DA LITTLE HAVANA A MIAMIZUELA
A New York lo spagnolo è una lingua usata in cucina, mentre a Miami è una lingua di potere» mi dice Pedro Medina mentre percorriamo sulla sua auto Biscayne Boulevard. Dopo aver letto Varsovia, un romanzo sporco, infarcito di puttane e poliziotti di Miami Beach, mi aspettavo un tipo rude e tatuato in sella a una Harley-Davidson: e invece è comparso un peruviano di quarantun anni che ha trascorso qui la maggior parte della sua vita adulta, occhiali da sole, polo nera, a bordo di una Volkswagen Jetta grigia. In questa città senza pedoni, è logico che l’intervista avvenga a cinquanta chilometri orari.
«Miami è un posto che cambia continuamente» afferma. Ecco perché non è strano quello che è successo con Miami Vice negli anni Ottanta. La serie di Michael Mann ha inventato, con il suo vestiario, gli effetti visivi e la colonna sonora new wave e techno, una metropoli che non esisteva: «Però con il tempo la realtà ha finito per assomigliare a quella della serie».
Il capo di Sonny Crockett e Rico Tubbs era il tenente Martin Castillo, di origini cubane. Vent’anni dopo è arrivata un’altra serie, Dexter, e la capa del commissariato ha cambiato genere ma non le origini: anche María LaGuerta proveniva dall’isola. Sebbene l’attuale sindaco di Miami, Francis X. Suarez, sia figlio dell’ex sindaco Xavier Suarez, nato a Cuba, la mappa del potere sta cambiando, al pari di quella del giornalismo e della letteratura.
Quando Medina è arrivato qui da Lima all’inizio di questo secolo, la città era soprattutto anglosassone e cubana: «Cito sempre il caso di un romanzo di quei tempi, Nieve sobre Miami, di Juan Carlos Castillón, perché allora il genere noir era nelle mani di scrittori anglo, e con questo libro uno scrittore di Barcellona ma che ha vissuto tanti anni negli Stati Uniti comincia a narrare Miami nella nostra lingua».
Questo è ciò che si sono riproposti negli ultimi dieci anni gli autori del gruppo Suburbano: promuovere la cronaca, la fiction e la critica in lingua spagnola, attraverso il loro portale di giornalismo digitale e con la pubblicazione di libri. Libri come Viaje. One way. Antología de narradores de Miami, che hanno curato Medina e Hernán Vera (originario di Buenos Aires, l’altro animatore del progetto) ed è diventato un libro di riferimento per comprendere la trasformazione letteraria di questa città che affonda lentamente. Attorno alla piattaforma e al laboratorio letterario di Vera, che può contare sull’appoggio di venti scrittori che si riuniscono regolarmente, si è sviluppata una scena letteraria latinoamericana con autori come la peruviana Rossana Montoya Calvo, gli argentini Gabriel Goldberg e Gastón Virkel o il venezuelano Camilo Pino. E anche se la giovane Legna Rodríguez Iglesias o i veterani José Abreu Felippe e Antonio Orlando Rodríguez continuano a mantenere l’accento cubano, questo non è più predominante nei libri scritti qui, dove vivono anche Jaime Bayly, Andrés Oppenheimer o César Miguel Rondón.
Queste autostrade urbane, questi quartieri che sembrano isole, questi contrasti tra l’eccessiva opulenza e l’annichilente miseria, questo caldo torrido con un forte odore di tropico, questo sprofondamento e tutti gli uragani vengono narrati in ogni accento dei nostri idiomi.
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«Io parlo inglese perfettamente» dice in perfetto spagnolo una ragazza mulatta a un signore in camicia guayabera. Non sta parlando in inglese nessuna delle quarantatré persone che ci sono in questo momento nel Versailles Bakery, il ristorante cubano più famoso del mondo, a quanto assicura l’insegna – e magari è anche vero. Ordinano e degustano crocchette, empanadas gallegas, tortillas ai peperoni, sandwich cubano, cheesecake, torta tres leches o torta di mele o alle noci, che accompagnano con succhi di frutta o caffellatte.
Dalla sua apertura nel 1971, il Versailles è stato un importante luogo di riunione dei fuoriusciti cubani. Qui è stata festeggiata con musica e rum e tanta euforia la morte di Fidel Castro il 25 novembre 2016. Il pavimento è un alveare verde e bianco di esagoni ormai consunti. I cubani ricchi non vivono più qui, però ci vengono a riunirsi con gli amici o a comprare la merenda ai figli. A Little Havana conversano a bassa voce da decenni gli agenti della CIA e i leader dei fuoriusciti, per cospirare e tramare attentati. È probabile che diversi di quegli incontri siano avvenuti proprio a questi tavoli.
