BORGES PRIMA E DOPO BORGES

L’opera di Borges abbonda di certi personaggi subalterni, un po’ oscuri, che seguono come ombre le orme di un’opera o un personaggio più luminosi. Traduttori, esegeti, glossatori di testi sacri, interpreti, bibliotecari, persino malavitosi di mezza tacca e teppisti. Borges definisce un’autentica etica della subordinazione. […] Essere una nota a margine di un testo che è la vita di un altro: non è forse questa vocazione parassitaria, irritante e al contempo ammirevole, meschina e radicale, quella che prevale quasi sempre nelle migliori opere di narrativa di Borges?

ALAN PAULS, Il fattore Borges

 

 

I

 

La lapide di Jorge Luis Borges nel Cimitière des Rois a Ginevra, con l’iscrizione in inglese antico e all’ombra di un albero che fiorisce solo una volta ogni due anni, si trova di fianco alla tomba di una prostituta. Quella di colui che scrisse “Pierre Menard, autore del Chisciotte”, un racconto il cui protagonista scrive in francese a meno di mille chilometri da qui, è kitsch: nessuno capisce questo omaggio postumo di María Kodama, scritto in caratteri incomprensibili da saga nordica, stridente come un suonatore di cornamusa in questo paesaggio armonico e sobrio da coro gregoriano. L’erba cresce rigogliosa nel rettangolo che dal 1986 sovrasta la bara di Borges. Non ci sono messaggi né fiori né pietre, come ce ne sono – per esempio – sulla tomba parigina di Cortázar. Le rose sono invece sempre fresche, nel rettangolo equivalente di Grisélidis Réal (1929-2005), scrittrice, pittrice, prostituta.

Più in là c’è il monumento essenziale – design elvetico – che ricorda Robert Musil, morto a Ginevra nel 1942, al riparo dalla tormenta nazista. Poco più lontano, vicino all’ingresso, si trova la tomba di un certo Babel, che forse fu un bibliotecario. Ma il defunto più vicino all’autore della “Lotteria di Babilonia” è una defunta: attivista, donna coraggiosa, artista cosmopolita che studiò ad Alessandria, Atene e Zurigo, una prostituta di alto bordo che ha sempre difeso la causa degli emarginati, cioè di chi vive ai margini, persino al suo funerale, dove si erano mescolati diseredati e dignitari, lavoratrici del sesso e ricchi orologiai.

Agli occhi di questo turista culturale, viaggiatore dall’innamoramento facile che persegue topografie letterarie, c’è una maniera di unire concettualmente la tomba di Borges con quella della Réal mediante il terzo vertice di un altro possibile triangolo: qui è stato sepolto anche il filosofo svizzero Denis de Rougemont, che spiegò meglio di chiunque altro gli strani modi con cui codifichiamo l’amore nell’Occidente.

 

 

II

 

Borges è una parentesi durata quarantacinque anni. Dal 1930, quando pubblicò Evaristo Carriego e poco dopo conobbe Adolfo Bioy Casares, al 1975, quando morì sua madre e María Kodama diventò la sua segretaria personale. Tra queste due date scrisse tutti i suoi capolavori da abitante di Buenos Aires e da lettore iconoclasta, memore e memorabile della letteratura universale. Prima e dopo Borges, da una parte e dall’altra della parentesi irripetibile, c’è un altro Borges, letterariamente meno interessante, ma molto più felice. È il Borges che nel 1914 arrivò con la sua famiglia a Ginevra, dove studiò al liceo e conobbe le opere delle avanguardie; che nel 1919 arrivò a Palma di Maiorca, dove nuotava, tirava tardi la notte e firmava un manifesto futurista; che tornò a Maiorca sessant’anni dopo, dove andò a trovare Robert Graves, e che si trasferì a Ginevra nel 1985 per poter morire da svizzero.

