LIBRERIE DELL’USATO VERSUS LIBRERIE DI LIBRI NUOVI.
UNA CONVERSAZIONE CON LUIGI AMARA

J.C.: Non ho idea del perché con gli anni mi sia orientato verso le librerie di libri nuovi. Il fatto è che sono cresciuto in un quartiere periferico di una piccola città, dove non c’erano librerie. Edicole, cartolerie, una tabaccheria: ricordo quanto ero affascinato dalle nuove riviste di divulgazione scientifica, di videogiochi, dai nuovi fumetti della Marvel. A un certo punto cominciai a frequentare la grande libreria della città, nel centro urbano, e una libreria dell’usato, più vicina a casa mia, in una zona che chiamavano “città giardino”. Dunque, i libri nuovi (Robafaves, si chiamava quella libreria, che ha chiuso) stavano in una via commerciale, sul percorso verso l’unica biblioteca pubblica che c’era in città (a Mataró) a quei tempi, mentre la libreria dell’usato (Roges Llibres, che adesso vende solo online, però ha rapporti con la ONG venuta a casa mia a prendere i mille libri dei quali mi sono dovuto disfare quando è nato mio figlio) si trovava in una via residenziale, più o meno appartata. Adesso vedo questi due poli come piatti di una bilancia. Non ho idea, ripeto, del perché propendessi per Robafaves. Forse per le novità, le presentazioni di libri, o forse semplicemente perché lì c’erano i libri che mi interessavano di più nell’adolescenza: quelli sui giochi di ruolo.

 

L.A.: Anche se mi attira qualsiasi tipo di libreria, confesso di avere un debole per quelle dell’usato. Lì palpita, come forse in nessun’altra, l’imminenza del ritrovamento. È vero che in una libreria di libri nuovi uno non deve necessariamente sapere cosa cerca e quindi, proprio per questo, si percorrono sale e corridoi con l’aspettativa di un appuntamento alla cieca mai concordato, ma bisogna quasi sempre farlo controcorrente rispetto alle mareggiate del fai da te e zigzagando tra le pile sempre più imponenti dei best seller. Come diceva Virginia Woolf, non appena oltrepassiamo la soglia di una libreria dell’usato ci pervade una sensazione di avventura: a differenza di quelli più o meno addomesticati delle biblioteche e di quelli obbedienti e leccati che ci offre il marketing delle grandi catene, i libri usati sono piuttosto selvatici e non hanno dimora: sebbene accumulino polvere magari da decenni in un angolo, sembra che siano di passaggio, che il loro posto sullo scaffale sia solo uno scalo nel lungo peregrinare dettato dal caso. È forse ciò che più mi piace di questa categoria di librerie, la possibilità un po’ elettrizzante dell’incontro a sorpresa, dell’improvvisata: il fatto che alla fine di una linea discontinua e capricciosa che dipende dai precedenti proprietari e dai remainder, da entusiasmi e delusioni, il libro che ci aspettava e neanche sapevamo che esistesse, finisca a un tratto fra le nostre mani.

 

J.C.: Non so se l’autore della storia della parrucca5 possa utilizzare l’espressione “ben pettinati”… In qualche modo, penso ora, abbiamo entrambi lavorato alla stessa idea: quella della genealogia di un oggetto o di un luogo, la parrucca e la libreria. La biblioteca sta alla libreria, nell’immaginario collettivo, come il capello naturale sta a quello posticcio o artificiale. D’altro canto, non so in quali librerie di libri nuovi vai tu, ma in quelle che frequento io non ci sono libri di auto-aiuto. È tale la quantità di novità, tra quelle odierne e quelle degli ultimi trent’anni, che anche in queste c’è sempre l’avventura e l’incontro (come nel viaggio, l’incontro è il nodo dell’esperienza). Ricordo, per esempio, quella volta che vidi su uno scaffale della Central del Raval la prima edizione di Vudú urbano, di Edgardo Cozarinsky, edito da Anagrama con prefazione di Susan Sontag e Guillermo Cabrera Infante. Lo avevo letto nell’edizione argentina (lo comprai alla Ateneo di Rosario), non immaginavo che la prima edizione spagnola non fosse esaurita…

 

L.A.: Forse in Messico la situazione è più accentuata – ecco il perché del mio tono un po’ disincantato – ma credo che stiamo assistendo ovunque alla trasformazione di librerie un tempo emblematiche in supermercati di libri, in grandi magazzini in cui il profilo del libro come mercanzia domina e a volte invade l’orizzonte, dove la velocità di vendita è il valore fondamentale e i libri di auto-aiuto e i coffee table books più prevedibili hanno relegato certi generi (tra cui il saggio e la poesia) in un miserevole angolo in perenne caduta. Ricordo, per esempio, quando la libreria Gandhi era una scuola informale per librai nella zona sud di Città del Messico. Quanto si poteva conversare e imparare da loro! Poco tempo fa ci sono entrato per cercare l’edizione di Alianza di Vite e dottrine dei filosofi illustri, di Diogene Laerzio, e il commesso non solo non riusciva a trovare il libro da nessuna parte, ma mi ha addirittura chiesto quale fosse il cognome dell’autore per cercarlo nel database… Si può ancora chiamare “libreria” un luogo in cui si pretende che il computer sostituisca la sapienza? Se oggi – e mi riferisco in particolare a Città del Messico – vuoi avvicinare uno di loro, un libraio come quelli di una volta, quelli che sanno situare un titolo in un’orbita più vasta, ricca di collegamenti e riferimenti, devi varcare la soglia di una libreria dell’usato: far visita a Enrique Fuentes nella Librería Madero, o Agustín Jiménez a La Torre de Lulio, o Max Rosas a El burro culto. Ovviamente quelle di libri nuovi possono offrire una certa sensazione di avventura, ma temo che ormai abbiano espulso i loro vecchi lupi di mare.

