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2313 – Anno Due
Silo 17
Jimmy non se la sentiva di scrivere sulla carta. Nuotava praticamente in un mare di carta, eppure non aveva il coraggio di prendere qualche appunto lungo i margini. Quelle pagine erano sacre. Quei libri erano troppo preziosi. E così contava i giorni usando la chiave che portava intorno al collo e i pannelli neri del server etichettato come numero 17.
Quello era il suo silo, aveva imparato. Il numero era lo stesso stampato all’interno della sua copia dell’Ordine. Era l’etichetta sulla mappa di tutti i silos appesa alla parete. Sapeva cosa significava: poteva anche essere solo nel suo mondo, ma il suo non era l’unico mondo.
Ogni sera prima di andare a letto incideva un altro graffio d’argento nella vernice nera del grosso server. Segnava il passare dei giorni solo di notte. Gli sembrava prematuro farlo al mattino.
Il Progetto era cominciato male. Jimmy non credeva che avrebbe potuto superare molti giorni, quindi aveva iniziato a tracciare i segni al centro del server. Due mesi di quell’ordalia e aveva finito lo spazio, rendendosi conto che avrebbe dovuto cominciare ad aggiungere altri segni più in alto; così aveva cancellato quelli già fatti e si era spostato su un altro lato del server per cominciare da capo. Ora i graffi che incideva nella vernice erano piccoli e ordinati. Quattro tacche e poi una linea in diagonale a coprirle, proprio come faceva sua madre per contare per quanti giorni di fila lui si comportava bene. Sei gruppi di quattro tacche per quello che era ormai abituato a considerare un mese. Dodici di quelle file più altri cinque segni rappresentavano un anno.
Tracciò il segno finale nell’ultimo gruppo e fece un passo indietro. Un anno occupava metà lato di un server. Era difficile credere che fosse passato un anno intero, un anno vissuto in quel semi-livello sotto i server. Non poteva durare a lungo. Immaginare gli altri server coperti di graffi era intollerabile. Suo padre gli aveva detto che c’era abbastanza cibo perché due persone andassero avanti dieci anni. O erano quattro persone? Non ricordava con esattezza. Comunque significava almeno vent’anni da trascorrere da solo. Vent’anni. Girò intorno al server e guardò il corridoio tra le file degli altri macchinari. La grande porta argentata era lì in fondo. Sapeva che a un certo punto sarebbe dovuto uscire. Altrimenti rischiava di impazzire. Stava già impazzendo. Le giornate erano troppo uguali l’una all’altra.
Andò alla porta per controllare se dal corridoio arrivava qualche rumore. C’era silenzio, a volte era così, ma la debole eco delle esplosioni gli risuonava ancora nella memoria. Jimmy pensò di inserire le quattro cifre e dare un’occhiata. Era la peggiore sensazione possibile, non riuscire a vedere cosa succedeva fuori da quella porta. Quando le telecamere avevano smesso di funzionare, si era sentito come privato di un senso fondamentale. Gli era rimasto il bisogno di aprire la porta, di dischiudere una palpebra rimasta chiusa troppo a lungo. Un anno passato a contare i giorni. A contare i minuti di ciascun giorno. Quanto poteva resistere?
Si allontanò dal tastierino. Non ancora. C’erano persone cattive là fuori, persone che volevano entrare, che volevano sapere cosa si celava lì dentro e perché quel piano aveva ancora la corrente.
«Non sono nessuno» diceva Jimmy quando aveva il coraggio di rispondere alle loro domande. «Nessuno.»
Non ce l’aveva spesso, quel coraggio. Il più delle volte riusciva soltanto ad ascoltare i litigi degli altri uomini che avevano le radio. Riusciva soltanto a permettere che le loro discussioni riempissero il suo mondo e la sua testa, li ascoltava parlare e riferire chi aveva ucciso chi. Un gruppo lavorava alle fattorie, un altro cercava di fermare le inondazioni che filtravano dalle miniere e rischiavano di allagare il reparto meccanica. Un altro ancora aveva i fucili e si prendeva qualsiasi cosa gli altri avessero faticosamente raccolto. Una volta una donna urlò e chiese aiuto, ma Jimmy non sapeva come aiutarla. Secondo i suoi calcoli, lì fuori c’erano un centinaio di persone divise in piccoli gruppi, che combattevano e uccidevano. Ma presto avrebbero smesso. Dovevano smettere. Un altro giorno. Un altro anno. Non potevano combattere per sempre.
O forse sì.
Il tempo era diventato strano. Era diventato una realtà in cui credere, piuttosto che qualcosa di misurabile. Doveva fidarsi e pensare che stesse passando davvero. Non c’erano più le luci fioche lungo la scala o il buio ai piani per indicare l’arrivo della notte. Nessun viaggio verso la vetta e il bagliore dell’alba a dirgli che era giorno. C’erano soltanto i numeri sullo schermo di un computer, che avanzavano tanto lentamente da fargli venire voglia di urlare. Numeri che sembravano uguali di giorno e di notte. Ci voleva un conteggio accurato per sapere che era trascorso un giorno. Per sapere di essere vivo.
Jimmy pensò di giocare e correre tra i server prima di andare a letto, ma l’aveva già fatto il giorno prima. Pensò di sistemare le lattine di cibo nell’ordine in cui le avrebbe consumate, ma aveva già tre mesi di pasti allineati. C’erano il tiro al bersaglio, i libri da leggere, un computer con il quale giocherellare, faccende da svolgere, ma niente di tutto ciò sembrava divertente. Con ogni probabilità si sarebbe soltanto trascinato a letto a fissare il soffitto finché i numeri gli avessero detto che era domani. A quel punto, avrebbe pensato al da farsi.