«Adesso, in questo preciso istante, le stesse riunioni si stanno tenendo a Doral, una zona di Miami conosciuta anche come Doralzuela, per far fuori Maduro» mi dice Medina togliendosi gli occhiali da sole, seduto a un tavolino della caffetteria. E sentenzia: «Entro dieci o quindici anni studieremo la Miami venezuelana come adesso studiamo quella cubana».
Ci salutiamo dopo aver passeggiato tra i negozi di sigari, i locali di salsa e mojito e il parco del Domino, dove i vecchi cubani giocano come se fossero automi o attrazioni del parco tematico dell’esilio. «Adesso mi tolgo i panni dello scrittore e mi metto il completo da ufficio» mi confessa Medina mentre ci stringiamo la mano, «lavoro in una banca venezuelana».
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Tra Little Havana e Miamizuela ci sono quaranta minuti di viaggio con Uber e quasi mezzo secolo di storia latinoamericana. Dal 1953 al 1999, dalla Rivoluzione dei “barbudos” all’inizio della presidenza del comandante Hugo Chávez. «Mio padre è figlio di cubani e nato a Cuba, aveva tre anni quando arrivò in Venezuela, sapeva bene cosa fosse un regime comunista, per cui nel primo anno del governo di Chávez disse che là non ci sarebbe rimasto e si trasferì negli Stati Uniti» mi racconta Verónica Ruiz del Vizo – trentadue anni, sguardo scintillante, centoquindicimila follower su Instagram – «fa parte del primo gruppo di immigrati venezuelani, che arrivò all’inizio di questo secolo, con molto denaro, acquistò case in due zone diverse, a Weston e a Doral, fece investimenti, fondò imprese, ma non era un’immigrazione pubblicamente percepita».
Quella che invece si fa notare comincia nel 2014. Le proteste e la repressione e le crisi che si susseguono rendono l’aria irrespirabile in Venezuela: cominciano ad arrivare migliaia di studenti, professionisti, giornalisti, intellettuali, a ondate successive che arrivano fino ai nostri giorni. La maggior parte di loro si insedia a Doral. E comincia a organizzarsi come una vera e propria diaspora.
La direttrice di Mashup – l’agenzia di gestione di contenuti digitali che ha fondato quasi dieci anni fa, quando frequentava ancora l’università – oggi è una delle voci più note di questa seconda ondata di fuoriusciti da un paese latinoamericano venuti a Miami. Tra le iniziative in cui è coinvolta si distingue Dar Learning, un programma educativo in cui vari professionisti venezuelani di rilievo con più di dieci anni di esperienza in un’area tengono corsi gratuiti online per aiutare le persone nel loro processo migratorio.
«Ciò che differenzia la nostra letteratura da quella cubana» sostiene Vera, «è che per loro il pop e la tecnologia non sono mai stati importanti, invece per noi sono stati fondamentali». «Ciò che differenzia la nostra diaspora da quella cubana» secondo Ruiz del Vizo, «è che molti dei primi venezuelani arrivati qui avevano esperienza nel mondo aziendale e hanno trovato posti di rilievo come dirigenti, o hanno addirittura aperto succursali delle proprie imprese, e tutti noi giovani arrivati dopo avevamo una grossa esperienza nell’uso dei linguaggi contemporanei, come quelli delle reti social». Twitter, per esempio, è diventato da anni lo strumento utilizzato da migliaia di abitanti di Caracas e di altre città del paese per procurarsi penicillina o plasma.
Attraverso Facebook, Instagram, WhatsApp o Twitter, gli immigranti del mondo culturale hanno potuto collegarsi tra loro e organizzarsi a una velocità senza precedenti. Il Paseo de las Artes, che ha chiuso a Doral, per esempio, ha riaperto a Wynwood, con una grande offerta teatrale e cabarettistica. Le sale si riempiono ogni fine settimana. Nella sottocultura dell’esilio George Harris è diventato una stella della stand-up comedy, con le sue battute su Nicolás Maduro e Diosdado Cabello e persino sulla propria madre.