 

J.C.: Invece, in altri ambiti, le grandi superfici retrocedono. Penso agli Stati Uniti, alla débâcle di Barnes & Noble, alla chiusura di Borders; o in Spagna, dove la crisi, presumo, ha ridato vita alla piccola impresa e messo in scacco quella di grandi dimensioni. D’altra parte, in calle Donceles a Città del Messico mi sono sentito perso: non c’erano cataloghi informatizzati né librai che sapessero cosa stessero vendendo. Ho provato una sorta di vertigine davanti a tutti quei libri che potevano arrivare a interessarmi, sepolti in una massa informe, anonima, decrepita. Preferisco l’ordine e il computer al caos, alla polvere e a quella sensazione di impotenza.

 

L.A.: I supermercati di libri crescono da una parte e deperiscono dall’altra, mentre le librerie di quartiere prosperano e si estinguono come funghi; Amazon domina l’orizzonte come l’occhio senza palpebra di un dio insensibile, e le librerie dell’usato assistono attonite a un’euforia feticista in piena èra digitale… Sembrerebbe stupido sottolinearlo davanti all’autore di Librerie, un libro che è anche una forma contagiosa di viaggio, ma in un panorama così variopinto e mutevole, forse dipende tutto da cosa cerchiamo in esse, dalle aspettative che ci spingono a visitare una libreria in particolare. (Questo sì, quando il parametro è semplicemente “grandi superfici”, preferisco molto di più la massa informe, caotica e decrepita di Strand alla struttura asettica, impersonale e filistea della Fnac). La difesa del disordine e della polvere in una libreria – te lo dice un maniaco nonché allergico – si può sostenere solo per le eventuali ricompense o, per essere più modesti, per la prospettiva della scoperta. In “Per collezionisti poveri”, Walter Benjamin evita l’esercizio di millanteria di elencare le sue qualità di cercatore o i suoi colpi di fortuna, dato che difficilmente si potrebbero desumere da ciò direttive o consigli utili per il bibliomane. Ma visto che al momento non sono mosso da alcuna mira didattica, racconterò, spero senza troppa enfasi, il modo in cui mi sono procurato uno dei miei più preziosi tesori librari. Quando ormai la frenesia cominciava a trasformarsi in impotenza, in una libreria dell’usato nel centro storico di Città del Messico, un negozio che vendeva sia libri che dolciumi, scalcinato e lugubre, dove ero entrato per l’inusuale proposta che offriva (perché di questo si trattava: di una proposta, e non, come appariva a prima vista, di un luogo che tirava avanti per disperazione), e mentre acquistavo per venti pesos – perché il commesso mi aveva sfinito con la sua teoria sulla complementarietà tra dolciumi e letture – Un avamposto del progresso di Conrad, li vidi: due volumi color crema piuttosto vecchi ma in perfette condizioni che mi gridavano, come succedeva ad Alice, “prendici”. Costavano settanta pesos ciascuno, e io ne avevo in tasca solo centoventi, ma il libraio acconsentì a darmeli per quella cifra, Conrad compreso. Una volta arrivato a casa trovai la conferma su Internet di ciò che era solo un presentimento e che cominciava già a degenerare in tachicardia: erano le prime edizioni di Aspettando Godot e Finale di partita di Samuel Beckett (Les Éditions de Minuit, rispettivamente 1952 e 1957), tesori quotati – soprattutto il primo – migliaia di dollari, che chissà come diavolo erano finiti in quell’assurda libreria dell’usato con reparto dolciumi nel centro di Città del Messico, e messi in vendita per quattro soldi… L’incorruttibile catena del caso li aveva dunque destinati a esaltare, mezzo secolo dopo, i pregi insperati della polvere e del disordine?

