VIAGGIO AL TERMINE
DELLA LUCE.
CAMMINANDO
PER LONDRA CON IAIN SINCLAIR
Le nostre ripetute passeggiate, i nostri circuiti e tentativi di orientarci – di arrivare al cuore del labirinto – risultarono frustranti. Non c’era un centro.
IAIN SINCLAIR
London: City of Disappearances
I. Casa
Iain Sinclair ha appena scoperto di avere una foto originale di William Burroughs. Ci troviamo nella cucina di casa sua in Albion Road, nel cuore di Hackney, il quartiere che conosce come il palmo della sua mano e come la pianta dei suoi piedi, l’osservatorio periferico da cui ha cartografato e interpretato sia la Londra rituale e magica dei poeti visionari e degli anni della peste3, sia quella meticcia e accelerata delle autostrade e delle linee della metropolitana e dei take-away. Seduto al tavolo di legno bianco, sembra un pensionato inglese con il suo giardino e lo scoiattolo fulvo sullo sfondo (proprio adesso salta e si arrampica e scompare). Ma ogni volta che si alza per andare a prendere un libro il corpo alto e asciutto mostra la vitalità di chi cammina sul serio, tutti i giorni dell’anno, anche quando piove, tuona, nevica o ci sia la minaccia di un attentato terroristico, in questa città post-olimpiadi le cui migliaia di gru puntano verso il cielo come se reclamassero, nervose e ballardiane, la caduta di un aereo. Torna per l’ennesima volta con un libro tra le mani. Lo apre. Ecco: ha trovato.
«La foto era in questo libro» me lo mostra, «me lo ha dedicato Brion Gysin, abbiamo lo stesso editore, e l’ho trovata perché quest’anno ricorre il suo centenario e mi hanno chiesto un cut-up a partire dal Times del giorno della sua nascita e quello del 19 gennaio di quest’anno». Vedendo la foto, Sinclair si è ricordato di aver venduto una valigia piena di foto originali di Burroughs, ai tempi in cui faceva il libraio. Una è rimasta intrappolata in questo libro e adesso è appena ricomparsa. Nella foto ci sono Burroughs e Gysin (lo scrittore, pittore e musicista dell’hinterland londinese che contribuì a convertire Tangeri in una città estrema oltre che esotica; l’inventore della Macchina dei Sogni, il ricercatore della poesia informatica, proprietario di un ristorante che fu soprattutto uno spazio psichedelico e relazionale). La composizione dell’immagine ricorda Las Meninas di Velázquez: in bianco e nero, un gioco di specchi e finestre fa sì che il fotografo e il fotografato si ripetano. Chissà se la fotografia – attraverso l’ambiguità insita in ogni sdoppiamento – non parli in realtà della paternità del cut-up, la tecnica letteraria probabilmente ideata da Gysin (che ricorda certi procedimenti avanguardisti senza essere cosciente di ciò che stava ricordando), e che Burroughs mise in pratica in alcuni dei romanzi più emblematici e dirompenti del XX secolo.
«Ho cominciato col vendere alcuni libri che avevo, sul marciapiede, a Camden, e di lì a poco ho creato un mercatino, due giorni alla settimana; la sede, per così dire, ce l’avevo qui, a casa» mi racconta. «Vendevo a bibliofili di tutto il mondo. La valigia di Burroughs, che conteneva un grande collage, con un mucchio di immagini concatenate, la vendetti a un americano». La casa in cui ci troviamo la comprò per quattro soldi quarant’anni fa. Adesso vale circa due milioni di sterline. «Probabilmente è stata la prima casa costruita in questa strada» racconta, «durante dei lavori di ristrutturazione abbiamo trovato strani resti, a quanto pare qui c’era una fornace di mattoni». È stata la sede della sua libreria e della sua casa editrice: conserva ancora in una stanza, stipata di attrezzi e scatoloni, i resti di quell’epoca. Li vedo prima di uscire dalla casa. È un archivio in attesa di essere rivelato. Una psicogeografia che era una rete di passeggiate e un giorno diventerà una mappa, non solo di Londra, ma anche di varie ramificazioni della controcultura internazionale.
II. Passeggiata
Sulla porta di casa mi dice che per lui ogni camminata è una storia e che non sa muoversi senza deviare dal percorso. Quindi subito dopo lasciamo Albion Road e prendiamo vie laterali, prive di glamour, con abitazioni popolari in cui sono stesi tappeti e teli con stampe di divinità indiane, corpi di elefante nella posizione del loto, fasce stinte dal tempo. Non smette di leggere sui muri, la toponomastica, la pubblicità. «Hanno estromesso i legittimi abitanti di questa zona, abbattuto le loro case proletarie, costruito questi blocchi di condomini che ignorano la propria origine omicida, senza radici nel territorio» dice. E mi fa notare gli annunci pubblicitari delle abitazioni in vendita: foto della vicina stazione ferroviaria, dei giardini interni con accesso privato, di tutto quello che li separa radicalmente dal quartiere, dal territorio. «Sono commercialmente attraenti perché ben isolate e ben collegate, perché ti consentono di uscire rapidamente da qui».
