17

2051

Washington, D.C.

Le grosse gocce di pioggia sul tendone esterno del ristorante De’Angelo sembravano dita che battevano su un tamburo senza seguire alcun ritmo. Le auto passavano sibilando su L Street tra le pozzanghere che si raccoglievano a ridosso del marciapiede, e l’asfalto che si intravedeva tra un veicolo e l’altro era nero e scintillante alla luce dei lampioni. Donald agitò un flacone di plastica e si lasciò cadere due pillole in mano. Due anni di cure. Due anni assolutamente privi di ansia, un glorioso stordimento.

Guardò l’etichetta e pensò a Charlotte, alla necessità di compilare le ricette con il nome di sua sorella, poi si infilò le pillole in bocca e le ingoiò. Non ne poteva più della pioggia, preferiva la neve, più pulita. L’inverno era stato di nuovo troppo caldo.

Tenendosi alla larga dal traffico di clienti che si riversavano attraverso le porte del ristorante, incastrò il cellulare tra la spalla e l’orecchio e ascoltò paziente mentre la moglie spronava Karma a fare i suoi bisogni.

«Magari non le scappa» le disse. Rimise il flacone nella tasca della giacca e coprì con una mano a coppa il cellulare quando la donna accanto a lui prese ad armeggiare con l’ombrello, schizzando acqua dappertutto.

Helen continuava a blandire Karma con parole che la bestiola non poteva capire. Ultimamente, era tipico delle sue conversazioni con Donald. Non avevano nulla di reale da dirsi.

«Ma è da oggi a pranzo che non la fa» insistette Helen.

«Non è che l’ha fatta in casa, da qualche parte?»

«Ha quattro anni.»

Donald l’aveva dimenticato. Di recente il tempo gli sembrava come chiuso in una bolla. Si chiese se dipendesse dalle medicine, o magari dal lavoro eccessivo. Ormai, se qualcosa gli sembrava… strana, dava sempre per scontato che fosse per via della cura. Prima poteva essere una delle bizzarrie della vita; poteva essere di tutto. Per certi versi, era peggio avere qualcosa di nuovo e concreto cui dare la colpa.

Dall’altro lato della strada riecheggiarono delle urla. Due senzatetto litigavano sotto la pioggia per una busta di lattine. Altri ombrelli vennero scrollati, e altri abiti eleganti fluirono nel ristorante. Una città incaricata di governare tutte le altre non riusciva nemmeno a badare a se stessa. Un tempo quelle cose gli davano da pensare. Tastò il rigonfiamento nella tasca della giacca, un tic consolatorio che aveva sviluppato da poco.

«Non la deve fare» disse sua moglie, esausta.

«Tesoro, mi dispiace, io sono qui mentre tu sei così indaffarata. Ma adesso devo davvero rientrare. Entro stanotte dobbiamo terminare le ultime revisioni dei progetti.»

«A che punto siete? Avete finito?»

Una fila di taxi passò a caccia di clienti, le grosse ruote che avanzavano sull’acqua come serpenti sibilanti. Donald ne guardò uno rallentare fino a fermarsi con uno stridore di freni bagnati. Non riconobbe l’uomo che scese tenendosi il soprabito sulla testa. Non era Mick.

«Sì, in pratica abbiamo finito, manca soltanto qualche ritocco qua e là. Hanno già colato i rivestimenti esterni, e i piani inferiori stanno per…»

«Intendevo se tu e lei avete finito di lavorare insieme…»

Donald diede le spalle al traffico per sentire meglio la moglie al cellulare. «Chi, Anna? Ma certo. Te l’ho spiegato. Ci siamo visti di persona poche volte. Perlopiù facciamo tutto via computer.»

«E ci sarà anche Mick?»

«Sì.»

Un altro taxi rallentò passandogli accanto. Donald si girò, ma l’auto proseguì per la sua strada.

«Okay. Non lavorare troppo. Ci sentiamo domani.»

«A domani. Ti amo.»

«Anch’io… Oh! Finalmente! Brava, Karma, brava…»

«Ti chiamo domani…»

Ma lei aveva messo giù. Donald fissò il cellulare prima di infilarlo in tasca rabbrividendo per il fresco della sera e l’umidità dell’aria. Si fece largo tra la folla davanti all’ingresso ed entrò.

