22
2110
Silo 1
Troy avanzò lungo la fila di capsule di ibernazione come se sapesse dove andare. Ma era stato solo il movimento casuale della mano sul pulsante a portarlo a quel piano. Su ciascuno di quei pannelli c’era un nome inventato. Questo lo sapeva, chissà perché. Ripensò a quando aveva scelto il proprio nome. Aveva a che vedere con sua moglie, era un modo per onorarla, o una specie di legame segreto da poter ricordare in futuro.
Ma tutto questo giaceva nelle fitte nebbie del passato, un sogno ormai dimenticato. Prima del suo turno c’era stato un orientamento. Con libri già noti da leggere e rileggere. Era stato allora che aveva scelto il nome.
Un’esplosione amara sulla lingua lo costrinse a fermarsi. Era il sapore di una pillola che si scioglieva. Troy tirò fuori la lingua e ci passò sopra le dita, ma non trovò nulla. Poteva sentire le ulcere sulle gengive, ma non riusciva a rammentare come se le era procurate.
Riprese a camminare. C’era qualcosa di sbagliato. Certi ricordi non sarebbero dovuti tornare. Rivide se stesso su una barella, urlante, mentre qualcuno lo legava e lo trafiggeva con degli aghi. Ma in realtà non era lui. Lui teneva bloccati i piedi di quell’uomo.
Troy si fermò davanti a una delle capsule e controllò il nome. Helen. Sentì un nodo allo stomaco e rimpianse di non avere le medicine. Non voleva più ricordare. Era questo l’ingrediente segreto: il desiderio di non ricordare. E quelle erano le parti che sfuggivano, le parti che il farmaco avvolgeva con i suoi tentacoli e trascinava sotto la superficie. Ma adesso una piccola parte di lui voleva disperatamente sapere. Un dubbio che lo tormentava, la sensazione di essersi lasciato dietro un pezzo importante della propria vita. Era disposto a sacrificare tutto il resto pur di avere delle risposte.
La brina sul vetro si staccò con un cigolio. Troy non riconobbe il volto all’interno e passò alla capsula successiva, mentre gli tornava alla mente una scena avvenuta prima dell’orientamento.
Ricordò la gente in lacrime nei corridoi, uomini adulti che piangevano, pillole che prosciugavano loro gli occhi. Nuvole terribili che si levavano su uno schermo. Le donne che venivano condotte in salvo. Come su una nave, prima le donne e i bambini.
Troy ricordò. Non era stato un incidente. Ripensò a un discorso fatto in un’altra capsula, una capsula molto più grande, con un altro uomo, un discorso sull’imminente fine del mondo, sulla necessità di fare spazio, sulla possibilità di provocare la fine prima che la fine arrivasse da sola.
Un’esplosione controllata. A volte si usavano le bombe per estinguere gli incendi.
Pulì un’altra lastra di vetro coperta di brina. La sagoma addormentata aveva le sopracciglia luccicanti per il ghiaccio. Non l’aveva mai vista prima. Andò avanti e all’improvviso gli tornò in mente tutto. I tremori erano svaniti, soltanto il braccio gli pulsava ancora.
Troy ricordò una calamità, ma era solo una messa in scena. La vera minaccia era nell’aria, invisibile. Le bombe servivano a far muovere la gente, a spaventare la popolazione, a far piangere e dimenticare. E tutti si erano riversati come biglie in un buco nella terra. No, non un buco: un imbuto. Qualcuno aveva spiegato loro perché erano stati risparmiati. Ricordò di aver camminato attraverso una nebbia bianca. La morte era già dentro di loro. Troy ricordò il sapore metallico sulla lingua.
Il ghiaccio sul pannello successivo era già stato smosso, qualcuno l’aveva pulito di recente. Perle di condensa distorcevano la luce come piccole lenti. Passò una mano sul vetro e capì cos’era successo. Vide la donna all’interno, con i capelli ramati che a volte portava legati in uno chignon. Quella non era sua moglie. Era una donna che avrebbe voluto esserlo, una donna che lo desiderava.
