo spettacolo di quelle acque ricche di specie attraverso le vetrate del salone, la lettura dei libri della biblioteca e la redazione del diario, riempivano tutto il mio tempo e non mi lasciavano neanche un minuto per la noia o la stanchezza» scrive il personaggio narrante e nelle sue parole possiamo notare un certo ordine: in primo luogo, l’osservazione diretta della natura; poi, la lettura; infine, la scrittura, grazie alla quale noi stessi possiamo leggere, apprendere per interposta persona, il miraggio della letteratura.
Ventimila leghe sotto i mari è, al di là di un romanzo di avventure e di un’enciclopedia marina, un’autentica biblioteca sommersa negli abissi tanto della nostra immaginazione quanto di quella di Verne. Politicamente, si distingue per opporsi agli imperi. In maniera recondita, si distingue per il ritratto del capitano Nemo che nasconde un autoritratto. L’autoritratto del viaggiatore e rivoluzionario che avrebbe voluto essere il sedentario scrittore.
IV. La biblioteca di Babele
Immaginiamo una realtà senza natura né giardini; senza sentieri che attraversano i boschi né spiagge. Immaginiamo un mondo senza città: sprovvisto di strade, viali, veicoli, semafori, traffico, grattacieli con terrazze sul tetto, feste popolari, stampa sensazionalista o sportiva, pubblicità. Un universo senza pianeti né foreste, senza centri urbani né piazze, caffè o incroci. Immaginiamo un’umanità senza albe né tramonti, senza asili, orfanotrofi, senza sfilate di moda, senza mercati né mattatoi, senza famiglie né riunioni o vacanze familiari né bambini viziati. Immaginiamo, infine, un mondo di scaffalature, un alveare dominato esclusivamente dalla logica tirannica dei libri.
«L’Universo (che altri chiamano la Biblioteca) si compone d’un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo, bordati di basse ringhiere»: inizia così “La biblioteca di Babele”, uno dei racconti più celebri dello scrittore e bibliotecario Jorge Luis Borges, che immagina una sfera infinita e senza un centro. Uno spazio librario illuminato da grandi lampade sferiche e uno specchio, sotto la cui luce insufficiente e incessante, suppongo come graduale causa di cecità, gli esseri umani assumono la loro condizione di bibliotecari.
Bibliotecari che, nel racconto, non cessano di muoversi. Sono viaggiatori. Sono pellegrini. Sono cercatori di una risposta definitiva che non può arrivare – perché non esiste: tutte le risposte sono provvisorie, iniezioni di consolazione i cui effetti ben presto si dissolvono nella circolazione delle nostre arterie. Su ciascuna parete di ogni esagono ci sono cinque mensole; ogni mensola ospita trentadue libri di formato uniforme; ogni libro è di quattrocentodieci pagine; ogni pagina, di quaranta righe; ogni riga è composta da circa ottanta caratteri stampati con inchiostro nero; nere sono anche – immagino – ognuna di quelle pupille di lettori che inquietano – vespe, polline, api, mantra – l’alveare.
Nel racconto, miniatura dell’Universo stesso, indagine interna all’idea pitagorica secondo la quale vi sarebbe una matematica a regolare tutto, la musica del mondo, basata sulla combinazione delle ventitré lettere dell’abbecedario, c’è posto per tutti quei fenomeni che hanno inciso nella storia dei libri: i roghi, il culto, il messianismo, il paradiso e l’inferno. C’è spazio persino per ciò che non poteva ancora esistere quando Borges scriveva negli anni Quaranta: Internet come rete di collegamenti ipertestuali, l’evidenza che qualsiasi frase abbia potuto essere scritta in un mondo di Sisifo che non cessa di moltiplicare esponenzialmente il suo carico di informazioni.
Per questo il racconto gemello della “Biblioteca di Babele” è “Il libro di sabbia”, che Borges scrisse trent’anni dopo e narra la storia di un venditore di bibbie che offre al narratore un libro dalle pagine infinite. Un libro che è in sé una biblioteca che si espande. Un libro che è la biblioteca di Babele. Ciò che più somiglia al Libro di Sabbia è un computer portatile collegato a Internet. Come la biblioteca di Babele o come l’Aleph, il Libro di Sabbia è mostruoso: Borges parla sempre di come la cultura ci divori, ci inghiotta, ci deglutisca, ci annienti. Il personaggio è ossessionato dal libro infinito. Non esce più di casa. Non condivide con nessuno il suo tesoro. Accarezza l’idea di bruciarlo, ma teme che l’incendio e il fumo siano, come il libro, inesauribili. Per cui decide di nasconderlo. «Ricordai di aver letto che il luogo migliore per nascondere una foglia è il bosco» dice il narratore: «Prima di andare in pensione lavoravo alla Biblioteca Nacional, che custodisce novecentomila libri; so che sulla destra dell’atrio una scala a chiocciola scende nei sotterranei, dove ci sono i periodici e le carte geografiche». Approfitta di un momento di distrazione degli impiegati per nascondere il volume magico su uno scaffale consumato dall’umidità. E lì continua ad aspettarci, nelle catacombe della Biblioteca Nacional a Buenos Aires.
Forse esistono due grandi generi di giardini: quelli alla francese, dalla perfezione geometrica, che con le loro siepi scolpite e le fontane poliedriche e le prospettive così ben calcolate trasmettono l’idea che l’uomo possa addomesticare la natura, dominarla fin nel suo più infimo dettaglio, e quelli all’inglese, esaltazione romantica, prati agresti, boschi pretenziosamente selvaggi, che ci sussurrano l’idea contraria: la bellezza naturale deve riprodursi nella sua esuberanza e asimmetria, come fa un albero bonsai. Allo stesso modo sono due le immagini predominanti della biblioteca: da un lato quella ordinata e simmetrica, dove tutto è virtualmente raggiungibile dai lettori, e dall’altro quella caotica e polverosa, il labirinto, che nei suoi recessi oscuri può nascondere libri mostruosi. “La Biblioteca di Babele” sintetizza entrambi gli immaginari in uno solo. L’ordine può risultare esasperante. La geometria infinita, anziché tranquillizzarci, ci dà un senso di vertigine suicida.
«Credo di aver menzionato i suicidi, ogni anno più frequenti» leggiamo alla fine del racconto. Čechov disse, spiegando il suo modo di intendere il teatro, che se nella prima scena di un’opera compariva un fucile appeso alla parete, lo sparo sarebbe arrivato nell’ultimo atto. Nella versione borgesiana di questo meccanismo, ciò che compare all’inizio del racconto sono le basse ringhiere che invitano sottilmente al salto (in un mondo dove non esistono le bare, i morti vengono lanciati nel vuoto, cadono eternamente, senza altro feretro che la capsula mobile di aria o lutto). A partire da quelle ringhiere si susseguono le ragioni per la depressione e l’angoscia nella Biblioteca conosciuta anche come l’Universo, la cui storia è nichilista e porta all’estinzione. La filosofia, disse l’ironico Borges, può essere letta come una branca della letteratura fantastica. Da questa prospettiva, la teologia potrebbe essere un sottogenere del terrore. “La Biblioteca di Babele”, lontanamente ispirata a quelle poche righe che la Bibbia dedica alla rovinosa caduta della Torre, che suppone la nascita di tutte le nostre lingue, è un racconto del terrore: simula la creazione di un paradiso, ma in realtà parla dell’eterna esistenza dell’inferno.