 

J.C.: Ciò che è successo a te è ormai quasi impossibile che accada. I cacciatori di libri e delle prime edizioni fino a qualche tempo fa ancora si affannavano (credo sia la parola giusta) nelle librerie dell’usato in cerca di prime edizioni di un certo valore. Ormai si sono arresi, perché i librai sanno bene cosa possiedono, perché quasi tutto è ben catalogato e stimato su Internet. Tuttavia, rimane qualche spazio. Non solo quella libreria pasticceria che mi dici. Penso all’Avana, dove c’è ancora gente che mette in vendita la libreria di famiglia senza sapere bene cosa contenga. E non solo all’Avana, perché un po’ ovunque ci sono famiglie ignare del patrimonio accumulato dal bisnonno. L’anno scorso sono andato al Mercado de los Encantes a Barcellona, poco prima che venisse chiuso e trasferito altrove, e ho visto alle sei del mattino mezza dozzina di “caccialibri” sguinzagliarsi tra i banchi di cianfrusaglie a frugare fra tre o quattrocento volumi per vedere se vi fosse qualcosa di un certo valore. Su questo ti do ragione: è un mondo in estinzione. Ma forse proprio per questo mi interessa di più il mondo delle librerie di libri nuovi: perché credo che sia carico di futuro.

 

L.A.: Un mondo in estinzione serve anche come rifugio, come punto di riferimento, e a volte è necessario ripararsi dal diluvio sconcertante di novità a getto continuo – ognuna annunciata come una “festa del linguaggio”, come quello-che-nessuno-deve-perdersi – per andare in cerca di qualche vecchio volume. In qualche modo anche quei libri impolverati, tarlati, sono a loro volta carichi di futuro. Di fatto la divisione non è poi così netta (nelle librerie dell’usato, soprattutto in quelle meno selezionate, di solito si ammucchiano le strepitose novità che nessuno avrebbe dovuto perdersi e a quanto pare tutti le hanno ignorate, così come in quelle di libri nuovi ci sono i Luciano o i Chesterton di sempre), ma quei libri ingialliti e fragili, che sono sopravvissuti al naufragio, incarnano anche un’idea di libro, della sua materialità e iter tipografico, che vale come un doppio rifugio di fronte alla dilagante miseria editoriale imperante, come contrappunto o percorso al margine che permette di vedere l’oscurità del presente e puntare allora in altre direzioni. Del resto, se dai libri passiamo a prendere in considerazione le librerie in sé, il piacere di visitarle come spazi rituali (tu stesso pratichi e rivendichi il pellegrinaggio in questi luoghi impregnati di cultura e storia), credo che vi sia un modo per difendere le librerie dell’usato non solo per ciò che vendono, ma proprio come enclave, come “tipografie erotiche” (adesso ti sto citando), come simboli abitabili delle città che, al pari degli antichi cimiteri o dei siti archeologici, ci permettono alla lunga di trovare il nostro posto nel mondo.

 

J.C.: Penso spesso che le librerie siano state per me quello che le chiese furono in un certo periodo per mia madre: sia il rifugio più vicino per le inquietudini dell’animo, per così dire, sia un luogo da visitare quando si fa del turismo. Di fatto, a un certo punto dei miei viaggi mi sono stancato di chiese e cattedrali, persino di templi, ma non mi sono mai stancato di visitare librerie. Sono luoghi con un’aura, sebbene l’aura – ovviamente – stia nel tuo sguardo. Luoghi, anche, tranquillizzanti, dove l’ordine infonde calma. Luoghi, certo, interminabili, come lo sono effettivamente tutte le biblioteche di oltre mille volumi. Quando vivevo a Chicago, per via della solitudine e della neve, trascorrevo molto tempo nella biblioteca dell’università e nella libreria Seminary Co-op. In entrambe, forse per la prima volta in vita mia, ero radicalmente sistematico. Intendo dire che sono arrivato a guardare uno per uno tutti i libri delle sezioni di narrativa di viaggio o di storia del viaggio e del turismo, o tutti gli scritti di Saul Bellow o J. M. Coetzee, che erano stati docenti in quella università, o di Juan Goytisolo e W. G. Sebald, sempre accompagnati da una cospicua bibliografia secondaria. Voglio dire che ho letto molto e ne ho comprati alcuni, che ho preso appunti non su decine, ma centinaia di quei libri. Questa estrema possibilità di consumo del tuo tempo ce l’hai sempre, potenzialmente, in qualsiasi biblioteca e libreria. Non lo fai quasi mai, però è lì, a disposizione. In qualche modo la forza di quegli spazi, il loro enorme potere, dipendono da tale possibilità, quella di esaurire la conoscenza su un argomento, di esplorare qualcosa così a fondo che potresti quasi farlo tuo.

 

L.A.: Condivido questa idea della libreria come rifugio e anche come pretesto per lunghe permanenze, a volte strampalate. Sebbene ami di solito percorrerle – un po’ come le rovine o le chiese – in silenzio, in quelle dell’usato ho goduto anche di inaspettate conversazioni con sconosciuti, il che le ha rese in un certo senso più memorabili. Ricordo che tanti anni fa avevo preso a rastrellare come un vero e proprio cercatore di tesori i libri di Léon Bloy e J-K. Huysmans; dopo che un tizio mi sentì dire che cercavo “qualsiasi cosa” di Villiers de L’Isle-Adam, e me li propose con il tono di chi appartiene a una setta, sicuramente sarei arrivato comunque a trovarli seguendo il filo di associazioni e vicinanze che solitamente avvolgono i libri, ma non so se allora avrebbero significato tanto per me. Nelle librerie di libri nuovi mi è successo qualcosa di simile soltanto a Buenos Aires, dove ho sentito che di fatto si praticava il curiosare librario e persino la discussione letteraria di corridoio. Una volta, una signora che in maniera alquanto indiscreta aveva notato che seguivo le tracce di Gombrowicz in Argentina, si avvicinò per darmi consigli (che dico? per impartire una lezione cattedratica!) e già che c’era per invitarmi alla proiezione di un documentario sul medesimo autore che ci sarebbe stata la sera stessa in un posto non distante da quella libreria, grazie alla quale le tracce dello scrittore polacco mi portarono su orizzonti di cui non avevo notizia alcuna e per di più fu una serata indimenticabile.

