I CANI DI CAPRI

I. La casa selfie

 

Curzio Malaparte non abbaiava alla luna, ma ai cani dell’isola. Racconta in Diario di uno straniero a Parigi che aveva imparato a parlare con loro durante il confino negli anni Trenta a Lipari, una delle isole Eolie, le sorelle minori della Sicilia: «Non avevo nessun altro con cui parlare». Saliva sulla terrazza della sua triste casa sul mare e trascorreva lunghe ore «abbaiando ai cani, che mi rispondevano, e i pescatori di Marina Corta mi chiamavano il cane».

Continuò a farlo nella Parigi del 1947, dopo quattordici anni di esili italiani, punito e incarcerato più volte dal regime di Mussolini che pure aveva appoggiato nei primi tempi con lo stesso trasporto con cui lo avrebbe poi ripudiato. Ma erano i gatti di rue Galilée a rispondergli: «Dovetti smettere di parlare con i gatti nella lingua dei cani, perché i gatti non volevano e mi insultavano».

Ma fu soprattutto qui, a Capri, dove l’autore di Kaputt abbaiò e abbaiò e continuò ad abbaiare, di notte, per quanto gli isolani lo chiamassero il matto e si lamentassero con i soldati americani, che gli chiesero di smetterla; ma Malaparte andò a parlare con l’ammiraglio Morse, l’ufficiale al comando, che gli disse: «Lei ha il diritto di abbaiare, se vuole, perché adesso l’Italia è un paese libero. Mussolini non c’è più. Lei può abbaiare».

Sarà tutto vero?, mi chiedo mentre sbarco dopo un’ora di traversata in traghetto da Napoli. Mitomane e narcisista sono alcuni degli aggettivi che accompagnano sempre il nome di Kurt Erich Suckert, nato in Toscana nel 1898 da padre tedesco e madre italiana, morto sessant’anni fa, il cui pseudonimo era un’ironica distorsione del cognome di Napoleone e la cui vita e opera furono contraddittorie, straordinarie, profondamente europee, tra la cronaca e il romanzo, tra le vicissitudini incredibili e l’immaginazione verosimile; una vita narrata da se stesso in chiave di ciò che da ormai quarant’anni chiamiamo autofiction – e che lui praticò molto prima di chiunque altro.

Questa mole massiccia è molto reale: mi accoglie amorfa. Il cronista di viaggi sa che al lettore non interessa il turismo. Quindi non descriverò tutto quello che si assiepa sul porto alle nove del mattino: la folla che si mette in coda per imbarcarsi sui traghetti per Ischia, Sorrento o Napoli; quelli che arrivano per l’escursione alla Grotta Azzurra, o per prendere la funicolare che per due euro ti porta nel centro abitato di Capri, o un taxi scoperto che fa lo stesso percorso, nello stesso tempo, zigzagando tra curve e tornanti per venti euro, mancia a parte.

Salto al paragrafo successivo e, per arte d’ellissi, sono già sul sentiero che mi conduce a un set cinematografico, a una casa mitica, vista da lontano. Sono venuto qui in cerca di cani e di uno sguardo. I pronipoti dei cani con i quali dialogava Malaparte e lo sguardo che mi ha portato a casa sua. La casa mi ha condotto a un sentiero. E quel sentiero, stando alla cartina che mi hanno regalato nell’ufficio turistico di Capri, porta a una casa che non può essere la stessa del film.

Lo sguardo appartiene a Godard: per Il disprezzo, un suo film del 1963, girò varie scene a Villa Malaparte; però quella che mi ha sedotto non è questa qui, si trova più lontano. Due uomini con il cappello camminano lungo un sentiero con gradini, ombreggiato da fitti alberi. La cinepresa li segue mentre scendono finché, a un tratto, fa un movimento che lo spettatore non poteva prevedere: devia a destra e ci mostra la grande casa rossa, il sottomarino di pietra incagliato sull’alto della scogliera, in lontananza.

E due figure minuscole, sulla terrazza anch’essa rossa che sembra una pista d’atterraggio: una rimane, l’altra scende le scale. Era un cinema fatto per essere visto al cinema: ogni volta che ho premuto play sullo schermo del computer le figure dell’uomo e della donna si sono confuse tra loro, camaleontiche, fondendo i pixel.

La casa che, invece, non poté essere filmata è molto meno famosa e molto più discreta: vi alloggiò Pablo Neruda nell’inverno che trascorse qui all’inizio degli anni Cinquanta con Matilde Urrutia. Quando quasi mezzo secolo dopo venne girato il film Il postino l’isola era ormai diventata troppo turistica, era cambiata troppo, per poter assomigliare a quella che aveva conosciuto il poeta cileno. Michael Radford e la sua troupe girarono in altri paraggi e la sceneggiatura evitò di menzionare la parola “Capri”.

Dato che i viaggi sono ciò che succede mentre fai altri piani di viaggio, la prima cosa che trovo lungo il cammino che dovrebbe condurmi alle due case che sono venuto a vedere è una terza casa, inaspettata. Il cronista di viaggio sa che la digressione è stata inventata da un viaggiatore. Al numero 4 di Traversa Croce visse nel 1938 Marguerite Yourcenar, dice una targa a caratteri azzurri su fondo bianco. Scrisse che ogni isola è un microcosmo, un universo in miniatura.

Nella porta accanto hanno aperto un negozio di prodotti tipici di Ucraina, Polonia, Romania, Russia, Bulgaria e Moldavia. Capri è stata rifugio di tutte le anomalie dei secoli scorsi, di tutte le trasgressioni. Le sofisticate amiche lesbiche, intellettuali e artiste degli anni tra le due guerre compaiono, per esempio, in Extraordinary Women (1928) romanzate dal marito di una di loro, Compton Mackenzie (sua moglie, Faith, ebbe una relazione con la pianista Renata Borgatti). E i fumatori di oppio e avvezzi a tutti i vizi, con Jacques d’Adelswärd-Fersen al centro, vennero ritratti nell’Esule di Capri (1959), di Roger Peyrefitte.

