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2110
Silo 1
Troy era in ritardo. Il primo giorno del suo primo turno: c’era già un caos infernale, e per di più era in ritardo. Nella fretta di andarsene dalla mensa, di restare da solo, aveva preso per sbaglio l’ascensore normale, non l’espresso. Ora, mentre cercava di ricomporsi, gli sembrava che quel trabiccolo si fermasse a ogni singolo piano, per caricare o scaricare passeggeri.
Rimase in un angolo quando l’ascensore si bloccò ancora una volta, e un uomo entrò spingendo con qualche difficoltà un carrello pieno di scatole pesanti. Dietro di lui c’era un altro uomo, con un vassoio di cipollotti fumanti, che rimase accanto a Troy per diverse fermate. Nessuno parlava. Quando l’uomo con i cipollotti andò via, l’odore aleggiò a lungo nell’aria. Troy rabbrividì, un tremito violento gli percorse la schiena e le braccia, ma non ci fece caso. Scese al trentaquattresimo piano e cercò di ricordare perché si era sentito così sconvolto.
L’ascensore l’aveva lasciato in un corridoio stretto che lo incanalò verso alcuni tornelli. La disposizione del piano gli era familiare, eppure in qualche modo sconosciuta. Era inquietante notare i segni del tempo sulla moquette e le chiazze di acciaio scolorito al centro dei tornelli, dove le cosce dei passanti avevano sfregato anno dopo anno. Anni che per Troy non erano esistiti. Quelle tracce di usura e consunzione erano comparse come per magia, come lesioni subite in una notte di sbronze.
La guardia di turno sollevò gli occhi da quello che stava leggendo e lo salutò con un cenno del capo. Troy posizionò il palmo su uno schermo ormai offuscato dall’uso. Non si scambiarono una parola, niente chiacchiere o convenevoli, non c’erano le premesse per una conoscenza duratura. La luce verde sulla console si accese, la colonnina emise un rumore secco, e la sbarra mobile perse un altro po’ di patina quando Troy ci strusciò contro per passare.
Si fermò in fondo al corridoio e tirò fuori dal taschino i suoi ordini. Sul retro c’era un appunto del dottore. Troy girò di nuovo il foglio, poi ruotò la mappa per metterla nella giusta direzione; era abbastanza sicuro di conoscere la strada, ma continuava a sentirsi confuso.
Le linee rosse sulla piantina gli ricordavano i percorsi antincendio che aveva visto sulle pareti da qualche altra parte. Seguendo le indicazioni passò davanti a una fila di piccoli uffici. Ticchettio di tastiere, gente che parlava, squilli di telefono; i rumori di un posto di lavoro lo fecero sentire a un tratto esausto. E innescarono anche un’esplosione di insicurezza, l’idea di aver accettato un impiego del quale non era all’altezza.
«Troy?»
Si fermò e si voltò a guardare l’uomo fermo sulla soglia che aveva appena superato. Un’occhiata alla mappa gli disse che aveva quasi superato il proprio ufficio.
«Sono io.»
«Merriman.» Il tizio non gli porse la mano. «Sei in ritardo. Entra.»
Merriman si girò e sparì nell’ufficio. Troy lo seguì, le gambe dolenti per la camminata. Aveva riconosciuto quell’uomo, o così gli sembrava. Non sapeva se il ricordo risaliva all’orientamento o a qualche altra circostanza.
«Scusa per il ritardo» cominciò a dire. «Ho preso l’ascensore sbagliato e…»
Merriman alzò una mano. «Non ti preoccupare. Bevi qualcosa?»
«Mi hanno già dato da mangiare.»
«Certo.» Merriman sollevò un thermos trasparente dalla scrivania, pieno di un liquido azzurro, e ne bevve un sorso. Troy ripensò al saporaccio. L’altro, più anziano di lui, schioccò le labbra e sospirò mentre metteva giù il thermos. «Questa roba fa schifo» disse.