«Tutto bene?» gli chiese Anna. Era seduta a un tavolo con tre coperti. Il maglione dall’ampia scollatura lasciava scoperta una spalla. In mano aveva il secondo bicchiere di vino, lo teneva per lo stelo delicato, una mezzaluna di rossetto rosa sul bordo. I capelli ramati erano legati in uno chignon, le lentiggini sul naso quasi invisibili dietro un sottile velo di trucco. Per quanto impossibile, sembrava ancora più bella che ai tempi del college.

«Sì, va tutto bene.» Donald fece ruotare la fede nuziale con il pollice, una sua vecchia abitudine. «Notizie di Mick?» Riprese il cellulare e controllò i messaggi. Pensò di mandarne un altro, ma ce n’erano già quattro senza risposta.

«Non ancora. Non partiva dal Texas stamattina? Forse il volo è in ritardo.»

Donald vide che il suo calice, quasi vuoto quando era uscito per la telefonata, era di nuovo pieno. Sapeva che a Helen non avrebbe fatto piacere scoprire che era con Anna, anche se non stavano facendo nulla di male. Tra loro due non sarebbe mai successo niente.

«Possiamo sempre rimandare» propose. «Non voglio escludere Mick.»

Lei posò il bicchiere e studiò il menu. «Tanto vale mangiare, già che siamo qui. È un po’ tardi per trovare un altro ristorante. E poi la logistica di Mick è indipendente dal nostro progetto. Possiamo inviargli il rapporto sui materiali più tardi.»

Anna si piegò di lato e frugò nella borsa, allargando pericolosamente la scollatura del maglione. Lui distolse subito lo sguardo, sentendo una vampata di calore sulla nuca. Lei estrasse il tablet e lo mise sopra la cartellina di Donald, mentre lo schermo prendeva vita.

«Per quanto riguarda i piani inferiori, mi pare che vada tutto bene.» Girò il tablet per fargli vedere. «Vorrei dare l’okay, così possono cominciare a disporre i piani successivi.»

«Be’, un sacco di quegli spazi sono roba tua» ribatté Donald, pensando agli apparati meccanici. «Mi fido del tuo giudizio.»

Prese il tablet, lieto che la loro conversazione fosse incentrata sul lavoro. Si sentiva un idiota per aver pensato che Anna potesse avere in mente altro. Si scambiavano email suggerendo migliorie ai reciproci progetti da ormai due anni, e non c’era mai stato nulla di sconveniente. Non doveva lasciarsi condizionare dall’ambiente, dalla musica e dalle tovaglie bianche.

«Purtroppo c’è un cambiamento dell’ultimo minuto che non ti piacerà» disse lei. «Il pozzo centrale va leggermente modificato. Ma credo che potremo ancora lavorare con lo stesso progetto generale. Non avrà alcun effetto sui vari piani.»

Donald scorse quei file così familiari finché individuò la differenza. Le scale di emergenza erano state spostate al centro del pozzo, che ora sembrava più piccolo perché non c’era più tutta la strumentazione con cui l’avevano riempito. Adesso c’era solo spazio vuoto, i dischi si erano trasformati in ciambelle, con quel buco al centro. Alzò lo sguardo dal tablet e vide che stava arrivando il cameriere.

«Niente ascensore?» Voleva essere sicuro di aver capito bene. Chiese dell’acqua e disse che gli serviva ancora un po’ di tempo per scegliere cosa ordinare.

Il cameriere fece un leggero inchino e si allontanò. Anna mise il tovagliolo sulla tavola e si spostò sulla sedia accanto.

«Il comitato ha detto che ci sono validi motivi per eliminarlo.»

«Il comitato medico?» Donald sospirò. Non ne poteva più di quella gente che continuava a immischiarsi con i suoi suggerimenti, ma aveva rinunciato a opporsi. Non serviva a nulla. «Non hanno pensato alle persone che rischiano di cadere oltre quelle ringhiere e spezzarsi il collo?»

Anna rise. «Lo sai che non si occupano di quel tipo di medicina. Loro pensano soltanto a cosa potrebbe succedere, da un punto di vista emotivo, se qualcuno restasse intrappolato lì dentro per qualche settimana. Vogliono che il progetto sia più semplice. Più… aperto.»

«Più aperto.» Donald ridacchiò e prese il bicchiere di vino. «E che cosa intendono con “intrappolato lì dentro per qualche settimana”?»

Anna si strinse nelle spalle. «Sei tu il funzionario pubblico. Dovresti saperne più di me su queste sciocchezze governative. Io sono solo una consulente, pagata per sistemare le tubature.»