Extraterritoriale e multilingue come Tangeri, altrettanto proscritta e rifugio e oasi e inferno: contò sempre sul vantaggio di essere circondata di azzurro. Le società generano norme che mettono implacabilmente al bando le trasgressioni. Ma finché non arriva quel momento, tutti i trasgressivi, tutti gli originali, tutti gli spiriti liberi, tutti i drogati e gli inclassificabili cercano di approfittare della parentesi.

Yourcenar scrisse qui il romanzo Il colpo di grazia nel 1938, ma era stata a Capri l’anno prima con l’americana Grace Frick, in un viaggio di nozze che attraversò l’Italia da nord a sud e del quale conosceremo i particolari solo nel 2037, quando sarà finalmente possibile leggere la corrispondenza tra le due donne (non immaginavano che vari decenni prima di quella data saremmo stati tutti già preparati a ciò). Marguerite Yourcenar, del resto, era lo pseudonimo di Marguerite de Crayencour. La letteratura ha qualcosa del ballo in maschera, come il viaggio.

Il cronista di viaggio sa di essere un corpo che cammina sotto un sole sempre più cocente e, avendo lasciato il cappello in hotel a Napoli, chiede una crema con protezione solare a due turiste statunitensi che incontra per strada, mentre si tengono per mano. Con il cranio incremato, mi lascio alle spalle via Sopramonte e imbocco via Matermania, che ben presto diventa un belvedere a ogni svolta, e in una deviazione si affaccia sull’Arco Naturale – che incornicia una tela in due tonalità di azzurro – e quindi una scalinata tra pini, gradini ben costruiti, puntellati di cemento, in questa isola urbanizzata e ciò nonostante rimasta pura vertigine.

E a un certo punto, sebbene non abbia un cappello, quasi di colpo, mi ritrovo a essere uno dei due uomini con il cappello che scendono queste scale, ogni passo un fotogramma, che cinquant’anni non sono nulla e il cinema viaggia alla velocità della luce. Voilà, eccolo lì, l’antidiluviano sottomarino rosso: la Casa come me.

Malaparte si innamorò di Capri nel 1936, a trentotto anni, quando aveva già un curriculum letterario che comprendeva romanzi come Sodoma e Gomorra, saggi come Intelligenza di Lenin o Tecnica del colpo di Stato, oltre alle sue esperienze al fronte, nel giornalismo, in diplomazia e in cospirazioni. Acquistò da un pescatore quel promontorio roccioso a Punta Massullo e si dispose a erigervi un autoritratto sotto forma di abitazione.

Se per l’architettura la norma di Capri era quella che avrebbe certificato lo scrittore, ingegnere e sindaco Edwin Cerio, organizzatore del “Convegno sul paesaggio” del 1922, dove venne stabilita la linea stilistica (bianco calce e semplicità mediterranea) che avrebbe dovuto predominare sull’isola, il mostro o la trasgressione o lo spirito libero ha prodotto questa sorta di selfie in specchio concavo, questo manifesto futurista rosso e rettilineo, questa Casa come me, la casa che sono venuto a vedere perché fa parte della bibliografia di un grande creatore e perché compare in un film di Godard: Villa Malaparte, costruita tra il 1938 e il 1942, firmata dall’architetto Adalberto Libera, ma in realtà totalmente concepita dal suo padrone e signore.

Su quel tetto a terrazza a cui si accede da una scala omerica, Malaparte lasciò vagare lo sguardo un’infinità di volte come un capitano sulla prua e vide sempre lo stesso panorama mitico ma con migliaia di varianti, perché lui non credeva nella storia e pertanto su quei promontori e su quelle isole e quella costa potevano convivere il mondo cristiano e precristiano, l’eruzione del Vesuvio e gli splendori di Pompei, Virgilio e Leopardi e Plinio il Vecchio, Andromeda che piange incatenata a una roccia, Perseo che uccide un mostro, le sorelle malapartiane: le sirene.

Su quella terrazza improbabile sono passati scrittori fascisti e comunisti, attrici italiane e statunitensi, militari, consoli e spie di tutta Europa, amanti. Alla tavola di Malaparte c’era posto solo per otto commensali, otto era anche il numero massimo di invitati che poteva ospitare: all’interno dell’isola c’era un’altra isola a forma di casa – che osservo dallo stesso punto da cui lo fece la cinepresa di Godard.

Su quella terrazza ci stava soprattutto lui, solo con il suo cane e solo come un cane. Così ce lo mostra la maggior parte delle fotografie: le braccia incrociate, le mani guantate rivolte al cielo, in sella a una bicicletta da corsa, allenandosi per pedalare da New York a San Francisco nel 1955, e con i suoi vari cani, in braccio, sulle gambe, mentre li accarezza, le orecchie abbassate, bianchi e neri. Premo un’altra volta play nella mia testa e Brigitte Bardot prende ancora una volta il sole nuda proprio su quella terrazza che scorgo in lontananza, a faccia in giù, un libro di fotografie in bianco e nero le copre a malapena le natiche.

E sotto quella terrazza leggendaria, davanti alla vetrata del salone, oltre vent’anni dopo morto, grazie al play Malaparte ripete quello che ha scritto nella Pelle, ma stavolta con il corpo e la voce di Marcello Mastroianni che lo interpreta nella versione cinematografica del 1981: «Mi ha chiesto se avevo comprato la casa così com’era o se l’avessi progettata e costruita io stesso. Gli ho risposto – anche se non era vero – che l’avevo comprata così com’era. E con un ampio gesto della mano ho indicato la parete rocciosa di Matermania, i tre faraglioni, la penisola di Sorrento, le isole delle Sirene, l’azzurro del litorale amalfitano e il remoto splendore della costa di Paestum, e gli ho detto: “Io ho progettato il panorama”».

