QUEL PUNTO
INTERROGATIVO
CHE CHIAMIAMO LIBRERIA
Durante un volo da Città del Guatemala a San Francisco ho conosciuto un camionista – di poche parole, tratti duri – che mi ha detto: «Nella tomba portiamo con noi soltanto i viaggi». Ero totalmente d’accordo con lui, perché avevo ventidue anni e un’infinità di lingue davanti. Adesso aggiungerei ai viaggi altri concetti topici: gli amori, le amicizie e le letture. Tutto questo confluisce nelle librerie, spazi per eccellenza di ciò che intendiamo per modernità, rifugio di nomadi e stranieri, patria degli amanti dei libri, caverna o santuario in cui si riuniscono amici e complici, ostello di flâneur e poveri, archivio di cortesie e, per storia e importanza, uniche.
Le buone librerie sono domande senza risposta. Sono luoghi che ti provocano intellettualmente, che codificano enigmi, che ti sorprendono e ti impongono sfide, che ti ipnotizzano con quella melodia – o cacofonia – creata dalle luci e le ombre, gli scaffali, le scale, le copertine, la porta che si apre, un ombrello che si chiude, cenni del capo che dicono salve o arrivederci, la gente in movimento. In un articolo sulla libreria Strand, Juan Bonilla racconta che quando Augusto Monterroso visitava New York, un amico lo accompagnava alle nove del mattino in una libreria e andava a prenderlo alle nove di sera. Solo una domanda nervosa e stimolante a cui non c’è risposta ti può tenere in bilico per undici ore (concediamone una per un’insalata Waldorf e il cheesecake) nel labirinto di una libreria. Un labirinto amabile, senza possibilità di smarrirsi: già ti perderai dopo, a casa, quando ti immergerai nei libri che hai acquistato. In nuove domande alle quali stavolta potrai rispondere.
Nel miglior racconto di non-fiction che conosco sul tema delle librerie, 84, Charing Cross Road di Helene Hanff, il grande punto interrogativo coincide con le fattezze di un libraio. Tutti abbiamo letto anatomie e poetiche sullo scrittore, il bibliomane e il bibliotecario: ma che diamine significa essere un libraio? Le lettere che la scrittrice statunitense scambia con il personale della libreria Marks & Co. nei due decenni successivi alla Seconda guerra mondiale subiscono una battuta d’arresto quando muore il principale interlocutore, Frank Doel. Poi la vedova scrive alla Hanff: «Adesso mi rendo anche conto che era una persona molto modesta, perché ho ricevuto lettere da tanta gente che gli rende omaggio e da professionisti del libro che dicono fosse un’autorità in materia». Cosa significa ciò? Che la modestia è il principale attributo del libraio. Davvero? Nel miglior racconto di fiction sulle librerie che conosco, Mendel dei libri di Stefan Zweig, ciò che definisce il protagonista non è tanto la sua condizione di personaggio secondario in una Vienna piena di celebri intellettuali, quanto la sua memoria. Questo vuol forse dire che per due secoli i librai e le libraie sono stati dei Funes, o della memoria e la personificazione della modestia. Ma da quando l’attività si è informatizzata e (quasi) tutto è diventato raggiungibile con un clic, la memoria ha perso importanza: è rimasta, superstite, la modestia.
«Tieni sempre in conto che i protagonisti devono essere i libri» mi hanno detto l’altro giorno a Saragozza Julia e Pepe, che si sono innamorati in una libreria e hanno fondato Antígona venticinque anni fa, «è per questo che li abbiamo spogliati delle fascette». Il loro progetto è radicale: non hanno un sito web, non servono caffè o vino, nutrono una comunità che preferisce – talebani – le prime edizioni. Lui è il penultimo Mendel, il penultimo libraio del mondo che ha ancora l’intero archivio dei libri presenti in testa. Nelle librerie dell’usato in calle Donceles a Città del Messico, dove non sono arrivati neppure i programmi di gestione del catalogo presente, è difficile trovare qualcuno che sappia di cosa stiamo parlando; solo di tanto in tanto, dopo aver superato una legione di commessi, ci si imbatte in un libraio vero. Non sono un apocalittico: la storia del mondo è quella di una certa memoria che svanisce, generazione dopo generazione; quella di qualcosa che si perde per acquisire il nuovo. E migliaia di librerie dell’usato, in Messico e nel resto del mondo, continuano a essere gestite da librai di ogni età che amano, conoscono, memorizzano i libri. Ma da quando le librerie hanno preso forma, agli inizi del XIX secolo, offrendo i libri sulla strada grazie alle vetrine, e si sono moltiplicati i lettori e le pubblicazioni periodiche con tanto di espositori, l’avvenimento più importante è stato l’informatizzazione dei fondi. E lo sdoppiamento in pagina web. Condividere la propria memoria con quelle altrui in tutto il mondo.