«Ehm… salve.»
Troy si girò verso la voce. Il dottore del turno di notte avanzava nella sua direzione, passando tra le file di capsule per raggiungerlo. Troy strinse forte la mano sul punto in cui gli pulsava il braccio. Non voleva che lo prendessero di nuovo. Non potevano costringerlo a dimenticare.
«Signore, lei non dovrebbe trovarsi qui.»
Troy non rispose mentre il medico si fermava ai piedi della capsula all’interno della quale giaceva addormentata una donna che non era sua moglie. Non era sua moglie, ma avrebbe voluto esserlo.
«Perché non viene con me?»
«Preferirei restare» rispose Troy. Provava una strana sensazione di calma. Tutto il dolore era stato strappato via. Era qualcosa di più forte dell’oblio. Ricordava ogni dettaglio. La sua anima si era liberata.
«Non posso lasciarla qui, signore. Venga con me. Si congelerà qui dentro.»
Troy abbassò lo sguardo. Aveva dimenticato di mettere le scarpe. Arricciò le dita per sollevarle dal pavimento… poi le rilassò di nuovo.
«Signore? La prego.» Il giovane dottore indicò la navata tra le file di capsule. Troy si tolse la mano dal braccio e vide che tutto andava come previsto. Niente clamore né proteste fisiche significava niente cinghie. Niente tremori significava niente aghi.
Udì un cigolio di scarponi nel corridoio. Sulla porta aperta si stagliò un imponente addetto alla sicurezza, senza fiato. Troy vide con la coda dell’occhio che il dottore faceva un cenno all’uomo, per rassicurarlo. Stavano cercando di non spaventarlo. Non sapevano che non aveva più paura di niente.
«Mi metterete fuori gioco una volta per tutte» disse Troy. Era una via di mezzo tra una domanda e un ordine. Era un momento di comprensione. Si chiese se avrebbe reagito come Hal – Carlton – se le pillole su di lui non avessero mai più fatto effetto. Lanciò un’occhiata in fondo alla stanza, sapeva che le capsule vuote erano lì. Ecco dove l’avrebbero seppellito.
«Con calma» replicò il dottore.
Portò Troy verso l’uscita; l’avrebbe sedato con quel lucente cielo azzurro. Le capsule sfilavano accanto ai due uomini che camminavano in silenzio.
L’addetto alla sicurezza, ancora fermo sulla soglia, fece un respiro profondo, il grande torace gonfiò il tessuto della tuta. Si sentì il cigolio di altri scarponi quando un collega lo raggiunse. Troy capì che il suo turno era finito. Due settimane prima del tempo. Ce l’aveva quasi fatta.
Il dottore fece cenno ai due energumeni di spostarsi, come augurandosi che non ci fosse bisogno di loro. Le guardie, però, sembravano pensarla diversamente, e presero posizione ai lati della porta. Troy venne condotto lungo il corridoio, guidato dalla speranza e affiancato dalla paura.
«Lei sa, vero?» chiese Troy al dottore, girandosi a studiarlo. «Lei ricorda ogni cosa.»
Il dottore non si voltò. Si limitò ad annuire.
Gli sembrò un tradimento. Non era giusto.
«Perché a voi è permesso ricordare?» chiese ancora Troy. Voleva sapere perché chi somministrava le medicine non doveva prenderle a sua volta.
Il dottore gli fece cenno di entrare nello studio. Lì c’era il suo assistente, che indossava una camicia da notte e reggeva tra le mani una sacca per flebo gonfia di un liquido azzurro.
«Alcuni di noi ricordano» spiegò il dottore, «perché sappiamo che quello che abbiamo fatto non è sbagliato.» Si accigliò mentre aiutava Troy a stendersi sulla barella. Sembrava dispiaciuto per la sua situazione. «Qui noi facciamo qualcosa di giusto. Stiamo salvando il mondo, non lo stiamo condannando. E la medicina cancella solo i rimpianti.» Alzò lo sguardo. «Ma alcuni di noi non ne hanno.»