Mi accontento di imitare il travelling di Godard senza cappello e continuare a inerpicarmi su questo promontorio sul bordo del sentiero, perché è il massimo a cui possa aspirare: secondo le persone a cui ho chiesto a Napoli e i siti web che ho consultato, la casa non è visitabile. Per questo ho guardato tante volte le scene del Disprezzo e della Pelle e i video su YouTube e le foto che mostrano quell’interno inaccessibile. Le maschere abissine, i tappeti finlandesi, i quadri e il tavolo da lavoro che non ci sono più. Il ritratto di Campigli, il vasto caminetto, il grande bassorilievo di Pericle Fazzini, i paesaggi naturali incorniciati dalle finestre, soprattutto, ciò che è ancora lì.

Quelli che sono stati ospitati a casa sua dicono che conduceva una vita spartana, senza alcun attaccamento agli oggetti. Ciò che gli piaceva di più era guardare la costa e il mare, sublimi, sia nelle giornate assolate che in quelle di maltempo. Scriveva, anche, e leggeva e mangiava e scopava e guardava la televisione. Ma non è male ricordarlo così alla fine del paragrafo: abbracciato al suo cane, mentre si lascia invadere da quelle mareggiate che, quando infuriava una tormenta, inondavano il piano inferiore e schizzavano di spuma bianca la brillante terrazza rossa, quando il sottomarino si immergeva, terracotta opaca, spia.

Sono ormai quaranta minuti che osservo e fotografo in completa solitudine (è passata solo una coppia di statunitensi e lui mi ha chiesto cosa fosse quella casa così weird e io gliel’ho spiegato e loro, wow, very interesting, thank you, bye) quando a un tratto compaiono due pixel, forse tre.

Sì: tre pixel che escono dalla casa e scendono la scalinata di pietra che conduce all’imbarcadero. Potrebbe essere una coppia di Hollywood: non riesco a vedere i volti, ma si muovono con glamour, lei con un ampio cappello di paglia bianco, lui con un panama, lei in vestito bianco, lui in pantaloni corti neri e camicia azzurra, lei con la borsa da spiaggia, lui con un piccolo trolley. Qualcuno li sta accompagnando al motoscafo che li aspetta, con due valigie in mano, che poi consegna al capitano o pescatore o taxista. La coppia sale a bordo e saluta. La terza persona si accomiata. E a un tratto c’è un cane ai suoi piedi, un cagnolino che li saluta abbaiando anche se non posso sentirlo, ma posso immaginarlo.

Il motoscafo se ne va, lasciandosi dietro una scia. La terza persona e il cagnolino salgono nuovamente la scalinata.

Chi saranno? I passi cessano di essere fotogrammi e tornano ciò che sono sempre stati: palpiti. Comincio ad allontanarmi e la sequenza cinematografica e la casa rimangono sempre più indietro.

Controllo il display dell’iPhone e ho la conferma di aver fatto un buon selfie con il suo selfie perfetto sullo sfondo. E continuo a camminare.

 

 

II. Sotto il vulcano

 

Capri e il Vesuvio sono i totem – geografici e simbolici – che più evoca Curzio Malaparte nella Pelle. Non solo vi sono scene che si svolgono lì, entrambi i toponimi vengono menzionati costantemente. Il narratore parla dell’isola e del vulcano durante i suoi vagabondaggi in città o lungo la costa, come se fossero due dei vertici del suo triangolo delle Bermuda: il terzo è Napoli.

Ricostruzione distorta, cruda e sarcastica dell’occupazione statunitense del sud Italia, con lo stesso scrittore come filo conduttore e come traduttore tra i nativi e le truppe alleate, è molto probabile che La pelle sia il grande romanzo napoletano. I napoletani, tuttavia, non lo hanno letto così. Per molto tempo l’autore è stato considerato persona non grata. Benedetto Croce si pentì pubblicamente di avergli “dato corda”. E La pelle venne incluso dal Vaticano nell’Indice dei Libri Proibiti.

Dall’isola di Lipari – dove era stato al confino e aveva imparato ad abbaiare – si vede quella di Vulcano: il destino di Malaparte erano i vulcani e le isole. Dal mio hotel Una Napoli, circondato da un mercato che sorge all’alba e scompare la sera – grida di venditori rauchi, penetrante odore di pesce – vedevo sia la stazione della Circumvesuviana sia il Vesuvio, dormiente dal 1944, quando avvenne l’ultima delle sue venti eruzioni devastanti. Attualmente, più di tre milioni di persone vivono nel suo raggio di potenziale minaccia.

Nel I secolo – quando si svegliò per la prima volta – non esisteva in latino una parola che significasse “vulcano”. Per i romani il Vesuvio era una montagna verde, per questo, quando cominciò a emanare fumo, Plinio il Vecchio volle avvicinarsi per osservare lo strano fenomeno: il resto è lava e silenzio. Quanti morirono nell’anno 79 sepolti dalla pietra pomice, i gas, la terra incandescente e la cenere, non capirono il motivo della loro morte. La realtà non esiste se non è preceduta dal linguaggio. E il viaggio non ha senso se non trova le sue parole.

Il cronista di viaggio deve avere un pusher in ogni porto. Assediato da un caldo appiccicoso, chiamai il mio di Napoli e lui mi ha detto «lascia perdere tutto e vieni qui». Raimondo mi accolse rasato di fresco, tuttavia, sembrava più piccolo di come lo ricordavo. Indossava una polo Lacoste blu mare, aveva le mani in tasca e lo sguardo ironico di chi sa già tutto. Non mi ha mai deluso, non so cosa farò il giorno che dovesse decidere di abbandonare l’attività: si era procurato il materiale in appena ventiquattr’ore. Lo tirò fuori da sotto il bancone con la circospezione e l’emozione di chi maneggia merce proibita di enorme valore: «Sono dovuto andare fino a casa di Sergio Attanasio a prenderlo, non c’era altro modo di procurarselo».

