Giudici d’avanguardia

Vigneri e il narcotraffico

Le dichiarazioni di Joseph Valachi attirarono l’attenzione di un magistrato a Palermo, Aldo Vigneri, che maturò la consapevolezza – rivoluzionaria per l’epoca – di quanto l’attività delle famiglie mafiose andasse investigata su scala globale. Il magistrato si rese conto dell’urgenza di indagare sui rapporti tra la Cosa nostra americana e quella siciliana.

Attraverso le indagini mise nero su bianco come la Sicilia stesse diventando un epicentro del narcotraffico mondiale, ma dovette scontrarsi ancora con la tesi, assolutamente priva di fondamento, secondo cui, in virtù del fantomatico «codice d’onore» dei boss, Cosa nostra non si sporcava le mani con la droga.

Dopo aver studiato le carte riguardanti le testimonianze di Valachi, Vigneri espresse la volontà d’interrogarlo personalmente per raccogliere elementi utili a determinare i rapporti delle organizzazioni tra l’Italia e gli Stati Uniti.

La stampa americana seguiva da vicino il lavoro di Vigneri:

Un giudice italiano, che sta investigando sui legami emersi tra la mafia siciliana e Cosa nostra americana, ha ricevuto l’autorizzazione dal governo italiano a recarsi negli Stati Uniti per conferire con le autorità federali. La scorsa estate Vigneri ha emesso diciassette mandati di arresto nei confronti di presunti boss italiani e italoamericani. Secondo fonti di polizia altri sette mandati di cattura saranno emessi a breve. Undici persone coinvolte si trovano già in carcere a Palermo.1

E ancora:

Un giudice siciliano, che sta investigando sulle connessioni tra la mafia e la malavita americana, è arrivato la scorsa notte da Roma per confrontarsi con l’Fbi, la Narcotici e Joseph Valachi, una figura chiave nello svelare il sindacato criminale noto come Cosa nostra. Prima di lasciare Roma, il giudice Aldo Vigneri ha dichiarato che avrebbe interrogato Valachi, detenuto in una località segreta con la condanna pendente per il narcotraffico. Secondo un report dalla Sicilia, la polizia italiana ha arrestato mafiosi di spicco, lavorando con gli agenti americani della Narcotici e agendo sulla base delle informazioni precedentemente rilasciate da Valachi.2

L’istruttoria condotta da Vigneri, insieme ai rapporti della polizia italiana, si era avvalsa del lavoro della Commissione McClellan e aveva coperto un arco temporale di circa dieci anni, dal 1956 al luglio 1965:

L’istruttoria ha tratto origine da vari rapporti della Squadra mobile di Palermo, e dall’apporto integrativo della Guardia di finanza, redatti per la maggior parte nel 1965, e si è sviluppata collegando fatti, indizi, dichiarazioni, testimonianze verso la dimostrazione che gli indicati esponenti della mafia, anche quelli in precedenza non denunciati, avevano operato – soprattutto nel traffico di stupefacenti – in stretto collegamento con la mafia americana.3

Nell’ipotesi investigativa e accusatoria di Vigneri, i diciassette capi mafiosi imputati formavano il gruppo considerato il ponte criminale tra l’Italia e gli Stati Uniti:

È cominciato dinanzi alla prima sezione del Tribunale di Palermo il processo a carico di diciassette persone, tra le quali parecchi italoamericani accusati di avere organizzato traffici di stupefacenti tra la Sicilia e gli Stati Uniti d’America. I giudici palermitani sono chiamati a pronunciarsi sulle presunte responsabilità, tra gli altri, di Frank Garofalo, Frank Coppola di Partinico che per la squadra Narcotici americana e la Guardia di finanza italiana è uno dei più grossi spacciatori di stupefacenti. Giuseppe Genco Russo di Mussomeli è stato indicato come uno dei capi della mafia del dopoguerra, erede del defunto don Calogero Vizzini. Tutti costoro sono in carcere da tre anni. Altri imputati saranno processati in contumacia come Joe Bonanno, scomparso quattro anni fa mentre si recava a deporre davanti a una Corte federale americana.4

Vigneri chiese il rinvio a giudizio con l’accusa di associazione a delinquere e reati connessi al traffico di stupefacenti delle più alte gerarchie del crimine organizzato in Sicilia e negli Stati Uniti, a cominciare da Francesco Garofalo, alias Frank Carrol, nato a Castellammare del Golfo il 10 settembre 1901 e residente a Palermo, cittadino statunitense come altri tre imputati: Vincenzo Martinez, Rosario Vitaliti e Charles Orlando.