In fin dei conti, uno schermo offre una visuale inferiore rispetto allo sguardo di chi entra e curiosa in una libreria. Per questo la libreria vera e propria rimane superiore a quella virtuale: non è possibile – ancora – batterla nella generazione di contesti. Sistemi complessi. Planetari. Una libreria letteraria apre linee di relazione e di fuga, mette in contatto migliaia di titoli, disegni, icone. Funziona come una macchina surrealista di analogie inaspettate. Sta esattamente qui la sfida, nelle due dimensioni di ogni progetto librario: far sì che i libri siano protagonisti di quei pochi centimetri di pixel e di quei metri quadrati solidi e tridimensionali; ma che vi sia in questo anche posto per altri protagonisti del mondo del libro, come gli scrittori e gli stessi librai. Le librerie dovrebbero vantarsi, sulle pareti e sui loro siti web, degli autori che le hanno visitate e dei librai che le hanno rese ciò che sono. George Steiner ricorda in Errata i luoghi che nella sua infanzia sono stati fondamentali per la sua formazione, come la scuola, e cita la mitica Gotham Book Mart di Manhattan: «Le sue pareti sono tappezzate di fotografie, solitamente autografate, di Joyce, T. S. Eliot, Frost, Auden, Faulkner, e autori più recenti». Gallerie di contemporanei, libri delle firme, ritagli di giornali, biografie: le librerie e i librai dovrebbero attenuare la loro modestia e rendere visibile la propria storia. Una storia che è una dichiarazione di intenti e una genealogia.
Perché memoria e modestia non sono buoni alleati. Solo se abbiamo coscienza dell’importanza dei professionisti del libro nella storia della cultura preserveremo la loro eredità. L’albero genealogico dei librai repubblicani si può ancora ricostruire, da Lima a Montevideo, da Buenos Aires all’Avana, da Caracas a Siviglia. Su entrambe le sponde dell’Atlantico, le loro tracce sono ponti sfocati e sta a noi ridefinirne i contorni. Ponti come quello che attraversò Eliseo Torres a causa della Guerra civile spagnola, o che portò Abelardo Linares a comprare dalla vedova di Torres il milione di libri che il galiziano aveva lasciato nella sua libreria di Manhattan. Fu uno degli apporti cospicui che confluirono nella libreria sivigliana Renacimiento, il cui nome non potrebbe essere più speranzoso. Torres – come tanti altri prima e dopo di lui – era editore oltre che libraio. Anche Renacimiento è una casa editrice. E Iberoamericana di Francoforte e Madrid. E Laie e La Central di Barcellona. Ed Eterna Cadencia di Buenos Aires. E Maruzen di Tokyo. È difficile, effettivamente, trovare grandi librerie del mondo che non si siano lanciate in progetti editoriali. Ricordo il volume che la berlinese Autorenbuchhandlung ha pubblicato per il trentacinquesimo anniversario. Hanno messo insieme Enzensberger, Franzen, Esterházy, Jelinek e molti altri scrittori di alto livello in un’antologia di testi e immagini espressamente creati per rendere omaggio a una libreria simbolo della riunificazione tedesca – e della democrazia e del capitalismo. Perché tutte le librerie sono locali e globali, nodi politici e d’affari, ambasciate della democrazia e del libero commercio.