Gli diedi quel che mi chiese, lo salutai con un «Ci vediamo dopo» e me ne andai a seguire le tracce di un altro viaggiatore, Giacomo Leopardi, perché è quello che facciamo quando scriviamo un articolo: seguire sempre i passi di altri. Diversi anni prima di intraprendere la serie di viaggi che lo avrebbero portato a morire in questa città, scrisse la sua poesia più intrisa di futuro, “L’infinito”. Una poesia che parla dell’orizzonte come di una frontiera tra due abissi. Era molto giovane quando la scrisse, non aveva ancora viaggiato, ma tutta la sua vita si può interpretare come una corsa a ostacoli, i cento metri ostacoli, e dopo ogni salto, un orizzonte diverso.

Entrai nel parco Vergiliano, dopo aver perso di vista sulla sinistra la stazione di Napoli Mergellina, e mi lasciai portare dai lampioni di altri tempi, l’ombra dei cipressi, l’odore dei pini e il cinguettare dei passeri, mentre risalivo il sentiero zigzagante che conduce alla mole marmorea dove il grande poeta romantico è sepolto.

Una videocamera di sicurezza mi riprese. E un estintore, accanto alla lapide di marmo, mi ricordò quanto fosse assurda quella commemorazione: il poeta morì nel pieno di un’epidemia di colera, i suoi resti si persero per sempre in qualche fossa comune, i suoi versi sono gli unici resti che si conservano del DNA leopardiano.

Però continuai a salire e ben presto mi assalì un’ondata di freddo, proveniente dal tunnel abbandonato che perfora la collina. All’ingresso degno di una cattedrale, ecco un altro estintore e una dozzina di piccioni – svolazzavano e tubavano – che avevano fatto il nido nelle cavità di quell’opera di ingegneria della Roma imperiale, un tunnel impressionante che attraversa la collina di Posillipo, settecento metri di lunghezza per cinque di altezza e quattro e mezzo di larghezza, una bocca di lupo mitologico.

La tradizione mente ancora una volta: non fu Virgilio a volere la costruzione di questo tunnel, fu opera di Lucio Cocceio Aucto ed è rimasto in uso per secoli grazie ai lavori di ristrutturazione di dignitari quali Alfonso V il Magnanimo e Giuseppe Bonaparte. Dalla fine del XIX secolo aspetta l’arrivo di un sindaco all’altezza dei suoi predecessori. I piccioni svolazzavano, da una parte all’altra, anime in pena. E l’estintore mi ricordava che il potere compie i suoi doveri in maniera protocollare, senza curarsene (presto saranno trascorsi due millenni dalla disintegrazione dell’impero).

A forare la collina c’era anche, più modestamente e a pochi metri, tornato al caldo, la grotta con la tomba di Virgilio (secondo la tradizione, questa grande bugiarda). Temporaneamente chiusa per lavori. Impalcature ossidate. Ragnatele sulla cancellata. Cacche di piccione sul cartello che avvisava della chiusura, forse lasciate dallo stesso pennuto che giaceva morto nell’interno monumentale e tetro, al buio.

Tre videocamere puntavano – rispettivamente – verso la cripta virgiliana, l’imboccatura del tunnel e il sentiero da cui ero salito. Mi chiesi se fossero attive e collegate agli schermi e quindi se qualcuno mi stesse vedendo prendere appunti sul taccuino che, con un po’ di fortuna, poi si convertiranno in questo testo.

Tornai indietro e, prima di uscire, mi avvicinai alla finestra del casotto dei custodi all’ingresso: lo schermo del monitor, acceso, mostrava alternativamente immagini fisse dei monumenti senza nessuno, in bianco e nero; la mole di marmo, l’opera di antica ingegneria, la grotta cacata dai piccioni. Un guardiano in divisa, magro, guardava su un altro televisore una sorta di telenovela. Il suo collega, grassoccio, scorreva il suo profilo Facebook sul cellulare.

I librai sono pusher e sono virgilii. Senza i ciceroni che ti rivelano cosa non c’è su Wikipedia, la cronaca di viaggio non avrebbe senso. Tornai da Dante & Descartes, la mia libreria Itaca napoletana – con sottotitolo “Libri persi e ritrovati” – per passare a prendere Raimondo e andarcene a mangiare il baccalà. Mi aveva trovato un altro libro di cui avevo bisogno per il mio viaggio a Capri alla ricerca di due case, due scrittori, due film, un articolo.

Me lo regalò, assieme a Napòlide, di Erri De Luca (autore nonché suo amico, cui lo stesso Raimondo Di Maio ha fatto da editor). Nel Giorno prima della felicità, di fatto, compare il personaggio di un libraio, don Raimondo. «Non vive più qui, vero?» gli chiesi, e mi rispose: «Se ne è andato da tempo però torna spesso, a volte si ferma a casa mia, poco tempo fa ha fatto un incontro a Scampia, il quartiere che nella serie Gomorra viene descritto come un inferno della droga ma che, in realtà, è pieno di associazioni culturali, legate soprattutto alla musica, e dove vivono tantissimi giovani che non sono né aspirano a diventare camorristi».

Roberto Saviano presentò da Dante & Descartes il suo primo libro, Gomorra, una cronaca sulla camorra che prima di diventare un best seller, un film, un’opera teatrale e una serie televisiva, decretò la sua condanna a morte. Vive nascosto negli Stati Uniti. Leopardi fu perseguitato dai fanatici cattolici, che osteggiavano la sua filosofia antidogmatica. Anche Matilde Serao ebbe problemi per il suo libro Il ventre di Napoli e la polemica che seguì la pubblicazione del Mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese durò per decenni. Per quanto ispiri ammirazione, tenerezza e persino complicità, sembra sia impossibile scrivere di Napoli senza impugnare un bisturi – o un trapano.