Il Borges canonico è venerabile e monumentale, progressivamente astratto. Cammina appoggiandosi a un bastone. Sta rimanendo al buio, o, come Tiresia, è ormai cieco del tutto e ci inquieta con le sue visioni ironiche. Ha scritto racconti immortali e detta poesie e conferenze e viene tradotto e riceve premi. Il suo mondo è Buenos Aires: vive con la madre e la domestica, Epifanía Uveda de Robledo, “Fanny” (come la nonna Fanny Haslam), passeggia e cena con Bioy Casares, adora il tango, è uno scrittore che legge e scrive, più stile che impeto. L’altro Borges, sia il primo che l’ultimo, è appassionato e corporeo. Scrive lettere e poesie e manifesti, non è ancora in grado di pensare ai libri. O forse ha già scritto tutti quelli che poteva immaginare e adesso pensa soltanto alle sue Opere complete. Viaggia con la famiglia, da giovane, o con María Kodama, da vecchio. È felice e non ha remore nel proclamare la propria felicità riguardo questi ultimi viaggi, riguardo la vita a Ginevra.

È stato felice anche a Maiorca: non è difficile immaginarlo mentre risale in auto la strada che conduce a Valldemosa e a Deià. Le terrazze e le pietre e i muri verticali e gli ulivi dai tronchi contorti: tutto lo riconduce allo stesso paesaggio che aveva scoperto con entusiasmo dopo aver vissuto e studiato, da adolescente, in Svizzera. In una Svizzera che, quando vi arrivò nel 1914, gli era parsa triste, di un grigiore metallico, e che subito dopo sarebbe diventata un parco chiuso al resto del mondo a causa della Prima guerra mondiale. Dalla geometria e dall’amabilità svizzera passò senza soluzione di continuità a una città mediterranea e cosmopolita, dal turismo incipiente, e da questa ai paesaggi tellurici che avevano affascinato e al contempo provocato il rifiuto viscerale di George Sand e che avevano invece fatto innamorare Graves, che dopo essere rimasto in silenzio durante l’incontro con Borges e Kodama, sulla soglia della porta esclamò all’improvviso: «Dovete tornare! Questo è il paradiso!».

 

III

 

La luce di Maiorca si contrappone, capricciosa, all’oscurità di Barcellona, da cui occorre necessariamente passare in quei tempi senza tanti aerei: «quindici giorni fa abbiamo lasciato la Ciudad Condal (così viene chiamata Barcellona) per venire a trascorrere l’estate nelle isole Baleari» scrive in Cartas del fervor, il 12 giugno 1919. L’ironia è la linea che unisce tutti i Borges che chiamiamo Borges. Due anni dopo sarà più tagliente e parlerà di Barcellona come della “città rettangolare e immonda”.

Il viaggio è stato un’idea stravagante di suo padre, racconta all’amico intimo Maurice Abramowicz, e si incontrano a Palma di Maiorca, una città gradevole ma anche monotona. Borges riporta un dialogo con uno sconosciuto in cui conversano della Svizzera e lui dice che là c’è di tutto e che «la città è così bella con il lago e il Rodano e…». È chiaro che ha idealizzato la vita in Svizzera, che ne sente la mancanza, e che per questo la quotidianità maiorchina gli appare plumbea. Al mattino va in tram fino a Portopí, a fare il bagno a mare; nel pomeriggio prende lezioni da un prete; la sera, legge al Circolo degli Stranieri (per esempio Pío Baroja, con entusiasmo, perché sarà poco a poco, a Buenos Aires, che deciderà programmaticamente di prendere le distanze dalla letteratura spagnola per poi rifiutarla).

Oggi Portopí è un grande centro commerciale e, sull’altra sponda, rimane soltanto il ricordo del vecchio porto, un tempo vissuto dai pescatori. Bisogna proseguire ancora un po’ per raggiungere Ses Illetes, che essendo zona militare è stata preservata dall’invasione del turismo di massa. L’acqua è trasparente, quasi senza sale, di un azzurro tenue. Ci sono alcune ville borghesi. E la sabbia bianca da cartolina. Qui è possibile immaginare il giovane Borges, che aveva imparato a nuotare nel Paraná e nel Rodano, solare e atletico, tendendo i muscoli a ogni bracciata.