Le domande che pone una libreria non sono intercambiabili, bensì personali. Ogni lettore ha le sue librerie, la propria collezione, i suoi ricordi. Prima che i librai alimentassero la biblioteca di Alessandria, prima che i venditori ambulanti vendessero libri nelle locande d’Europa, prima che venissero inventati la filologia, il romanzo e la stampa, prima che Diderot scrivesse nel suo saggio Sulla libertà di stampa che «il fondo editoriale di un libraio è la base del suo commercio e della sua fortuna», prima che aprisse le porte la libreria Roca a Manresa (siamo nel 1824) o la libreria di testi religiosi Calatrava a Madrid (saltiamo al 1873), prima che Adrienne Monnier e Sylvia Beach inaugurassero e chiudessero le loro mitiche librerie in rue de l’Odéon a Parigi, prima – persino – che George Orwell lavorasse nella londinese Booklover’s Corner alla vigilia della Guerra civile spagnola e che quella libreria, cinquant’anni dopo, diventasse un caffè per giocatori di scacchi e poi una pizzeria, molto prima che tutto questo accadesse, io da bambino entravo nella libreria Robafaves a Mataró. Perché senza le prime librerie non esisterebbero le altre. Se fin da giovane non sei diventato un amante delle librerie, un tossico di libri, è improbabile che poi ti dedicherai a rintracciarle nei tuoi viaggi e a indagare sulle loro storie e i loro miti e – infine – a leggerle.
Quel volo americano di quindici anni fa fu in realtà un ponte tra la libreria guatemalteca El Pensativo e quella californiana City Lights. Nel Natale precedente avevo fatto scalo alla Shakespeare and Company di Parigi: George Whitman era ancora vivo, ma il suo corpo era sempre più ectoplasmatico, vagava negli angoli del suo regno come il fantasma di re Lear. Comprai libri e cartoline in quelle tre librerie; chiesi biglietti da visita, dépliant commemorativi; presi appunti, scattai foto. Con gli anni avrei appurato che Ferlinghetti aveva edificato la libreria beat di San Francisco imitando il modello di Whitman. E che su una scacchiera, in un angolo della libreria El Virrey a Lima, c’erano tracce degli esiliati provenienti dall’Operazione Condor a Montevideo e delle librerie che la famiglia Sanseviero aveva avuto in altre città latinoamericane. E che Altaïr di Barcellona si è ispirata alla parigina Ulysse, il posto della grande viaggiatrice Catherine Domain. E che c’erano tantissime librerie con lo stesso nome, anche in lingue diverse: Odisea, Antígona, Central, Ciudad, Laberinto, Rayuela, Bartleby e compagnia. Cominciarono così le mie domande, le mie ipotesi, le mie reti: la mia collezione di librerie. Mi sono reso ben presto conto che è impossibile conoscerle tutte, poiché tra un viaggio e l’altro sono già scomparse, si sono trasferite, hanno già assunto il profilo di un altro punto interrogativo. Ognuna costruisce i suoi ponti – più o meno sfumati, più o meno svaniti dalla memoria – spesso su piloni che si sostengono sul capriccio. E sull’innamoramento. Scoprire Pandora l’ultima volta che sono stato a Istanbul, divisa su due sponde, una dei testi in turco e l’altra dei testi in inglese; visitare a Bogotá la monumentale e candida libreria del Fondo de cultura económica; frequentare le lignee The Book Lounge e Hill of Content durante i miei soggiorni a Città del Capo e a Melbourne, è stato meno emozionante che tornare nelle librerie già conosciute. Alla Clásica y Moderna di Buenos Aires, alla Stanfords di Londra, alla Bertrand di Lisbona. L’anno prossimo tornerò nella Green Apple Books a San Francisco, meno celebre ma altrettanto memorabile rispetto alla City Lights. Insistere. Riscrivere. Fallire sempre, ma ogni volta un po’ meglio. Essere testimone del loro congelamento o dei cambiamenti. Mitizzare per demitizzare – perché di questo si tratta. Accumulare strati di letture. Aggiungere poche righe al Libro di Sabbia di una storia non scritta. José Saramago ha detto che essere libraio è come essere innamorato tutta la vita. Allora essere lettore ed essere viaggiatore è come essere libraio. Lo so che questo può suonare banale e ingenuo, ma il fatto è che al mondo c’è già fin troppo pessimismo.