 

J.C.: Questa conversazione mi ha costretto a ricordare le mie origini come lettore. E sono origini molto legate ai libri nuovi. I miei genitori me li compravano soprattutto da Pryca, ora Carrefour, un grande supermercato. È da lì, credo, che provengano tutte le mie copie degli Hollisters e di Alfred Hitchcock e i tre investigatori. Ricordo che, mentre i miei giravano per le corsie e riempivano il carrello con la spesa settimanale, giocavo con mio fratello nella zona delle palline (c’era un gigantesco cono pieno di palline di plastica: il gioco consisteva nel prenderle nella parte inferiore e lanciarle, quattro o cinque metri verso l’alto, per metterle nella parte larga del cono; era una sorta di clessidra gigante in cui i granelli di sabbia erano palline di plastica dai colori sgargianti con sopra stampate le effigi dei calciatori del Barça o i protagonisti di Dragon Ball) o guardavo i libri nella zona libreria (in un angolo c’erano anche i poster incorniciati, per la maggior parte di automobili, ma ce n’erano sempre due o tre di Sabrina o di Pamela Anderson con indosso costumi da bagno minuscoli). Più avanti, quando mio padre andò a lavorare al Circolo dei Lettori nel tempo libero, cominciarono ad arrivare altri libri a casa, anche nuovi, per esempio quelli di Agatha Christie. Ogni tanto mio padre tornava con dei libri usati, che aveva trovato durante i suoi costanti andirivieni da dipendente di Telefónica in un paese vicino, ma non mi sarei mai innamorato di quei libri, non ricordo un solo titolo, forse mi suscitava una certa ritrosia il fatto che erano stati letti, e goduti, da altri bambini, come se fossero giocattoli di seconda o terza mano. Le mie origini umili (classe medio bassa, come dicevano i miei), pertanto, mi avrebbero legato ai libri nuovi. Ma, pensandoci bene, forse le librerie di libri nuovi sono più democratiche di quelle dell’usato o di libri antichi. Per cominciare, il prezzo è fisso, non si può trattare, tutti i clienti sono uguali (anche quelli che, come me, non sono stati avviati dai genitori all’arte della bibliomania); mentre nelle librerie dell’usato, sebbene la maggior parte dei libri costino meno, non solo si può trattare sul prezzo, ma ci sono anche gioielli bibliografici, libri di valore molto più alto. Per continuare, non mi è mai piaciuto che un libro mio sia firmato da altre persone, dedicato a qualcun altro, per non parlare poi se le pagine sono sottolineate da chissà chi. Stamattina notavo, mentre leggevo Fouché, di Stefan Zweig, il suono della matita che graffia la pagina (leggo sempre con una matita in mano, di solito una di Ikea, per me andare all’Ikea equivale a rubare matite per la lettura, che spesso rimangono lì a fare da segnalibro: a volte, anni dopo, prendo un libro da uno scaffale e mi accorgo che dentro c’è una matita, a ricordarmi dove avevo interrotto la lettura), e pensavo che uno dei motivi per cui continuo a non leggere sull’iPad è proprio questo, perché nei gesti, nelle sottolineature, nel tatto, nella consistenza, c’è una serie di stimoli per la memoria che non esistono nel digitale (o che con me non funzionano: io leggo per ricordare e per pensare, non per evadere, ho bisogno di questa memoria della lettura).

 