Poco alla volta comincia a sentirsi parte integrante della città e dell’isola, soprattutto grazie alle conversazioni e all’amicizia con Jacobo Sureda, malato di tisi, con cui condivideva la complicità avanguardistica, ma anche la scoperta della notte, e dell’alcol di notte. Nel 1926 disse: «Maiorca è un luogo simile alla felicità, adatto a essere gioiosi, scenario del piacere, e io – come tanti isolani e forestieri – non ho quasi mai avuto quell’abbondanza di felicità che uno dovrebbe portarsi dentro per sentirsi spettatore degno (e non imbarazzato) di tanto fulgore di bellezza».

Nelle foto compare con un completo giovanile e la cravatta, i capelli pettinati all’indietro, leggermente impomatati.

 

 

IV

 

Su Grand Rue c’è una libreria antiquaria con volumi che mi piacerebbe tanto avere: prime edizioni dell’Internazionale Situazionista, di Kerouac, di Debord. C’è anche una bibliografia del XVIII e del XIX secolo. Dal fondo della caverna una voce di donna mi grida: niente foto! Io, dopo aver chiesto scusa, chiedo alla donna corpulenta sulla sessantina, mentre lei si tira su gli occhialini che le ricadevano sulla punta del naso, se Borges comprava qui i suoi libri. Mi dice di no. Non le credo. Neanche lei mi ha creduto quando le ho detto che non sapevo fosse vietato fare foto. Siamo pari.

Un’ora dopo, una volta scoperte le scacchiere giganti sulla pavimentazione del Parc des Bastions, dopo essere sceso dalla collina che è il centro storico, ripenserò a lei: abbiamo pareggiato. Borges avrà avuto il tempo di vedere questi pedoni, i cavalli, i due re circondati da sessantaquattro caselle bianche e nere? Lo sapeva che uno dei suoi simboli fondamentali era tridimensionale, là sotto, a cinque minuti da casa sua? Quest’ultima si trova a cinquanta metri dalla libreria, dove una targa commemorativa (la via è piena di targhe con nomi e date su questioni di libertà religiosa e lotta per i diritti civili di cui nessuno conserva più memoria) ricorda che qui ha vissuto Borges. La citazione è presa da Atlas, il libro che scrisse con María Kodama, il suo testamento a quattro mani: «Di tutte le città del mondo» ricorda l’iscrizione, «Ginevra mi sembra la più propizia per la felicità». La citazione assomiglia a quella che la cittadina di Blanes riporta in vari angoli per ricordare Roberto Bolaño. Una citazione da “Pregón de Blanes”. Bisogna cercare nei testi minori le grandi affermazioni, le note a piè di pagina dei testi che contano.

Il Borges adolescente in questa città ebbe accesso, grazie a una biblioteca ambulante, ai classici della letteratura francese, come Victor Hugo, Baudelaire o Flaubert. Fu Abramowicz che gli presentò Arthur Rimbaud. I Borges abitavano in rue Malagnou. Marcos-Ricardo Barnatán racconta in Borges. Biografía total che la via adesso ha «il nome dell’illustre pittore svizzero Ferdinand Hodler», al cui numero 17 «vissero, nell’appartamento al primo piano con quattro finestre che si affacciano sulla strada, dal 24 aprile 1914 fino al 6 giugno 1918», anni durante i quali Borges studiò nel collegio Calvino. La materia principale era il latino, ma quasi tutto si studiava in francese.

Erano arrivati in Svizzera a causa dei primi segni della cecità del padre, che lo avevano costretto al pensionamento anticipato e che anticipavano i sintomi dello stesso Borges (ci sono uomini che monopolizzano il cognome dei predecessori). Curiosamente, malgrado la guerra, nel 1915 varcarono le Alpi e visitarono Verona e Venezia. Lo ricorda in Abbozzo di autobiografia e in quelle pagine l’amicizia ha un certo protagonismo: «I miei due migliori amici erano di origini ebraicopolacche: Simon Jichlinski e Maurice Abramowicz. Uno è diventato avvocato e l’altro medico. Insegnai loro a giocare con le carte a truco, e impararono così in fretta e bene che alla fine della nostra prima partita mi lasciarono senza un centesimo».

Mi intriga molto quel viaggio in piena Prima guerra mondiale: quel turismo inaspettato. Però non ne trovo alcuna traccia nelle sue biografie. Ripetono, invece, che sua sorella Norah era arrivata a sognare in francese.