«Con Roberto parliamo ancora ogni tanto» mi raccontò Raimondo andando verso il ristorante e chiese: «Ti dispiace se facciamo una piccola deviazione?». Ho pensato “C’è forse un’altra maniera di viaggiare?” e lasciammo via Mezzocannone per infilarci nei vicoli del centro storico.

«In questo angolo» aggiunse dopo pochi minuti, indicando il numero 22 di via Donnalbina, «nel 1984 aprì la sede originale della libreria; in effetti il successo, sebbene discreto, fu immediato». Fa il segno delle virgolette con le dita mentre pronuncia la parola “fortuna” e dice che poi mi racconterà i motivi della sua buona sorte.

Percorremmo qualche centinaio di metri lungo la via lastricata, tra facciate monumentali ma scrostate – quanto puzzava, sotto il sole, la spazzatura – per fermarci nella parte superiore di Pendino Santa Barbara. Si trattava di un passaggio a gradoni, con archi all’entrata e all’uscita, sulle cui pareti si poteva stratificare la storia di Napoli: dalle pietre grecolatine utilizzate dai muratori medievali e che riconducono a Partenope – l’insediamento greco dal nome di sirena – fino alle piccole cappelle illuminate con luci al neon e i graffiti.

«Qui è dove Malaparte inventa la più suggestiva e bizzarra delle immagini iperrealiste della Pelle, in questo vicolo a scale offrono i loro servigi le prostitute nane» disse il mio libraio cicerone. Con una faccia da fauno superdotato e le braccia incrociate, Raimondo mi raccontò che tale invenzione amplificava un fatto storico: in quel vicolo stretto, dove non batte mai un raggio di sole, viveva davvero una comunità di donne nane, ma non per motivi genetici bensì per il rachitismo e la miseria.

Non era difficile immaginare – nel torpore del mezzogiorno, sopra una patina di sporcizia – quelle donne costrette dalla povertà a «mostrare il nero pube nel roseo bagliore della carne nuda», mentre gridavano «Five dollars! Five dollars!» ai soldati afroamericani. E che richiudevano le gambe quando quelli erano spariti alla vista. È la scena meno cruda della Pelle, un romanzo in cui un padre incassa denaro per lasciar guardare la vagina aperta della figlia vergine o in una cena aristocratica si serve un pesce che magari è una sirena o forse è una bambina morta.

La letteratura contemporanea insiste nel realizzare versioni del mito d’origine: al principio Capri fu il luogo delle sirene e sulla spiaggia di Napoli giunse il cadavere di Partenope dopo il ferale incontro con Ulisse. Ma la mitologia, in realtà, rende confusa o addirittura dimentica l’origine: le sirene omeriche avevano il volto o il torso da donna ma il resto del corpo era di uccello, non di pesce. La versione disneyana elabora una tradizione che inizia nel Medioevo e che converte le sirene in soggetti sexy.

Ma le autentiche sirene erano mostri orrendi e striduli. Lo stesso Norman Douglas – autore della Terra delle sirene – fu espulso dall’Italia per omosessualità (anche se poi riuscì a tornare a Capri per suicidarsi). E Malaparte, che dire della mostruosità di Malaparte?

«Anche qui c’è una lunga tradizione di libri nani» mi spiegò Raimondo più tardi, davanti a un piatto di carpaccio di baccalà. A Napoli cominciarono a stamparli fin dalla nascita della tipografia, grazie a un editore nomade, il tedesco Mattia Moravo. «C’è una certa continuità fino a oggi» spiega il libraio e tira fuori dalla borsa alcuni dei minilibri che ha pubblicato mentre aggiunge: «Però la tradizione moderna comincia con l’edizione settimanale della Biblioteca Lillipuziana, nel 1892, promossa da Luigi Chiurazzi. Fu lui a convertire la produzione di libri di piccolo formato e minuscoli in un segno distintivo di Napoli».

Don Raimondo è la memoria vivente dell’arte libraria di questa città testuale – e così testualizzata. Da anni minaccia di raccogliere in un volume infinito tutti gli articoli che ha scritto su editori, stampatori, bibliotecari e librai di Napoli: «Quando è uscito Il postino il centro si è immediatamente riempito di edizioni pirata del romanzo di Antonio Skármeta» mi racconta prima di ordinare un babà al momento del dolce. E continua: «Ma anziché essere firmate da lui, le copie riportavano come autore Massimo Troisi, l’attore protagonista che era appena deceduto: non troverei un esempio migliore del sofisticato spirito picaresco napoletano».

Quel pomeriggio e la mattina seguente li ricordo come un’unica, lunghissima camminata, interrotta soltanto per fermarci in un caffè dove cercare tra i libri nello zainetto nuovi dati da riscontrare nella realtà o per entrare in librerie a caccia di qualche testo sconosciuto sulle sirene, il Vesuvio, Leopardi, Malaparte, i cani di Capri, i cani di Napoli (l’hotel era stato una parentesi relativa perché avevo continuato a camminare anche in sogno). Anche quando passeggiavo da solo, non smettevo neanche per un istante di conversare mentalmente con il mio cicerone, la cui voce ruvida e vibrante associo nella memoria alla voce della città o quantomeno alla sua colonna sonora.