Anna finì il vino e il cameriere arrivò con l’acqua e per prendere le ordinazioni. Anna inarcò le sopracciglia, un gesto familiare che celava una domanda: «Sei pronto?». Un tempo significava anche molto altro, pensò Donald mentre dava un’occhiata al menu.

«Che ne pensi di scegliere al posto mio?» disse infine, arrendendosi.

Anna ordinò e il cameriere annotò le sue richieste.

«Quindi adesso vogliono un’unica scala, eh?» Donald immaginò il cemento che sarebbe servito per una cosa del genere, poi pensò a un progetto a spirale in metallo. Più solido ed economico. «Possiamo tenere il montacarichi, giusto? Perché non lo spostiamo di lato e lo piazziamo qui?»

Glielo mostrò sul tablet.

«No. Niente ascensori. Lasciamo tutto semplice e aperto. Lo vogliono così.»

La cosa non gli piaceva. Anche se quella struttura fosse rimasta inutilizzata, dovevano costruirla nel modo giusto. Altrimenti perché prendersi la briga? Aveva visto un elenco parziale delle provviste che avrebbero immagazzinato all’interno. Trascinarle su per le scale sembrava impossibile, a meno che non avessero intenzione di disporle già ai vari piani prima che le sezioni prefabbricate venissero calate con la gru. Ma quello era più che altro il reparto di Mick. Uno dei tanti motivi per i quali si rammaricava che il suo amico non fosse lì in quel momento.

«Sai, è per questo che avevo chiuso con l’architettura.» Diede una scorsa ai progetti e vide tutti i punti in cui i suoi disegni erano stati modificati. «Ricordo il primo corso che seguii. Dovevamo incontrarci con dei finti clienti che avanzavano richieste impossibili o assolutamente stupide. O entrambe le cose. Fu allora che capii che non ero fatto per quel lavoro.»

«E ti sei dato alla politica.» Anna rise.

«Già. Hai ragione.» Donald sorrise, cogliendo l’ironia. «Ma d’altronde per tuo padre ha funzionato.»

«Mio padre entrò in politica perché non sapeva che altro fare. Dopo aver lasciato l’esercito, perse troppi soldi in una serie di imprese fallimentari e così decise che avrebbe servito il Paese in un altro modo.» Anna lo studiò per un lungo momento. «Questo è il suo lascito.» Si sporse in avanti e appoggiò i gomiti sul tavolo, un dito piegato con grazia sul tablet. «È una di quelle cose che tutti dicevano non sarebbe mai stata realizzata, e lui la sta trasformando in realtà.»

Donald mise giù il tablet e si appoggiò allo schienale della sedia. «Anche tuo padre non fa che ripetermelo. Che questo progetto è il nostro lascito. Gli ho detto che mi sento troppo giovane per lavorare al mio più grande successo.»

Anna sorrise. Bevvero entrambi un sorso di vino. Arrivò il cestino con il pane, ma nessuno dei due ne prese una fetta.

«A proposito di lasciti ed eredità» chiese lei, «c’è un motivo particolare per cui tu e Helen non avete figli?»

Donald rimise il bicchiere sulla tavola. Anna alzò la bottiglia, ma lui la fermò con un cenno della mano. «Non è che non li vogliamo. È che entrambi siamo passati direttamente dall’università al mondo del lavoro, capisci? Continuavamo a dirci…»

«Che avevate tutto il tempo di questo mondo, giusto? Che potevate aspettare. Che non c’era fretta.»

«No. Non è questo…» Passò i polpastrelli sul tavolo e sentì il tessuto liscio e costoso scivolare sull’altra tovaglia al di sotto. Finita la cena, una volta lasciato il locale, Donald immaginava che quello strato esterno sarebbe stato ripiegato e portato via con le briciole, rivelando lo strato sottostante. Come per la pelle. O il susseguirsi delle generazioni. Bevve un sorso di vino, il tannino gli intorpidiva le labbra.

«Io penso sia esattamente questo» insistette Anna. «Ogni generazione aspetta sempre più a lungo prima di premere il grilletto. Mia madre aveva quasi quarant’anni quando mi mise al mondo, e ormai è una cosa sempre più comune.» Si sistemò una ciocca ribelle dietro l’orecchio. «Forse crediamo tutti di poter essere la prima generazione che non morirà» proseguì, «che vivrà in eterno.» Inarcò le sopracciglia. «Ormai ci aspettiamo di arrivare a centotrent’anni, magari di più, come se fosse un nostro diritto. Quindi eccoti la mia teoria…» Si protese verso di lui. Donald era già a disagio per la piega che aveva preso quella conversazione. «Un tempo i figli erano il nostro lascito, giusto? La nostra occasione per imbrogliare la morte, per tramandare piccoli frammenti di noi. Ma adesso speriamo di poter semplicemente tramandare noi stessi.»