L.A.: Nel mio caso, tutti questi aspetti “fisici” che riguardano la lettura, e che la fanno, se ciò ha qualche significato, “più reale”, contribuiscono al gusto per le librerie dell’usato. Confesso che buona parte di questa passione proviene dall’attrazione forse un po’ morbosa per l’idea che lì si vendono libri altrui, cioè, che sono appartenuti ad altri; questa sensazione di aspettativa o magari di sdoppiamento nel fare proprio il libro di qualcun altro, un libro che a giudicare dallo stato malridotto della rilegatura e dalle pagine bisunte dev’essere stato molto amato e sfogliato, e anche, per motivi intriganti che vorrei tanto conoscere, qualcuno ha dovuto sbarazzarsene per poi non saperne più niente, forse sorpreso dalla morte. Il libro usato, il libro non solo dall’aspetto consunto e le pagine ingiallite, bensì quello che effettivamente è stato letto da altri, poco importa se con fatica o piacere, è in realtà due libri: oltre alla storia stampata sopra, che si dà per scontata, racconta la storia involontaria che il lettore gli ha aggiunto mentre sfogliava le sue pagine; una storia intima che è possibile intravedere attraverso la serie di impronte che il libro stesso custodisce come un testo cifrato. L’angolo ripiegato di una certa pagina, la dedica pomposa o francamente ridicola, le sottolineature a matita, le gocce di sangue o di sudore o vai a sapere di cosa, i moscerini o altri insetti imbalsamati tra le pagine, le macchie quasi sempre circolari di caffè o Coca-Cola, i segnalibri, le pagine strappate, i residui di tabacco, i paragrafi cancellati furiosamente – come se contenessero qualcosa di così grave da censurare – i commenti a margine… Tutto (tutto quello che non sarebbe sopportabile su un libro di una biblioteca) acquisisce la qualità di un indizio, ogni traccia è un cenno critico, un commento elementare o mordace; qua e là si ravvisano segni di astio o di dolore o di stupore, a partire dai quali si può ricostruire l’esperienza del lettore che ci ha preceduti, e a quel punto, godersi e a volte comprendere doppiamente il libro, allo stesso modo in cui sul palco laterale di un teatro proviamo la tentazione di praticare quell’esercizio di strabismo che consiste nel seguire con un occhio l’opera, e contemporaneamente, con l’altro, non perdiamo i dettagli delle reazioni del pubblico.

 

J.C.: Mi affascina questa idea del lettore di libri usati come di un ficcanaso, di una spia, un voyeur. Ma è proprio ciò che non mi piace dei libri usati: che abbiano una seconda vita e che non sia la mia. Un libro, in qualche modo, rappresenta la finzione di poter accedere a un mondo, a una vita, a uno sguardo, direttamente, aprendolo (un libro si apre come una porta). Anche se in realtà c’è un’infinità di muri e frontiere tra te (il lettore) e la narrazione (e lo scrittore), mi interessa l’illusione che vi sia un accesso più o meno diretto. Il fatto che il libro sia stato maneggiato, sottolineato, pone delle barriere alla mia lettura. Ma confesso che nei mercatini, nei mercati delle pulci, mi piace cercare libri che siano stati sottolineati: libri con note a margine, con dediche, con dentro cartoline o fotografie lasciate tra le pagine. Mi interessano molto quei libri che sono come cofanetti di ricordi, musei in miniatura. Mi interessano anche i criteri di annotazione. Tu come fai le tue annotazioni, Luigi? Io uso un sistema che deriva dagli anni da scacchista dilettante: sui margini, a commento della sottolineatura, o metto un punto interrogativo quando non sono d’accordo con ciò che dice l’autore o se lo stile mi sembra troppo rozzo, qualsiasi opinione negativa, diciamo, e un punto esclamativo quando un’idea mi ha sorpreso o mi è piaciuta, o quando lo stile mi è parso degno di nota o per qualche ragione mi ha colpito. Se vi sono tre o quattro punti esclamativi, allora quel brano è stupefacente. Non sarebbe male fare un giorno una sorta di antologia personale con quei brani accumulati in vent’anni di letture. Un paio di anni fa sono stato nell’archivio di Sebald a Marbach e ho scoperto, allucinato, che anche lui metteva punti interrogativi ed esclamativi ai margini dei libri letti. Quest’anno mi è successo lo stesso nella biblioteca personale di Cortázar presso la Fondazione March a Madrid. Dev’essere più comune di quanto io credessi e quindi non deriva soltanto dagli appunti e commenti sulle partite a scacchi…

 

L.A.: E usi il segno dello scacco matto per i paragrafi lapidari? Il mio modo di sottolineare si è andato semplificando nel corso degli anni fino a ridursi a una serie di figure geometriche: rettangoli per i paragrafi che lasciano domande in sospeso, triangoli con il vertice verso l’esterno per quelli apprezzabili e verso l’interno per quelli opinabili, cerchi per quello che considero cruciale e qualche asterisco quando mi pare davvero cosmico, per le frasi o le pagine fuori da questo mondo. Nel rileggere quei paragrafi sottolineo anche in maniera convenzionale: una riga a matita sotto le parole. E come succede a te, mi affascina osservare quel guazzabuglio di critiche nei libri altrui, quell’autentico sismografo della lettura come esperienza addirittura tellurica; tutto ciò che, in onore a Poe, si potrebbe riassumere con il termine “marginalia” (e che a suo modo si è trasferito anche su Internet, che siano blog, commenti al volo o sottolineature collettive, come succede su Kindle). Ovviamente, se è possibile, mi piace frugare nei libri pieni di note di autori che mi interessano, ma anche in quelli di perfetti sconosciuti. Ricordo che Charles Lamb ne parla in un saggio, dei libri che gli vengono restituiti “arricchiti” da parte di amici scrittori che lasciano tracce, segni delle loro letture. Però questa abitudine di prendere nota sui libri ha anche il suo lato problematico. A casa in certe occasioni abbiamo dovuto comprare due copie dello stesso titolo perché io lo avevo già sottolineato e mia moglie voleva leggere il libro, ma non attraverso le enfatiche elucubrazioni della mia testa…

 