«Non ho trovato alcuna traccia di Leopardi nella sua tomba esagerata» raccontai a Raimondo il giorno dopo, mentre a pranzo mangiavamo pasta e fagioli in un altro ristorante vicino alla sua libreria. «Invece ne ho trovate in una delle case in cui abitò, dopo aver risalito una di quelle strade in pendenza del quartiere Montecalvario, via Nuova Santa Maria Ognibene». Gli mostrai sul cellulare la foto della targa: «In due abitazioni di questo edificio dal dicembre 1833 al maggio 1835 soggiornò Giacomo Leopardi».

E gli raccontai che l’atrio di ingresso era nobiliare, con un grande cancello di ferro e un bellissimo lampione in alto, però il palazzo faceva paura, perché era un misto di pietra antica con innesti di cemento crepato, l’architettura classica con tubi e grondaie di plastica e i panni stesi e una bambina di sei o sette anni che rideva ogni volta che la madre le dava una sberla.

Nella speranza che l’aria del sud contenesse elementi che lo curassero del suo edema polmonare, Leopardi visse in diversi appartamenti di Napoli, tra l’ottobre del 1833 e il giugno del 1837. Pietro Citati descrive così nella sua biografia la vita di quegli anni che trascorrevano tra discussioni letterarie, librerie dell’usato e il culto napoletano per il caffè e i frutti di mare: «Era un nuovo piacere che non aveva provato né a Bologna né a Pisa né a Firenze: camminare fino a perdersi tra la folla, divenuto anche lui, come tutti gli altri, un corpo, un colore, un suono, un gelato, un riccio».

Leopardi aveva la gobba. I bambini si avvicinavano per toccarla, tra il divertito e il timoroso, e ottenere così qualche oncia di buona sorte. «Non mi hai ancora raccontato la storia della fortuna della tua prima libreria» dissi a Raimondo. «È vero, ti offro un espresso e te la regalo» rispose lui. Al bancone del caffè ricordò quell’anziano che tutti i giorni si fermava, per vari minuti, a osservare assorto la vetrina della Dante & Descartes aperta di recente.

Il giovane libraio si era reso conto che non guardava i libri, ma qualcos’altro, forse le pareti, il pavimento, il soffitto, come se scavasse nello spazio che ora era occupato dai titoli di Italo Calvino o Natalia Ginzburg o Benedetto Croce o Dante Alighieri. Che diamine stava guardando, sempre? Un giorno si decise infine a offrirgli un caffè e l’uomo gli confessò che nel 1945 quel locale ospitava un bordello: «Mi disse che lì offrivano le loro grazie giovani donne veneziane, milanesi, siciliane e… insomma, si ricordava soprattutto di una ragazza di Bologna, che suppongo lo avesse particolarmente impressionato».

Le coperte militari fungevano da séparé tra i vari ambienti. Raimondo gli aveva chiesto cosa ricordasse delle vicine scalinate di Pendino Santa Barbara e l’anziano aveva risposto che si ricordava delle prostitute che offrivano i loro servigi appoggiate ai muri, prostitute che non erano nane però c’era un basso con delle donne piccole. Prima di andarsene disse che tutto quello che gli aveva raccontato gli avrebbe portato “fortuna”, perché a Napoli si crede che le puttane diano buona sorte.

Ci salutammo abbracciandoci in piazza del Gesù Nuovo dove suo figlio Giancarlo ha aperto una succursale della Dante & Descartes. E sul traghetto che mi portava a Capri, il mattino seguente, cominciai a leggere il libro che Raimondo mi aveva procurato a casa del suo autore: Curzio Malaparte. “Casa come me”, Punta del Massullo, tel. 160, Capri, di Sergio Attanasio. E Neruda a Capri. Sogno di un’isola, di Teresa Cirillo.

Con lo sguardo che oscillava tra le pagine e le onde, pensai che forse anch’io avrei avuto fortuna e sarei stato in grado di scrivere una cronaca di viaggio, questo paradosso, perché il viaggio è movimento e la scrittura lo ferma, perché il viaggio è sempre cronachistico e la cronaca aspira a esserlo, ma solo a volte ci riesce.

 

 

III. Il mare in miniatura

 

Prima dei cani malapartiani, erano le capre gli animali emblematici di quest’isola: mammiferi saltimbanchi e arrampicatori, perfetti per questo paesaggio scosceso. Non saranno state capre quelle che avvistarono in lontananza i primi marinai arrivati su queste coste, scambiandole per sirene? E non erano forse stranamente seducenti quei belati, che distorti dal vento vennero presi per canti strampalati?

Nel racconto “Tra le rovine”, la sua cronaca su Capri, il mitomane, viaggiatore e narcisistico scrittore britannico Bruce Chatwin ricorda che sull’“isola delle capre” avevano costruito la propria casa sull’orlo delle scogliere “tre narcisisti”: Axel Munthe, il barone Jacques d’Adelswärd-Fersen e Curzio Malaparte. Nella brillante cronaca di viaggio, in cui riassume la biografia dei tre personaggi mentre percorre i loro scenari (e che può leggersi come un autoritratto in specchio concavo per l’interesse verso lo straordinario e l’ego debordante), Chatwin menziona il libro di Malaparte Donna come me (1940), «una serie di fantasie autobiografiche con titoli come Una donna come me e Un cane come me». Non c’è dubbio che la casa selfie fu anche una fantasia trans, ma con una vocazione di testamento o mausoleo. Non a caso scrisse di Mussolini: «Muss, grande imbecille adorato, cadavere come me».

La Casa come me rimane sempre più indietro, ma continuano di fianco a me le scogliere e i pini, in questa anfibia via Tragara che a tratti si inabissa, ma senza perdere mai l’urbanità, l’eleganza, poiché in fin dei conti costeggia ville private, lussuosissime, in uno dei centri mondiali del turismo snob. Dopo essermi lasciato alle spalle l’antico porto di Tragara – una spiaggetta con sdraio e ombrelloni – protetto da quelle grandi moli di roccia erosa – vecchi dèi in coma – che sulla cartina vengono chiamati Faraglioni, mi imbatto in un altro edificio icona di Capri: l’hotel Punta Tragara. Dal 1973 offre viste privilegiate dalle terrazze e piscine, con un martini in una mano e un’ostrica nell’altra; ma nel mezzo secolo precedente era una villa privata, che ai tempi della Pelle diede alloggio ai generali Dwight Eisenhower e Mark Clark, e al primo ministro Winston Churchill.