«Questo ha creato un’inaspettata alleanza tra immigrati venezuelani e colombiani, in teatri, gallerie d’arte, artigianato» commenta la creativa e influencer. Persino la focaccia arepa rappresenta un momento di incontro, con nuovi ristoranti che offrono nel menù tipi di arepa reinventati in chiave di cucina creativa, da parte di chef di entrambi i paesi. La contesa secolare su chi abbia inventato l’arepa ha trovato una tregua a Miami: vedremo se anche gli immigrati cileni e peruviani arriveranno a un accordo sulla proprietà intellettuale del pisco sour.
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Il locale più emblematico della comunità venezuelana di Doral da quindici anni a questa parte si trova in una stazione di servizio, perché prima degli smisurati investimenti degli ultimi arrivati questo sobborgo era zona industriale e discarica. Nel parcheggio di El Arepazo ci sono vari SUV e una statua di Simón Bolívar. All’ora di pranzo di un mercoledì di settembre tutti i tavoli sono occupati tranne tre che hanno il cartellino di “riservato”, con l’emblema del Barça da un lato e quello del Real Madrid dall’altro. Sotto i nove televisori al plasma la decorazione delle pareti comprende lo slogan del ristorante specializzato in arepa e involtini fritti tequeño (“Il Venezuela di ieri: come dimenticarlo”) e varie pagine di giornale (“Giorno della Liberazione. 18 ore di festeggiamenti frenetici a Caracas per la caduta del dittatore”). Non c’è dubbio che qui festeggeranno a gran voce la futura caduta di Maduro.
Nel Doral City Place, un complesso residenziale con appartamenti di tre vani per 3.620 dollari al mese, con ristoranti di formaggi francesi e gelaterie a pianterreno, a dieci minuti con Uber e dieci anni di storia della diaspora venezuelana, lasciando la sede di Univision sulla destra, c’è solo uno spazio culturale. Cinébistro offre un menù di piatti latini e una carta dei vini e una gamma di film hollywoodiani. Ceviche o churrasco con jalapeño e pineapple margarita prima di vedere, per esempio, Crazy & Rich.
«Perché a Doral non apre una succursale di Altamira?» chiedo a Carlos Souki, proprietario dell’unica libreria che vende esclusivamente libri in spagnolo a Miami, situata a Coral Gables. «Perché non ci interessa puntare solo sui lettori venezuelani, sebbene noi lo siamo, e qui, tra Books and Books e Barnes & Noble, è dove vengono i lettori nella nostra lingua di tutta la città, per questo ci interessava stare qui».
A Caracas gestivano negozi di dischi, perché negli anni Ottanta avevano scoperto che c’era un pubblico molto interessato alla musica in inglese che non riusciva a procurarsi ciò che desiderava: «E anche qui abbiamo scoperto che c’era un pubblico insoddisfatto, ma al contrario, cioè di letteratura in spagnolo, per questo importiamo libri da Spagna, Messico, Colombia e, da poco tempo, Argentina, affinché tutte queste persone abbiano accesso a ciò che interessa loro». Dopo aver partecipato alla fiera Liber a Madrid e stretto accordi con le case editrici più importanti, si sono resi conto che potevano competere con Amazon, che negli Stati Uniti sui libri in spagnolo non applica una politica dei prezzi aggressiva quanto quella che attua con le vendite in inglese, perché commercia attraverso terzi. «Insomma, Amazon è lo spauracchio» dice Souki sorridendo e indicando gli scaffali di legno illuminati da una luce verdognola, «ma noi siamo riusciti a far sì che l’ottanta percento dei nostri titoli abbia un prezzo inferiore rispetto a quello praticato dall’innominabile».
Il settanta percento della popolazione di Miami parla o capisce lo spagnolo. La locale Fiera del Libro organizza circa duecento eventi all’anno con autori ispanoamericani. Ma il mercato è molto condizionato dalla pressione sociale e culturale del mondo anglosassone. Altamira ha compiuto due anni di vita nella sua lotta per far sì che gli abitanti di Miami, abituati a cronometrare l’esistenza quotidiana e a comprare su Internet, si avvicinino al 219 di Miracle Mile per trascorrere il pomeriggio tra i libri.
«Perché tu ti renda conto di quelle che sono le abitudini, comprese quelle dei latini, ti racconto che il nostro miglior cliente ci chiama ogni tre lunedì per darci un elenco dei libri che vuole ricevere tre lunedì dopo, e ci manda un assegno; non lo conosciamo, abita a quattro isolati da qui, ma non lo abbiamo mai visto in faccia: un giorno gli abbiamo proposto di consegnarglieli di persona, ma ha detto che non vuole problemi, preferisce riceverli per posta».