J.C.: Com’è la tua biblioteca personale? Io ho un rapporto molto contraddittorio con la mia. Benché il mio legame emotivo con lei sia molto forte, il fatto è che soltanto due volte in tutta la mia vita sono stato capace di controllarla: le due volte che ho traslocato da adulto ho saputo quali libri avevo e dove stavano. Questa mancanza di controllo, questa impossibilità di conoscerla totalmente, mi inquieta e mi frustra. Intuisco che tutti noi scrittori pensiamo costantemente che non dovremmo scrivere tanto, che dovremmo leggere di più (o viceversa). Io, inoltre, penso spesso che dovrei dedicare più tempo a riordinare e apprezzare i miei libri. Invidio il meccanismo di una buona libreria, dove vari librai si dedicano costantemente a mantenere una classificazione efficiente dei libri presenti. La mia, così prossima alla mia biografia e ai miei affetti, ha più polvere e meno ordine di quanto vorrei. Ti chiedo perché i libri provengano da acquisti in librerie. È necessario pensare ai cordoni ombelicali che legano alcune decine di migliaia di librerie ad alcuni milioni di biblioteche personali. Nella tua apprezzi anche il disordine che ami trovare nelle librerie dell’usato? O ti succede il contrario?

L.A.: Ammetto un certo livello di caos nella mia biblioteca, ma tendo piuttosto a preservare l’ordine. Suddivido i testi per generi o discipline (filosofia qui, poesia là, eccetera) e sugli scaffali seguo un ordine cronologico o di nazionalità: i romanzi francesi sono tutti insieme, così come la saggistica inglese comincia con Bacon e Addison e Steele. Al pari di Georges Perec mi sarebbe piaciuto fissare un determinato numero di libri (diciamo seicentosessantasei) e non acquisirne uno nuovo senza disfarmi scrupolosamente di un altro. Ma con gli anni sono diventato un bibliomane – un bibliomane con pochi soldi, ma incorreggibile come tutti i collezionisti – e sebbene ogni tanto, per motivi di igiene mentale più che di spazio, a casa ci imponiamo una “dieta” di libri, la verità è che non passa più di un mese senza che ricada nel vizio, e allora procediamo a inaugurare gli scaffali a doppia fila o facciamo costruire una nuova libreria. Per fortuna (o per disgrazia) gli appartamenti a Città del Messico sono solitamente ampi e consentono questo genere di mania cumulativa. Ma la tua idea del cordone ombelicale che lega l’acquisto di un libro alla biblioteca dove figurerà, mi sembra illuminante e suggestivo: è in funzione di questo universo librario che ha senso procurarsi un nuovo volume, accettando la presenza di un nuovo pianeta nel sistema; in caso contrario, come accade con certi libri che si ricevono in regalo o abbiamo comprato in modo precipitoso, corre il rischio di essere soltanto una stella fugace nel firmamento della nostra biblioteca.

 

J.C.: Stavo riflettendo su quello che dicevamo riguardo la sorpresa. È curioso che noi appassionati della lettura, sia che siamo amanti delle librerie di libri nuovi o di quelle dell’usato (o di entrambe: o meglio ancora, degli ibridi, perché se il modello di libreria d’autore del XX e XXI secolo è quello che hanno configurato Beach e Monnier da Shakespeare and Company e La Maison des Amis des Livres, le mitiche librerie in rue de L’Odéon, l’idea platonica di questo spazio comprenderebbe anche la convivenza, addirittura, tra la libreria con libri in vendita e la biblioteca con libri in prestito), sappiamo che possiamo consultare i cataloghi online prima di andare in una libreria, per verificare se dispongono dell’esemplare che cerchiamo, o ordinarlo, ma gran parte del pubblico non lo sa. Questo significa che per il grosso della popolazione, per cui una libreria è uno spazio strano, non troppo accogliente, in effetti esiste la possibilità della sorpresa. Ma per noi, tutto ciò è mutato. Da un lato, abbiamo la sorpresa classica, che deriva dal girovagare, dal pensare con i piedi e lo sguardo che è tipico della libreria, quando troviamo qualcosa che non sapevamo esistesse (e che, pertanto, non potevamo cercare online), una volta che è scomparsa la sorpresa predigitale dell’affarone inaspettato, della prima edizione a prezzo stracciato. Dall’altro, abbiamo la nuova sorpresa, quella digitale, che si ottiene con quell’altro modo di pensare: quello di Google, delle dita (sulla tastiera, sul mouse) e dello sguardo, che a sua volta divaga o fa il surf sulla superficie dello schermo. Anche così possiamo trovare qualcosa di inaspettato. L’ideale è che poi andiamo a prenderlo di persona (ecco la distopia: droni di Amazon che ci entrano dalla finestra). Non so, mi chiedo se l’algoritmo, così complesso, non sia una nuova forma di predestinazione, del caso obiettivo. Se tutta la tradizione del surrealismo, riformulata da Cortázar, se tale retorica non sia metamorfizzata in Google Books o IberLibro.com.