 

 

V

 

«Andammo a Maiorca perché era bella, economica e perché c’erano ben pochi turisti oltre a noi» prosegue Borges nelle sue memorie. «Vivemmo lì quasi un anno, a Palma e a Valldemosa, un paese in cima alle colline». Lui continuava a studiare latino, con un sacerdote che non aveva mai avuto la tentazione di leggere un romanzo, mentre suo padre scriveva El caudillo, un’opera di finzione degna di nota che si iscrive in quell’ossessione della letteratura latinoamericana, da Facundo di Sarmiento fino alla Festa del caprone di Vargas Llosa, passando per Pedro Páramo di Rulfo e tanti altri romanzi, per la figura virile e autoritaria, totem del potere. Ne stampò cinquecento copie a Maiorca, che si riportò a Buenos Aires in nave. Prima di morire chiese a Borges di riscriverglielo, un giorno, alleggerendolo dalla retorica.

Non lo fece mai.

Le lettere di quell’epoca rivelano che era sempre al corrente del dibattito culturale europeo anche standosene sull’isola. Al circolo si discuteva spesso delle teorie di Einstein. Con Sureda, propugnano il complotto futurista. E Borges trovò addirittura un barbiere che leggeva Baroja, Huysmans e la baronessa von Suttner. Quando si avvicina la data della partenza confessa di essere triste per il ritorno a Buenos Aires: «Vado raccogliendo qua e là» scrive, «informazioni su questo strano paese».

Dopo essersi lasciato alle spalle il Mediterraneo non avrebbe più rivisto Jacobo Sureda, perché morì nel 1935, ma rincontrò Jichlinski e Abramowicz a Ginevra all’inizio degli anni Sessanta. Quasi non li riconobbe, per i capelli bianchi, l’invecchiamento, quegli «uomini dalla testa grigia», dice in Abbozzo di autobiografia.

Non menziona la propria cecità.

 

 

VI

 

Nei papiri egizi, nelle antiche edizioni del Corano, nella Bibbia di Gutenberg, nei bellissimi manoscritti giapponesi, le “note del guanciale”, nel ritratto di Dante che attribuiamo a Botticelli, nelle prime edizioni della Divina Commedia e delle tragedie di Shakespeare e del Don Chisciotte, gli alfabeti si susseguono come pagine di un unico libro, di un’unica storia testuale dell’umanità che alla Fondazione Martin Bodmer di Ginevra si può leggere mentre si passeggia, con la luce soffusa, in una sottile intimità.

Dopo l’edizione dell’Ulisse della Shakespeare and Company e qualche allusione al vicino Musil (il terzo volume dell’Uomo senza qualità fu pubblicato a Losanna nel 1943), al pari dei classici indiscutibili, nel museo delle lettere e del libro Borges ha una vetrina tutta per sé. Secondo il testo apposto dall’istituzione museale, con lui finisce la letteratura, orientale e occidentale, una storia antica che inizia con il bel caos del mito e si conclude con la perfezione concettuale del logos. Qui sono esposti il manoscritto di “El Sur” del 1953, la prima edizione di Ficciones (Sur, 1944) e quella di El aleph (Losada, 1949) e di El libro de arena (Emecé, 1975), più qualche altro manoscritto e, infine, su un supporto girevole, affinché si possano vedere le pagine scritte a mano su entrambe le facciate, la versione originale di “Tlön, Uqbar, Orbis Tertius” del 1940.

Questa vetrina poco fuori Ginevra, con viste sul lago e sulla città della puntualità, è l’autentico mausoleo di Borges e non quella tomba kitsch che ho visitato stamattina. Un mausoleo classico e dinamico, sobrio come le sue opere complete nella edizione della Pléiade, con la tenue illuminazione delle candele e del rispetto. Tutte le tradizioni, tutti gli alfabeti si concludono qui e, come una banderuola o una rosa dei venti, gira un mondo che è un racconto.