Non è in grado di camminare senza leggere, sia la superficie che il suo rovescio. Una volta ha percorso Hackney con un rabdomante per cercare il corso del fiume perduto, delle acque che William Blake ha descritto in Jerusalem. Le ha trovate. Il rametto del rabdomante aveva vibrato. L’energia continua a fluire, sotto il peso dell’esilio forzato. La si può avvertire: emana dai piedi di Iain Sinclair, risale le sue gambe, ti contagia come una risata isterica, come se un unico individuo possa mettere in scacco con i suoi spostamenti laterali il discorso ufficiale di un’intera città megalomane.
Nel film Smoke un personaggio scatta ogni giorno la stessa foto alla stessa ora allo stesso angolo di un incrocio a Brooklyn, registrando così la vita, il tempo, la morte dei suoi abitanti e dei passanti quotidiani. Sinclair esce a fare una camminata nel quartiere di London Fields ogni mattina, ripetendo al millimetro lo stesso percorso, prima di mettersi a lavorare: «Mi consente di mantenermi in forma, visto che ho già passato la settantina, addentrarmi nel tempo che fa quel tal giorno e notare i piccoli cambiamenti di questa parte della città». Per diversi anni ha incontrato lo stesso uomo con lo stesso cane sulla stessa panchina dello stesso parco. Poi un giorno, non c’era. Né quello seguente. Poco dopo, qualcuno ha posto una targa che continua a ricordarlo. La camminata del pomeriggio, invece, è sempre diversa. A volte finisce lontano e allora torna indietro in treno. Altre volte, si perde: «È impossibile conoscere davvero Londra, io ne conosco abbastanza bene alcune parti, ma l’insieme è… impossibile».
Il canale è incantevole alla luce del tramonto: le nuvole, così dense, pesanti, si riflettono sulle acque con la consistenza dello sciabordio. C’è un paio di barche ormeggiate. Costeggiamo il canale per qualche metro, ma per attraversarlo su New Road proseguiamo su una strada laterale: «Per decenni ho camminato lungo le sponde dei canali, ma adesso è diventato impossibile, perché devi continuamente schivare ciclisti e pattinatori». Come la maggior parte delle città del mondo, Londra ha idealizzato le ruote senza motore, con piste ciclabili e campagne per promuovere i veicoli non inquinanti, dimenticando il pedone. Ostinandosi a camminare, Sinclair ha sfidato tutte le logiche dei mezzi di trasporto: in Lights Out for the Territory ha creato nove percorsi a piedi nella capitale per andare alla scoperta dei suoi modelli nascosti; in London Orbital ha camminato lungo i margini della M25, arteria urbana verso il nulla, un circuito in loop impazzito, cercando le tracce dei paesini scomparsi e delle vite interrotte da questa scalextric di velocità e asfalto, e in London Overground ha percorso cinquantasei chilometri in un giorno lungo le varie fermate della linea arancione della metropolitana.
«Ho fatto tre viaggi per preparare la camminata di London Overground, che dura una sola giornata, e nella quale mi ha accompagnato il regista John Rogers» mi racconta mentre scendiamo le scale di Old Street Station, «ma poi abbiamo fatto il percorso al contrario, perché aveva avuto un incidente, un brutto incidente in moto, e voleva esorcizzare il trauma con una camminata notturna». E camminare di notte gli è sembrato un fenomeno totalmente diverso dal farlo di giorno: «Di giorno ti fermi in un caffè, entri in una libreria, compri un libro, ti siedi su una panchina, c’è sempre gente più o meno vicina; di notte, invece, tutto è tranquillo, a volte morto, è come navigare attraverso ciò che la città sogna».
Nei corridoi sotterranei della stazione, dopo un fioraio e una creperia, c’è Camden Lock Books, il cui proprietario era uno dei librai del Camden Passage dei bei tempi andati. Mentre Sinclair compra La Universidad Desconocida (L’università sconosciuta) di Roberto Bolaño, io sfoglio una breve monografia che ha scritto su Crash, il film di David Cronenberg basata su un libro di J. G. Ballard. Per Sinclair, Ballard e Michael Moorcock sono i grandi narratori della metropoli contemporanea. Mentre Martin Amis e i suoi epigoni narravano Londra dal punto di vista del realismo letterario con elementi modernisti, gli esponenti della controcultura come Ballard, Moorcock, Alan Moore o lo stesso Sinclair lo facevano mescolando follemente ogni sorta di stili e linguaggi. I progetti di Sinclair fanno quasi sempre dialogare la letteratura psicogeografica di origine visionaria con il docufilm. Ballard ricorre egualmente alla fantascienza e alla scienza forense. Moorcock è celebre soprattutto per le sue saghe fantasy, ma Londra è una presenza costante nella sua narrativa, come dimostra Mother London (in cui la città è raccontata da pazienti con disturbi mentali) o la serie di Cornelius (che nonostante si svolga in un multiverso, è spesso ambientata in quartieri come Notting Hill Gate o Ladbroke Grove). Moore ha rivoluzionato il fumetto dei supereroi, ha creato a puntate alcune delle prime graphic novel e ha portato alle estreme conseguenze narrative uno dei saggi seminali di Sinclair, “Nicholas Hawksmoor, le sue chiese”, esplorando la città rituale ai tempi di Jack lo Squartatore (in quel capolavoro, disegnato da Eddie Campbell, che è From Hell). Tutti loro hanno realizzato esposizioni e installazioni dove la letteratura, il cinema, la videoarte, il fumetto o la performance convivevano senza frontiere.