«Già.» Troy si guardò intorno, avrebbe lavorato lì per i sei mesi seguenti. Si rese conto che quel posto era un bel po’ più vecchio dell’ultima volta. E anche Merriman. Ma era difficile capire se i suoi capelli fossero diventati più grigi negli ultimi sei mesi, e in ogni caso aveva tenuto in ordine l’ufficio. Troy decise di riservare la stessa cortesia al tizio che sarebbe venuto dopo di lui.
«Ti ricordi quali sono i tuoi compiti?» Merriman stava rovistando tra alcuni faldoni sulla sua scrivania.
«Come se me li avessero detti ieri.»
Merriman alzò lo sguardo, un sorriso dipinto sul volto.
«Giusto. Be’, non è successo nulla di emozionante negli ultimi mesi. Quando ho iniziato il mio turno c’era qualche problema di tipo meccanico, ma l’abbiamo risolto. C’è un tizio, si chiama Jones, e ti conviene lavorare con lui. È sveglio da poche settimane, ed è molto più in gamba del suo predecessore. Una vera svolta, per me. Lavora giù al 68, alla centrale elettrica, ma se la cava ovunque lo piazzi ed è capace di riparare qualsiasi cosa.»
Troy annuì. «Jones. Okay.»
«Ottimo. Bene, ti ho lasciato qualche appunto in queste cartelline. Ci sono state alcune ibernazioni profonde, persone messe nel freddo eterno, che non faranno altri turni.» Sollevò gli occhi, questa volta con un’espressione più grave. «Non prendere questo provvedimento con troppa leggerezza, intesi? Un sacco di persone qui preferirebbero passare il tempo dormendo invece che lavorando. Ma tu ricorri all’ibernazione profonda solo se sei sicuro che non ci siano alternative.»
«Va bene.»
«Perfetto.» Merriman annuì. «Ti auguro un turno tranquillo. Mi devo sbrigare, prima che questa roba faccia effetto.» Bevve un’altra sorsata, e Troy sentì per empatia lo stesso saporaccio.
L’uomo gli passò accanto, gli diede una pacca su una spalla e fece per spegnere la luce. Si fermò all’ultimo momento, si girò, lo salutò con un cenno del capo e andò via.
E così, di punto in bianco, Troy era al comando.
«Ehi, aspetta!» Si guardò intorno, poi partì di corsa e raggiunse Merriman, che aveva già svoltato il corridoio verso l’uscita di sicurezza.
«Hai lasciato la luce accesa?» gli chiese Merriman.
«Sì, ma…» rispose Troy gettandosi un’occhiata alle spalle.
«Le buone abitudini» disse Merriman, agitando il thermos «è meglio prenderle da subito.»
Un uomo robusto uscì di gran carriera da uno degli uffici e li raggiunse affannosamente. «Merriman! Hai finito il turno?»
I due si strinsero la mano con calore. Merriman sorrise e annuì. «Esatto. Troy prenderà il mio posto.»
L’altro fece spallucce, senza presentarsi. «Io finisco tra due settimane» disse, come a spiegare la propria indifferenza.
«Ascolta, sono in ritardo» disse Merriman, lanciando a Troy un’occhiata con un accenno di biasimo. Mise il thermos tra le mani del suo amico. «Ecco. Puoi tenerti quel che ne rimane.» Si voltò e Troy lo seguì.
«No, grazie!» gli gridò dietro l’uomo robusto con una risata, scuotendo il thermos.
Merriman guardò Troy. «Scusa, hai qualche domanda?» Superò il tornello e i due passarono insieme. La guardia non alzò neppure lo sguardo dal suo taccuino.
«Qualcuna, sì. Ti dispiace se scendo con te? Mi sono perso un po’ di cose, all’orientamento. Promozione improvvisa. Vorrei chiarire alcuni aspetti.»
«Non te lo posso certo impedire. Ora comandi tu.» Merriman premette con forza il pulsante di chiamata per l’ascensore espresso.