Trecento metri più avanti, quasi ormai nel paese che ho lasciato circa tre ore fa, mi fermo davanti al numero 14 per spiare la Casetta di Arturo, così discreta, dove trascorse alcuni mesi Pablo Neruda. Nessuna targa sulla facciata a ricordarlo, affinché non attiri troppo i turisti, ma il cronista di viaggio sa che il suo dovere è vedere ciò che gli altri non hanno visto, quindi, non ricevendo risposta al citofono, mi arrampico come una capra caprese e sbircio.

Guardo la scala che scende lungo il dirupo e, ombreggiati da una grande quercia, il patio e la casa che Edwin Cerio – patriarca della famiglia più influente dell’isola – prestò al poeta e alla sua nuova compagna, Matilde Urrutia. L’invito arrivò come una manna dal cielo. Siamo nel 1952 e, su pressione della dittatura cilena, il ministero dell’Interno italiano ha emesso un ordine di espulsione immediata. Ma un gruppo di intellettuali intercede e ottiene che l’ordine sia sospeso. Allora: un telegramma, un invito a trascorrere l’inverno e la primavera a Capri. Anziché andarci con la moglie, Delia del Carril, ci va con l’amante. Quella che prima si chiamava la sua musa: grazie a lei scrisse alcuni versi memorabili nell’Uva e il vento e nei Versi del Capitano («allora al fondo di te e al fondo di me / scoprimmo che eravamo ciechi / dentro un pozzo che ardeva con le nostre tenebre»), e per colpa di lei ne pubblicò altri che fanno un po’ vergognare per lui («e tosto nel miele naviga la statua di prua, / ignuda, stretta dall’eccitante ciclone mascolino»).

Neruda a Capri conduceva una vita umile in una casa umile, impropria: una vita fatta di olive e vino, di odi elementari. Sebbene da un punto di vista politico e artistico Malaparte e lui fossero agli antipodi, adesso mi rendo conto che l’interno di Villa Malaparte, come si vede nelle foto e nelle sequenze della Pelle e del Disprezzo, assomiglia molto all’interno delle case di Neruda con vista sul mare: quella di Valparaíso e soprattutto quella di Isla Negra. La cronaca di viaggio tende all’unità aristotelica (di azione, spazio e tempo), quindi non aprirò qui una lunga digressione su quel viaggio che, dalla sua torre a Santiago del Cile, mi portò alle tre case di Neruda, ai suoi tre musei di collezionista strampalato, alle sue tre architetture poetiche. Ma posso perfettamente immaginarle tutte e tre a Capri, per esempio a Punta Massullo.

Dopo aver spiato nella casa adultera di Neruda continuai a passeggiare per Capri; leggevo e scrivevo mentre mangiavo in un ristorante vicino alla casa della Yourcenar; visitai il Centro Caprense Ignazio Cerio (ricordo soprattutto gli scheletri di capre); tornai a Napoli e poi a casa mia. E avrei continuato a leggere Malaparte e su Malaparte, i cani di Capri e sui cani di Capri. E a guardare film e a navigare sugli schermi: uno non sa mai quando comincia né quando finisce una cronaca.

Malaparte racconta in Diario di uno straniero a Parigi che da bambino era gracile, malaticcio, dominato dall’immaginazione. La casa di famiglia si trovava in via Magnolfi a Prato, la cittadina in cui era cresciuto: «A due anni, avevo tolto un mattone dal pavimento della mia camera, e avendo scoperto sotto il mattone un po’ di sabbia, pensavo che questa sabbia fosse il mare. Restavo ore intere con l’orecchio incollato su questa sabbia, per ascoltare il mare, la voce del mare». Suo padre gli regalò una conchiglia e lui costruì il proprio mare in quella stanza infantile con giocattoli strani. Passò la vita a immaginare isole e quando volle rendersene conto lui stesso era un vulcano circondato dal deserto.

Il disprezzo è cinema sul cinema: una costruzione nell’abisso. Narra in piano sequenza come Fritz Lang – che interpreta se stesso – giri a Cinecittà e a Capri un adattamento dell’Odissea di Omero. Tra immagini di statue greche, la tragedia di Penelope e Ulisse viene interpretata dal personaggio di Brigitte Bardot, bionda o mora a seconda dei momenti del film, e da quello del marito Michel Piccoli, drammaturgo che riceve l’incarico di riscrivere il copione, che non soddisfa l’arrogante produttore americano che lo finanzia. Villa Malaparte è nella fiction la dimora che accoglie tutta la sua arroganza. E nella fiction dentro la fiction, nelle riprese sulla terrazza, il cinema e l’amore vengono offerti in sacrificio agli antichi dèi, perché le scale in technicolor della casa conducono a un grande altare che si prolunga nell’orizzonte azzurro.

Alberto Moravia, che aveva lavorato alla Stampa quando Malaparte ne era il direttore, prima della guerra, e aveva vissuto a Capri con la moglie Elsa Morante, divorziò da lei proprio mentre scriveva Il disprezzo. Quando Godard stava lavorando all’adattamento cinematografico del romanzo ebbe la crisi sentimentale che lo portò a divorziare dall’attrice Anna Karina, e la crisi ideologica che lo fece diventare maoista. Sono gli stessi anni in cui vengono concepite le ultime volontà di Malaparte, morto nel 1957, che avrebbe donato la sua casa alla Repubblica Popolare Cinese, perché dopo il fascismo e prima di morire aveva fatto in tempo a idolatrare Stalin e Mao Zedong e chiedere – durante i centoventi giorni della sua agonia – che papa Pio XII andasse a fargli visita nella sua stanza di moribondo. In ospedale ricevette un messaggio dal sindaco di Capri: l’isola si riconciliava con lui, anche se lui avrebbe preferito che l’addio lo firmassero i cani.