Siamo usciti dalla libreria carichi di libri. Percorrendo City Road abbiamo raggiunto la nostra destinazione: Bunhill Fields. Sinclair mi racconta che il cimitero ha cessato di essere un luogo raccolto, essendo diventato parte integrante di questo quartiere sempre più borghese. Le mamme ci passano con i loro figlioletti, e gli uomini d’affari con il cellulare all’orecchio, e le ragazze con i cani, e gli adolescenti con i monopattini. Ma non ci sono turisti. Non è inserito nei loro circuiti. Quasi che il turismo castigasse Daniel Defoe e William Blake come lo fecero i loro contemporanei, per la colpa di non appartenere alla religione ufficiale, esiliati: «Nessuno nota il monolite di Defoe, mentre ci sono sempre pellegrini che lasciano un omaggio sulla lapide di Blake, che non è la sua tomba, perché oggi sappiamo che fu seppellito laggiù, sotto quegli alberi, assieme ad altre undici persone».
La luce magnetica del pomeriggio filtra nel fitto intrico di alberi. Un uomo dorme su una panchina e cinque ragazzi scherzano tra loro, i monopattini appoggiati al muro o abbandonati al suolo. Poco più in là, spunta il campanile di una delle chiese di Hawksmoor. Nei pressi di queste tombe, Shakespeare aveva un teatro. Siamo all’esterno delle antiche mura, nella zona dei bordelli, degli ospedali, del divertimento, dei morti scomodi. Sette piccioni grassi riposano sulla tomba di John Bunyan, il predicatore pellegrino. C’è un bassorilievo di lato. Lo mostra appoggiato al bastone, che procede a fatica, curvo sotto il peso del fardello sulla schiena.
«Mi identifico in quell’immagine» dice Sinclair con la borsa di carta di Camden Lock Books, «sempre a camminare stracarico di libri». Il peso della letteratura. «È questo il centro magico della città?» gli chiedo. «Non più, ha cessato di esserlo, ormai è troppo evidente, troppo visibile». «E quale potrebbe essere il nuovo centro?» insisto. «Lo sto cercando… Forse lo racconterò in un libro futuro».
III. Taxi
«Nel mio prossimo libro prenderò commiato da Londra: si intitolerà London Final» mi confessa Iain Sinclair durante la mia ultima notte nella metropoli cannibale, mentre il taxi abbandona il lusso del centro e si addentra nella periferia che lo circonda: «Dopo, me ne andrò in Perù, sulle tracce del mio bisnonno, che andò laggiù in cerca di fortuna e che scriveva in uno stile molto simile al mio».
Non ho preso appunti su quest’ultima conversazione. Avevamo bevuto vino in abbondanza. Forse non si trattava del suo bisnonno, ma del trisavolo. Forse l’ho sognato. Non gli scriverò un’email per tentare di chiarirlo: tanto lui non lo farebbe. Ma se così fosse, quel viaggio in America del Sud sarebbe la continuazione logica di American Smoke, il suo viaggio negli Stati Uniti seguendo le tracce della Beat Generation. Perché Sinclair lascia il suo territorio abituale, la sua Londra infinita, per visitare i luoghi in cui Jack Kerouac, Allen Ginsberg, William Burroughs o Gregory Corso continuarono la tradizione visionaria di William Blake e il nomadismo di John Bunyan. Le rotte del Nuovo Mondo dove quello Vecchio ha continuato ad avere un senso.
Me lo immagino sul volo transoceanico. A Lima. Su un’auto a noleggio o su corriere notturne. La Cordigliera in lontananza, come un fondale o una minaccia. Me lo immagino che cammina per villaggi andini. Non si connette con il cellulare, non usa il GPS, non è mai geolocalizzabile. Me lo immagino che si perde: viaggiando al termine della propria luce. Dice Osip Mandel’štam che Dante ha immaginato un Inferno con vicoli e scalinate, totalmente urbano, perché vi proiettava la Firenze che lo aveva esiliato. Mi immagino Sinclair che cammina per mercati indigeni e rovine inca allo stesso modo in cui attraversa Londra, senza smettere di fare deviazioni, senza smettere di leggere.
3 Riferimento a Diario dell’anno della peste di Daniel Defoe.