 

 

VII

 

Che Borges fosse stato felice a Ginevra e che volle morire in Svizzera sono cose che sappiamo da María Kodama. Per Bioy Casares non era così chiaro, come ha scritto a pagina 1590 del suo monumentale Borges, alla data di venerdì 14 febbraio 1986:

 

Ferrari mi dice che è preoccupato per l’assoluta mancanza di notizie da parte di Borges. Dice che anche Fanny è preoccupata. Poi mi confessa che Fanny gli ha raccontato che secondo il nuovo medico, Borges si trova in una clinica, probabilmente a Ginevra. Il nuovo medico, non senza una certa reticenza, alla fine lo avrebbe autorizzato a mettersi in viaggio, avvertendolo: «il freddo dell’Europa non va affatto bene per lei». Borges mi ha detto: «Non sto bene per niente. Non so come mi andrà. Tanto per morire un posto vale l’altro».

 

Le parole dettate dal dolore dell’amico il cui rapporto è stato incrinato dalla giovane amante, sembra che vogliano quasi insinuare un complotto.

Non riuscì a parlare con lui fino al 12 maggio:

 

Mi ha dato il numero e ho parlato con María. Le ho comunicato cose di scarsa importanza riguardo dei diritti d’autore (una gentilezza, per evitare argomenti patetici). Mi ha detto che Borges non stava molto bene, non ci sentiva granché e avrei dovuto parlargli ad alta voce. Allora è comparsa la voce di Borges e gli ho chiesto come stava. «Normale, tutto qui» ha risposto. «Non tornerò più». La comunicazione si è interrotta. Silvina mi ha detto: «Stava piangendo». Credo di sì. Credo avesse voluto accomiatarsi.

 

Il diario dura solo altre cinque pagine. In queste si parla della Kodama. Bioy dice che era il suo amore. Ma anche che era una donna strana. Che lo rimproverava, lo teneva sotto controllo, lo puniva con i suoi silenzi (un duro castigo per un cieco, che non può leggere le espressioni sul volto di chi tace). «Credo che con María arrivasse a sentirsi molto solo» afferma il vecchio amico. E aggiunge: «Secondo Silvina, Borges è partito per Ginevra e si è sposato per dimostrarsi indipendente, come un ragazzino che vuole essere indipendente e fa una corbelleria. Io aggiungerei: “Ha fatto quel viaggio per dimostrarsi indipendente e per non contrariare María”».

Secondo Edwin Williamson in Borges. A life fu quello stesso impulso di indipendenza rispetto alla sua famiglia che aveva indotto Borges a scrivere, nelle lettere di commiato da Maiorca, sessantacinque anni prima, allusioni pornografiche su bordelli, alcol e gioco. Il Borges monumentale, il genio, l’autore di capolavori, ha sempre vissuto tra le parentesi imposte, come colonne d’Ercole, da sua madre. «Curiosamente, fu in un bordello che il giovane Borges ebbe un anticipo della possibile riconciliazione con i suoi conflitti interiori» scrive Williamson. «Sembra che durante le sue visite a Casa Elena a Palma, avesse instaurato una singolare amicizia con una prostituta chiamata Luz, e che questa relazione avesse offerto al giovane nervoso, ipersensibile, un vago presentimento di ciò che sarebbe potuto essere una relazione naturale con una donna».

In assenza di amore, si abbandonò all’amicizia. Jichlinski, Abramowicz e Sureda furono i grandi amici del giovane nuotatore e avanguardista. Bioy Casares fu il grande amico del genio ironico, del Borges che conta. A María Kodama è toccato essere la grande amica nel punto finale.

L’ultimo medico che lo seguì, ormai sul letto di morte, era il figlio di Jichlinski.

Le note a margine sfumano come lacrime nella pioggia. Restano le opere. Grandi libri come L’invenzione di Morel, che ci ricordano che siamo lettori delle parole e delle passioni e delle relazioni e dei testi che hanno prodotto ologrammi che sembrano sempre più isole deserte.

 

Cara madre, ieri nella penombra di una vasta biblioteca, si è tenuta una cerimonia intima e quasi misteriosa. Alcuni signori affabili mi hanno eletto membro del National Institute of Arts and Letters. Ho pensato a te per tutto il tempo.

J. L. B., cartolina da New York,

26 marzo 1971