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Silo 1
Il malconcio vassoio in plastica di Troy scivolò al di là dello schermo di vetro coperto di schizzi. Dopo che ebbe passato il badge sullo scanner, una porzione prestabilita di fagiolini in scatola uscì da un tubo e formò una pila fumante nel piatto. Dal tubo successivo cadde una fetta di tacchino perfettamente rotonda, con le scanalature della lattina ancora visibili lungo i bordi. Alla fine della fila il purè di patate schizzò fuori da un altro tubo come una pallina di carta dalla cerbottana di un bambino. Poi fu la volta del sugo di carne, che produsse uno schiocco umidiccio ben poco appetitoso.
Dall’altro lato del bancone c’era un uomo robusto in tuta bianca, le mani unite dietro la schiena. Non sembrava interessato al cibo; era concentrato sui lavoratori in coda per il pasto.
Quando il vassoio di Troy arrivò in fondo al bancone, un ragazzo che non poteva avere più di vent’anni e indossava una tuta verde pallido dispose posate e tovaglioli accanto al piatto. C’era anche un vassoio pieno di bicchieri d’acqua, e il giovane gliene diede uno. Il passo finale era come una stretta di mano ritualizzata, che Troy ricordava bene dai mesi dell’orientamento: gli venne consegnato un bicchierino che conteneva una pillola, una piccola sagoma sfocata a malapena visibile attraverso la plastica opaca.
Troy avanzò strascicando i piedi.
«Salve, signore.»
Un sorriso giovanile. Denti perfetti. Tutti lo chiamavano «signore», anche quelli molto più vecchi di lui. Era sconcertante, al di là delle differenze di età.
La pillola ticchettò contro i bordi del bicchiere. Troy sollevò il coperchietto e deglutì. Inghiottì senza neanche un sorso d’acqua, afferrò il suo vassoio e cercò di sbrigarsi, di non intralciare la fila. Si guardò attorno e si accorse che l’uomo robusto lo stava osservando. Tutti parevano convinti che Troy fosse il capo, ma lui sapeva che non era così. Era solo uno dei tanti a fare quel lavoro, seguiva un copione. Trovò un posto libero rivolto verso lo schermo. Diversamente dal primo giorno, guardare il mondo riarso là fuori non gli causava più problemi. La Vista era diventata una sorta di strana consolazione. Creava un dolore sordo nel petto, ed era quasi come provare qualcosa.
Un boccone di purè e sugo di carne mandò via il sapore della pillola. L’acqua non bastava mai, non cancellava quel gusto amaro. Mangiando metodicamente, Troy guardò il sole che tramontava alla fine della prima settimana del suo primo turno. Altre venticinque settimane. In quei termini era più gestibile. Sembrava più breve che «mezzo anno».
Un signore anziano con una tuta gialla e i capelli radi gli si sedette di fronte, ma su un lato, per non ostruirgli la visuale. Troy lo riconobbe, gli aveva parlato una volta accanto al bidone per i rifiuti da riciclare. Quando l’uomo alzò lo sguardo, lui lo salutò con un cenno del capo.
Nella mensa echeggiava un piacevole brusio, mentre loro mangiavano. Sporadiche conversazioni che nascevano e morivano tra sussurri. Plastica, vetro e metallo segnavano i battiti di una melodia senza ritmo.
Troy guardò la Vista e sentì che c’era qualcosa che avrebbe dovuto sapere, qualcosa che continuava a dimenticare. Si svegliava ogni mattina intravedendo sagome familiari con la coda dell’occhio, sembrava che i ricordi fossero pronti a riaffiorare, ma poi arrivava l’ora della colazione e la memoria si indeboliva. A cena, quell’impressione era svanita del tutto, lasciandogli una tristezza, una sensazione di freddo, un vuoto nello stomaco diverso dalla fame, come quando da bambino non sapeva come passare il tempo nei giorni di pioggia.
L’uomo di fronte a lui si schiarì la voce. «Come vanno le cose?» domandò.
Gli ricordava qualcuno. La pelle coperta di macchie era floscia sul volto segnato dal tempo. Aveva il doppio mento, uno sgradevole lembo di pelle che penzolava dal pomo d’Adamo.
«Le cose?» ripeté Troy. E ricambiò il sorriso.
«In generale, intendo. Era così per dire. Io mi chiamo Hal.» Alzò il bicchiere. Troy fece altrettanto. Valeva quanto una stretta di mano.
«Troy» disse. Forse per qualcuno i nomi erano ancora importanti.
Hal fece un lungo sorso. Il collo ballonzolò su e giù quando deglutì rumorosamente. Troy bevve un goccio e si concentrò sul tacchino e i fagiolini.
«Ho notato che alcune persone ci si siedono di fronte, e altre di spalle.» Hal indicò dietro di sé con un secco scatto del pollice.
Troy osservò lo schermo. Masticò il cibo che aveva in bocca e non disse nulla.
«Io credo che chi si siede e guarda stia cercando di ricordare qualcosa» aggiunse Hal.
Troy ingoiò e si costrinse a fare spallucce.
«E quelli che non vogliono vedere…» proseguì Hal «immagino stiano facendo del loro meglio per dimenticare.»
Troy sapeva che non avrebbero dovuto fare una conversazione del genere, ma ormai era cominciata, e voleva vedere dove li avrebbe portati.
«Solo le cose brutte» continuò Hal, lo sguardo perso in direzione degli ascensori. «Ci hai mai fatto caso? Sono solo le cose brutte a svanire dalla memoria. I dettagli minori ce li ricordiamo bene.»
Troy non disse nulla. Infilzò i fagiolini, anche se non aveva intenzione di mangiarli.
«Ci sarebbe da porsi qualche domanda, no? Perché ci sentiamo così marci dentro?»
Hal finì il cibo, lo salutò con un silenzioso cenno del capo e si alzò. Troy era rimasto solo. Si ritrovò a fissare lo schermo, attanagliato da un dolore sordo che non riusciva a capire. Era quell’ora della sera in cui le colline stavano per sparire e scurirsi fino a confondersi con il cielo nuvoloso.