«Insomma, io sono qui nel caso in cui qualcosa vada storto, giusto?»
Le porte dell’ascensore si aprirono. Merriman si voltò e lo scrutò a occhi socchiusi, quasi stesse cercando di capire se faceva sul serio.
«Il tuo lavoro è assicurarti che niente vada storto.» Entrarono entrambi, e l’ascensore cominciò la sua rapida discesa.
«Giusto. Ovviamente. È quello che intendevo.»
«Hai letto l’Ordine, no?»
Troy annuì. Ma non per questo lavoro, avrebbe voluto dire. Si era preparato per gestire un singolo silo, non quello che controllava tutti gli altri.
«Segui il copione. Di tanto in tanto ti arriveranno domande dagli altri silos. A me è sempre sembrato saggio dire il meno possibile. Stai zitto e ascolta. Tieni a mente che perlopiù si tratta di sopravvissuti di seconda e terza generazione, quindi il loro vocabolario è già un po’ diverso. C’è un foglio riassuntivo dei nuovi termini e un elenco di parole proibite, nella cartellina che ti ho lasciato.»
Troy ebbe un attacco di vertigini e quasi si accasciò a terra quando sentì il contraccolpo dell’ascensore che si fermava. Era ancora incredibilmente debole.
Troy seguì Merriman in uno stretto corridoio, lo stesso dal quale era uscito lui poche ore prima. Il dottore e il suo assistente aspettavano nella sala oltre la porta, preparando una flebo. Il medico guardò Troy con curiosità, come se non si aspettasse di rivederlo così in fretta, o di rivederlo in generale.
«Ha finito il suo ultimo pasto?» chiese il dottore, indicando uno sgabello a Merriman.
«Fino all’ultima, schifosissima goccia.» Merriman aprì la parte superiore della tuta e lasciò che gli scendesse fino in vita. Si sedette e allungò il braccio, con il palmo all’insù. Troy osservò la pelle biancastra, il groviglio di linee viola delle vene che si intrecciavano fin oltre il gomito. Badò bene a non fissare l’ago che entrava.
«Ti ripeto quello che ho già scritto negli appunti» gli disse Merriman, «ma ti conviene passare da Victor dell’ufficio servizi psicologici. È proprio di fronte alla tua stanza. In alcuni silos stanno succedendo cose strane, ci sono più rotture del previsto. Cerca di sistemare la questione per il tuo successore.»
Troy annuì.
«Dobbiamo portarla nella sua camera» intervenne il dottore. L’assistente gli si mise accanto, il camice di carta tra le mani. La procedura sembrava molto familiare. Il dottore squadrò Troy come se fosse una macchia da grattar via.
Lui uscì e si girò verso la sala del freddo eterno in fondo al corridoio. Lì tenevano le donne e i bambini, insieme agli uomini che non avevano retto al loro turno. «Le dispiace se…» Si sentiva fortemente attratto in quella direzione.
Il dottore e Merriman lo guardarono in cagnesco.
«Non è una buona idea…» obiettò il primo.
«Io non lo farei» aggiunse Merriman. «Ci sono andato un paio di volte, nelle prime settimane. È uno sbaglio. Lascia perdere.»
Troy continuava a fissare la sala. In ogni caso, non sapeva bene cosa avrebbe trovato lì dentro.
«Cerca di superare questi sei mesi» disse Merriman. «Passano in fretta. Passa tutto in fretta.»
Troy annuì. Il dottore lo cacciò con uno sguardo eloquente mentre Merriman cominciava a sfilarsi gli scarponi. Troy si voltò, diede un’ultima occhiata alla pesante porta in fondo al corridoio, poi si avviò dalla parte opposta, verso gli ascensori.
Si augurò che Merriman avesse ragione. Quando premette con forza il pulsante dell’ascensore espresso, provò a immaginare tutto il suo turno che gli scorreva davanti agli occhi. E quello seguente. Finché quella follia non avesse fatto il suo corso, senza mai curarsi di ciò che sarebbe successo dopo.