«Ti riferisci alla clonazione? È per questo che è illegale.»

«Non parlo di clonazione… E poi, anche se è illegale, sappiamo entrambi che la gente lo fa.» Sorseggiò il vino e indicò con un cenno del capo una famiglia in un séparé di fronte al loro. «Guarda. Ha preso tutto da papà.»

Donald seguì il suo sguardo e scrutò il ragazzino, rendendosi conto che quello era solo un esempio.

«E vogliamo parlare di mio padre?» chiese lei. «Con tutti quei trattamenti nanobiotici e le cellule staminali è convinto che vivrà in eterno. Sai che anni fa aveva comprato un sacco di azioni di una società per l’ibernazione?»

Donald rise. «L’ho sentito dire. E ho sentito anche che non andò molto bene. È da anni che cercano di ottenere qualche risultato…»

«E ci vanno sempre più vicino. Mancava soltanto un modo per rimettere in sesto le cellule danneggiate dal congelamento, e ora non sembra più così difficile, giusto?»

«Spero che la gente che desidera queste cose ottenga quello che vuole, ma su di noi ti sbagli. Io e Helen parliamo sempre di avere dei figli. Conosco persone che hanno avuto il primo a cinquant’anni. C’è tempo.»

«Mmm.» Anna bevve le ultime gocce rimaste nel bicchiere e sollevò la bottiglia. «Lo credi tu. Tutti pensano di avere tempo in abbondanza.» Lo fissò con i freddi occhi grigi. «Ma nessuno si ferma mai a chiedersi quanto esattamente gliene resti.»

Dopo cena aspettarono sotto il tendone l’autista di Anna. Donald rifiutò il passaggio, dicendole che doveva tornare in ufficio e che avrebbe preso un taxi. Il tamburellare della pioggia sul telo era cambiato, era diventato più lugubre.

L’auto di Anna, una Lincoln nera, arrivò nello stesso istante in cui il cellulare di Donald cominciava a vibrare. Lui frugò nella tasca della giacca mentre lei lo abbracciava e baciava sulla guancia. Malgrado l’aria fredda, Donald sentì una vampata di calore; vide che al telefono era Mick e rispose.

«Sei appena atterrato?» gli chiese.

Una pausa.

«Atterrato?» Mick sembrava confuso. Si sentivano rumori in sottofondo.

L’autista fece il giro della Lincoln per aprire la portiera ad Anna.

«Ho preso un volo notturno» disse Mick. «Sono arrivato stamattina presto. Sono appena uscito dal cinema e ho visto i tuoi messaggi. Che cosa è successo?»

Anna si girò e fece un cenno di saluto. Donald ricambiò.

«Sei uscito dal cinema? Abbiamo appena finito una riunione da De’Angelo. Te la sei persa. Anna ha detto di averti scritto due o tre email per avvisarti.»

Alzò lo sguardo verso la macchina proprio mentre la donna tirava dentro le gambe. Vide appena uno scorcio dei tacchi rossi, poi l’autista chiuse la portiera. Le gocce di pioggia sembravano piccoli gioielli sul vetro oscurato.

«Oh, non ci ho fatto caso. Forse sono finite nella posta indesiderata. Niente di grave, mi aggiornerai. A ogni modo, ho appena visto un film da sballo. Se io e te lo facessimo ancora, ti costringerei a fumare una canna per poi andare insieme allo spettacolo di mezzanotte. Sono strafatto…»

Donald guardò l’autista correre intorno alla macchina per salire a bordo e ripararsi dalla pioggia. Il finestrino dal lato di Anna si abbassò. Un ultimo saluto, poi l’auto si immise nel traffico.

«Già, be’, quei giorni sono passati da tempo, amico mio» replicò distrattamente Donald.

Un tuono rombò in lontananza. Un ombrello si aprì di scatto, un tizio si preparò ad affrontare la tempesta.

«E poi» aggiunse Donald, «certe cose è meglio lasciarle nel passato. Dove è giusto che siano.»

Shift trilogia 2
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