 

L.A.: Vorrei credere che siamo più mutevoli e imprevedibili di ciò che possa calcolare una macchina, che i nostri gusti e interessi siano refrattari al più sofisticato degli algoritmi, ma ammetto che uno dei miei modi di avere sorprese è arrivato attraverso consigli di libri trovati su motori di ricerca… E malgrado le mie riserve, nonostante la mia ritrosia a diventare una facile preda della pubblicità personalizzata di Internet, ho fatto clic più volte e mantengo un rapporto epistolare più intenso con Amazon o con librerie indipendenti di altri paesi che con i miei fratelli… In tal senso, siamo molto fortunati: le occasioni di avere delle sorprese (e di incrementare la bibliofilia) si sono moltiplicate in maniera stupefacente. Perciò, più che un fondamentalista delle librerie dell’usato o un detrattore dei grandi monopoli del cyberspazio, mi considero un (grato) lettore promiscuo: leggo di tutto, dalle fotocopie alle prime edizioni tanto ambite, dagli archivi in formato PDF dai caratteri sfocati ai romanzi da aeroporto. In questa promiscuità o eclettismo, metto in evidenza, per tutto quello che ho detto fin qui, i libri di seconda mano, quei libri nei quali si percepisce l’ombra di una mano “altra”, di una tacita compagnia che mi ha anticipato e ha voltato le pagine prima che lo facessi io.

 

J.C.: Visto che tutto arriva sempre dopo (ma non sempre tardi), giusto oggi, di ritorno da Roma, sull’aereo, ho capito cosa volevo realmente dire, dirti, nella nostra conversazione sulle librerie dell’usato, del nuovo, eccetera. La risposta l’ho trovata nell’Epoca e i lupi, le crude memorie di Nadežda Mandel’štam. 1938. Arrestano Osip, suo marito, e la prima cosa che lei fa è impegnare i suoi libri, libri amatissimi, in una libreria dell’usato, per potergli inviare del denaro, qualche provvista, il minimo indispensabile. Come risposta, riceve un messaggio stringato, di poche parole: il poeta è morto. Tutto qui. Il gesto di lei e la risposta di quelli (la burocrazia, la Čeka, Stalin). Le librerie dell’usato sono questo. Sono la morte. Sono i lettori scomparsi, le eredità dilapidate, la povertà, le case che sono state svuotate e le biblioteche svendute a peso, il saccheggio. Nelle librerie dell’usato ci stanno, un volume accanto all’altro, tutte le storie tristi, tragiche, genocide, dittatoriali, degli ultimi due secoli. Anche la bohème d’accatto ha vincoli con le librerie dell’usato. La vita picaresca dei falliti. Vendi i tuoi libri per poter mangiare qualcosa. Compri libri di seconda, terza mano, perché non puoi comprarli nuovi. Lo so che non è sempre così, ma credo di averti già detto che non ricordo nessuna scoperta, nessuna lettura fondamentale, che provenga da una libreria dell’usato. A Roma, ieri, pensavo che ci sono due tipi di librerie antiquarie: quelle dei libri (e mappe, e incisioni) che non puoi permetterti di acquistare, un lusso, roba da collezionisti snob, e quelle dei libri che probabilmente non vorrei comprare, saldi, offerte all’ingrosso, impiego di grosse quantità di tempo per un’improbabile compensazione. Intuisco, da tutto ciò, che quando ero molto giovane, ho puntato su quelle di libri nuovi, che stanno a metà strada fra il lusso del bibliofilo e la povertà dei saldi. Sarebbero quindi più democratiche? Chissà che non puntassi anche sul nuovo, sul futuro, su un certo ottimismo, una vaga speranza, anziché sul vecchio, sul passato, sulla sopravvivenza, contro ogni speranza.

 

L.A.: Le librerie dell’usato, effettivamente, hanno qualcosa di mortuario. Non sono propriamente dei mausolei, perché le cose al loro interno si agitano e cambiano di mano e offrono persino qualche forma di felicità; però non sono così distanti, sia nei procedimenti che nell’atmosfera, dalla profanazione delle tombe: esibire e mettere in vendita la biblioteca (per non dire lo spirito e la mente) di qualcuno che non c’è più, comporta un certo risvolto sacrilego, e comunque, l’intera operazione sembra avvolta da un’ombra cupa. Ho saputo che in Messico, ma probabilmente da tante altre parti, esiste l’avvoltoio dei libri: un tipo lugubre che si veste sempre a lutto, il cui lavoro, dopo aver scorso gli annunci funebri, consiste nel presentarsi davanti ai parenti pronunciando la frase fatidica: «So che è un momento difficile, in cui si devono affrontare molte spese…». Ho fantasticato di intervistarlo; ma un certo pudore, per non dire orrore, mi ha tenuto lontano da quell’autentico avvoltoio che, tuttavia, saprei benissimo come contattare. Ma il fatto che la morte stia nei libri ammucchiati in quelle librerie, del resto quasi sempre tetre, che la rovina e la disgrazia impregnino le pagine e le compravendite che lì si realizzano, mi pare che abbia come prospettiva i sogni di immortalità che solitamente appartengono alle imprese letterarie; c’è qualcosa nella polvere che ricopre i dorsi, nelle parole scritte con stilografiche dall’inchiostro secco, che se la ride dell’idea di fama postuma; forse deriva da ciò la loro attrazione come contrappunto alla speranza, all’ottimismo che incarnano i libri nuovi con le loro pagine ancora di un bianco abbagliante. Il valore di una prima edizione, di una copia firmata, in fin dei conti si deve al fatto che accorcia le distanze con il suo autore; per quanto si possa considerare una pura e semplice mania feticistica, è anche il contrappeso mortale di un’astrazione ingannevole, di un nome che è diventato un’illusione utopica; quei libri hanno un certo prezzo perché sono sopravvissuti ma, soprattutto (credo), perché in essi si rivela la presenza incontestabile della morte là dove siamo soliti aspettarci la vita, l’intensità, il presente.