Diverse settimane dopo il mio ritorno finisco di leggere Malaparte. Vite e leggende, l’esauriente biografia di Maurizio Serra. Nell’epilogo dice che quando visitò la villa nel giugno del 2010 conobbe una cagnolina, Luna, «creaturina spigliata che ricorda i trattamenti subiti da trovatella, si offre con prudenza alle nostre carezze e se ne va a frugare in un angolo cinto di verzura, dove Malaparte aveva eretto un piccolo cimitero canino». Menziona anche Alessia e Niccolò Rositani Suckert, che gestiscono la casa. Cerco invano i loro indirizzi email in rete, i profili Facebook. Chi altri menziona Serra? Una pianista, un finlandese, una messicana. La cerco su Messenger. La trovo. È la professoressa Maya Segarra Lagunes. La contatto. Mi risponde.

Risponde che preferisce non esprimere pareri sulla casa. Le dico che non chiedo opinioni, ma fatti. Dopo due giorni mi dà il suo indirizzo di posta elettronica e mi dice che sia lei che la proprietaria della villa, Alessia Rositani, risponderanno alle mie domande via email. Ci mettono un mese a rispondere, però l’attesa vale la pena.

«Fin dal primo momento, il mio rapporto con la casa è stato di profondo rispetto e ammirazione; ma al tempo stesso, di permanente fascino nel conoscerla e comprenderla in ogni dettaglio, in ciascuna delle sue soluzioni» scrive Segarra Lagunes. «L’obiettivo, in futuro, è continuare a indagare sui suoi segreti, per capire a fondo il perché di ciascuna di quelle originali e intriganti soluzioni architettoniche, che ancor oggi non cessano di sorprendere l’architettura mondiale».

Proprio per questo intervisto a lungo Alessia Rositani Suckert, che gestisce assieme al marito (bisnipote di Malaparte, figlio di Lucia Ronchi) i diritti e l’eredità dello scrittore, perché scopro che sono loro quelli che conoscono più a fondo la casa autobiografica. Mi racconta che Malaparte era cosciente del fatto che non esistessero rapporti legali tra Cina e Italia quando, provocatoriamente, lasciò in presunta eredità la casa al governo di Mao: «Fu un gesto per sollecitare il dialogo tra Oriente e Occidente, lui si era sempre battuto per la libertà di espressione e per l’apertura, la Casa come me rappresenta anche questo».

Si definiscono “una famiglia tradizionale, dai valori cattolici”, che lavora assieme al figlio Tommaso nella difesa del legato malapartiano. La villa ne è parte integrante: «È molto delicata e costantemente maltrattata dal mare, la salsedine, le intemperie, richiede continue attenzioni, a tale scopo possiamo contare su un’équipe di persone eccezionali che si incaricano della manutenzione, tutte figlie e nipoti di dipendenti di Curzio, come pure il figlio del suo tappezziere». Non hanno mai ricevuto finanziamenti pubblici per i lavori di manutenzione: «Siamo ancora giovani e possiamo lavorare per pagare le nostre spese, il denaro dello stato deve andare agli ospedali e ai bisognosi».

Sebbene si tratti di una residenza privata e loro vivano a Firenze, vi alloggiano regolarmente scrittori, traduttori e architetti. Ad abitarci in modo permanente sono le domestiche e i cani. Non posso evitare di raccontarle che ho passeggiato nei suoi dintorni, imitando una sequenza di Godard, il 9 giugno scorso. E che ho visto alcune persone in lontananza. E un cane: «Probabilmente si trattava di mio figlio, o forse del nostro traduttore per l’olandese, Jan Van der Haar, con Stephanie La Porte, che stavano lavorando nella casa. E il cane poteva essere Agata, una grande danese nera; o il nostro amato Febo, un golden retriever; o Luna, la nostra povera orfanella, che mandiamo spesso a caccia di gabbiani che ci rovinano il tetto».

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Le chiedo se Malaparte e Neruda si conobbero a Capri: «Non lo so, faccio una ricerca in archivio». Trascorro l’ora e mezza di attesa a passeggiare per via Tragara su Google Maps, cercando il mio fantasma camuffato, sorvolando la Casa come me, cercando il cambio di prospettiva che mi permetta di concludere questa ricerca, questa cronaca di viaggio.

«Ho controllato dal 1948 fino al 1955 e ho trovato solo questo articolo, che mi pare interessante» leggo dopo aver miniaturizzato l’isola in 3D. Si tratta di un testo pubblicato su La Nación del Cile il 25 settembre 1953, in cui Malaparte rende testimonianza di una visita a Neruda nella sua casa a Santiago. La descrive in ogni dettaglio e conclude: «Possiede un clima magico: ogni mobile ha il valore di un idolo o di un feticcio».

La conversazione, in francese, inizia nell’ingresso, prosegue nel salone e in biblioteca, si conclude in giardino. Lo scrittore italiano è affascinato dalla collezione di conchiglie marine esposte nella biblioteca: «Non c’è nulla che dia l’idea del mare quanto le conchiglie; del mare come architettura, come geografia, come patria» scrive, e racconta che Neruda chiama ogni conchiglia per nome. Una viene da Giava, un’altra dal Messico, questa da Ceylon, quella da Valparaíso: «Da Capri, da Cuba, dal deserto di Atacama: ci sono tutti i mari e tutti gli oceani del mondo in queste conchiglie».

Che sono case in miniatura.

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