La soglia dello studio era affollata. Traboccava di guardie. L’assistente aprì la tuta di Troy, che lo guardò come stordito.
«Ci vorrebbe un farmaco diverso per cancellare quello che sappiamo noi» disse il dottore. Prese una cartellina dalla parete. Assicurò un foglio di carta sotto la morsa della clip. Ci fu una pausa, poi Troy si vide mettere in mano una penna.
Rise mentre firmava il proprio modulo.
«Perché io?» domandò. «Perché sono qui?» Aveva sempre voluto chiederlo a qualcuno che avesse la risposta. Erano dubbi esistenziali da adolescente, ma ora c’era qualche possibilità di ottenere risposta.
Il dottore sorrise e prese la cartellina. Doveva avere meno di trent’anni, e aveva cominciato il suo turno da poche settimane. Troy era sulla soglia dei quaranta. Eppure quel giovane possedeva tutto il sapere, aveva tutte le risposte.
«È giusto che ci siano persone come lei al comando» replicò il dottore riappendendo la cartellina al gancio. Sembrava crederlo davvero.
Uno degli uomini della sicurezza sbadigliò e si coprì la bocca. Troy restò a guardare mentre la sua tuta veniva arrotolata fino alla vita. L’unghia di un dito fa un rumore inconfondibile quando batte su una siringa.
«Vorrei ripensarci un attimo» disse Troy. A un tratto era in preda al panico. Sapeva che era necessario, ma voleva qualche altro minuto per poter riflettere, per assaporare quel breve attimo di comprensione. Desiderava dormire, certo, ma non subito.
Gli uomini sulla porta si agitarono quando avvertirono i dubbi di Troy, potevano vedere la paura nei suoi occhi.
«Vorrei che ci fosse un’alternativa» ribatté tristemente il dottore. Gli posò una mano sulla spalla, lo fece stendere di nuovo. Le guardie si avvicinarono.
Troy sentì un pizzico al braccio, un morso senza alcun preavviso. Abbassò lo sguardo e vide l’arpione d’argento che affondava nella vena, il liquido azzurro iniettato dentro di lui.
«Non voglio…» cominciò.
Sentiva mani che premevano sulle tibie, sulle ginocchia, sulle spalle. Il peso che avvertiva sul torace dipendeva da qualcos’altro.
Un’ondata di bruciore gli attraversò tutto il corpo, subito sopita da una generale sensazione di ottundimento. Non lo stavano mettendo a dormire. Lo stavano uccidendo. Troy lo capì con l’improvvisa e rapida certezza con cui sapeva che sua moglie era morta, e che un’altra persona aveva provato a prenderne il posto. Adesso sarebbe finito davvero in una bara. E finalmente quel terreno ammucchiato sopra le loro teste sarebbe servito a qualcosa.
L’oscurità cominciò a infiltrarsi nella sua visuale. Chiuse gli occhi, cercò di urlare perché tutto finisse, ma non venne fuori nulla. Voleva scalciare e lottare, ma ora a trattenerlo non c’erano solo quelle mani. Stava affondando.
Gli ultimi pensieri furono per la sua bellissima moglie, ma non avevano alcun senso: era il mondo dei sogni che gli invadeva la mente.
Lei è nel Tennessee, pensò. Non sapeva come o perché avesse quella certezza. Ma lei era lì… e lo aspettava. Era già morta, con un posto scavato accanto a sé proprio per lui.
Troy aveva un’ultima domanda, un nome che sperava di trovare per potervisi aggrappare prima di sprofondare, una parte di sé da portare in quegli abissi. Ce l’aveva sulla punta della lingua come una di quelle pillole amare, così vicino che ne sentiva il sapore…
Ma poi dimenticò.