 

J.C.: Mi piace questa leggenda metropolitana, l’Avvoltoio dei Libri, che del resto è così plausibile. Me lo immagino sulla soglia della casa del defunto, assieme all’Avvoltoio dei Quadri, l’Avvoltoio delle Stoviglie, l’Avvoltoio dei Mobili Antichi. Lì c’è indubbiamente materia da romanzo: in quella rete di uomini condannati a vagare quotidianamente tra annunci funebri e domicili in lutto. Un romanzo molto messicano, per via del vostro particolare rapporto con la morte. In effetti, il cacciatore di libri antichi ha qualcosa dell’avvoltoio, nella sua condizione di collezionista. La caccia e il passeggio: potrebbero essere due attività distinte e opposte mentre si visita una città e le sue librerie. In tensione o rilassato. Concentrato sulla preda, il libro raro e di valore, oppure con un atteggiamento aperto alla strada, la piazza, i graffiti, le riviste, le novità e il fondo librario. Mi interessa questo rapporto tra il viaggio urbano e il viaggio all’estero. Preparo i miei viaggi per mesi o anni, oppure rivisitando la mia biblioteca e recuperando volumi che mi possano interessare (anche adesso, con l’intenzione di recarmi a Rio de Janeiro a marzo, ho trovato Lettera sulla scoperta del Brasile, di Vaz de Caminha, nell’edizione di Acantilado, che non sapevo di avere), o – soprattutto – cercando nelle librerie. A Barcellona abbiamo Altaïr, specializzata in viaggi, che classifica per paesi non solo le carte geografiche e le guide, ma anche i romanzi, le raccolte di racconti, i saggi e la poesia. Non mi metto mai in viaggio senza averla prima visitata. Sulla scrivania si accumulano, così, le letture che metterò in valigia. Eserciti, di Evelio Rosero, per esempio, ha aspettato lì almeno quattro mesi finché non sono partito per Bogotá. Ieri leggevo che Mandel’štam preparò il suo viaggio in Armenia nelle librerie dell’usato, dove trovò le cronache del passato che gli interessavano. Io lo faccio a La Central, alla Laie, alla Altaïr. Vagabondare per i mercatini dei libri mi interessa di più quando viaggio che non quando sono a casa. Insomma, non ho niente del cacciatore, sono solo un viandante.

 

L.A.: È vero, c’è qualcosa che aguzza la vista del viandante quando va in cerca della scoperta. Però, per quanto riguarda le librerie dell’usato, c’è un ampio margine per il vagare e basta, senza alcuna ansia di caccia, ed è questo che faccio in modo di praticare (anche se a volte, di fronte agli scaffali, mi vengono fuori occhi di lince e canini acuminati…). In quanto all’avvoltoio dei libri, è qualcosa di più di una leggenda metropolitana, e in effetti sembra materia da romanzo. Come puoi immaginare, in questo paese neanche aspettano che arrivi la morte; l’avvoltoio o, in questo caso, il falco o il predatore, di solito è in combutta con le agenzie di traslochi, e nel lasso di tempo che dura il viaggio verso la nuova casa, dentro il camion del trasporto, sottrae senza scrupoli quei dieci o venti libri di un certo valore della biblioteca in transito. A quanto pare tiene perfettamente sotto controllo le abitazioni dove ci sono buone collezioni. I miei amici librai mi hanno invitato ad andare in un mercatino clandestino che si tiene prima dell’alba, dove ogni giorno si “lavano” questi bottini, frutto di sottrazioni e brama da avvoltoi. Insomma, uno di questi giorni dovrò andarci.

 

J.C.: Più ripenso alla nostra conversazione assurdamente polarizzata, più mi polarizzo. Adesso mi viene in mente se la libreria dell’usato non sia un vincolo, con la sua mistica da cripta, con il vecchio dio del Libro, e quella di libri nuovi una moderna manifestazione del nuovo dio del Capitalismo. Perché se la guardi con un certo distacco ironico, la nostra dipendenza dagli oggetti culturali, la nostra venerazione di certi romanzi, film o dischi, è chiaro che appare ridicola quanto il culto domenicale in chiesa agli occhi di un ateo. Arrivo a Città del Messico alle cinque del mattino di un giorno di marzo. Siamo rimasti d’accordo di andare in quel mercatino clandestino.

 

 

 

5 Luigi Amara, Historia descabellada de la peluca, Anagrama, Barcelona 2014.