Garofalo era affiliato a una delle cinque grandi famiglie della mafia di New York, quella capeggiata da Giuseppe Bonanno, con la carica di consigliere. Nel luglio del 1957 era rientrato dagli Stati Uniti in Sicilia, stabilendosi a Palermo e assumendo il ruolo di collegamento tra le organizzazioni.

Nell’istruttoria del 31 gennaio 1966, il magistrato contestualizzò e spiegò la rilevanza internazionale dell’incontro tra capimafia che si era svolto a Palermo nel 1957:

Il 12 ottobre 1957 i capi delle famiglie di Cosa nostra provenienti dagli Stati Uniti s’incontrarono a Palermo nel lussuoso e centralissimo Hotel delle Palme con i capi della mafia siciliana. La riunione decise, nel quadro generale dei programmi criminosi di Cosa nostra, con l’avallo di Giuseppe Genco Russo, capo della mafia in Sicilia, di Salvatore Lucania, capo della famiglia Genovese, e di Santo Sorge, rappresentante del sindacato di Cosa nostra, la costituzione a Palermo di un gruppo operativo della famiglia Bonanno alle dirette dipendenze di Francesco Garofalo con la partecipazione della mafia di Partinico e di Castellammare del Golfo, particolarmente collegata alla famiglia di John Priziola e del Bonanno.5

Inoltre Vigneri stabilì la connessione tra le riunioni svoltesi negli Stati Uniti e il traffico internazionale di droga, seppure nel 1968 i boss imputati furono assolti. Ma se riuscì a provare lo spessore criminale e la pericolosità di Joe Bonanno, lavorò invano per portare in tribunale a Palermo a rendere testimonianza Valachi, di cui il boss di Castellammare del Golfo era stato il padrino.

Terranova arresta Liggio

La caratteristica di questi processi, come di tutti i processi mafiosi, è che non vi è mai una dichiarazione, non vi è mai nulla di positivo, di certo. La difficoltà del nostro lavoro consiste appunto nel distinguere, attraverso le ombre, le apparenze, ciò che vi è di solido e di consistente da ciò che è incorporeo.6

Il 22 aprile 1964, pochi mesi dopo le deposizioni pubbliche di Valachi, Cesare Terranova, giudice istruttore del Tribunale di Palermo dal gennaio del 1959, spiegò con queste parole chiare l’estensione del problema in sede giudiziaria.

Come il magistrato Vigneri, anche Terranova istruì a Palermo procedimenti complessi per associazione a delinquere soprattutto di natura mafiosa, durante i quali dimostrò estrema meticolosità nella raccolta delle prove, seppure fosse costretto ad affidarsi a modelli di indagine e strumenti ancora antiquati.

Nello stesso arco temporale in cui Robert Kennedy attuò negli Stati Uniti il primo programma organico di contrasto alla criminalità organizzata, in Sicilia Terranova sfidò, in anticipo sulla storia, il potere militare e la crescita esponenziale delle famiglie mafiose di Corleone. In tribunale parlò del pericolo costituito dal gruppo guidato da Liggio, nel quale erano in ascesa criminali che hanno segnato la vita della Repubblica, come Salvatore Riina e Bernardo Provenzano.

Dal 1960 al 1964 Terranova redasse 931 sentenze penali istruttorie, alle quali aggiunse le 293 del biennio 1965-1966. Particolarmente corpose furono quelle contro Angelo La Barbera+41, Pietro Torretta+120 e Luciano Liggio+114. Fece processare e condannare all’ergastolo quest’ultimo, latitante fino al 1974, per associazione a delinquere e per l’assassinio di Michele Navarra, così come La Barbera, Torretta e i latitanti Buscetta e Salvatore Greco.

Dichiarò a «Il Giornale di Sicilia»:

Paura? No. Nella peggiore delle ipotesi mi possono ammazzare. Sì, lo so che Liggio ce l’ha con me. È una vecchia storia: risale al tempo in cui lo feci arrestare. Lui mi ritiene responsabile esclusivo della sua fine. E in effetti è così.7

Liggio e Terranova si erano incontrati per la prima volta nel maggio del 1964 nel carcere dell’Ucciardone a Palermo. Per mantenere il prestigio di fronte agli altri detenuti, il capomafia pretendeva che il giudice lo raggiungesse in cella per l’interrogatorio:

Andai in carcere e lo feci chiamare. Non venne. Una volta accertato che quella mattina era uscito per l’ora d’aria, e che non aveva malanni, incaricai le guardie di condurlo in ufficio con le buone o con la forza.8

La Commissione sul fenomeno della mafia in Sicilia

Nel settembre del 1963 Kennedy, avvalendosi della collaborazione di Valachi, aveva spiegato dinanzi alla Commissione McClellan il grado d’influenza del crimine organizzato nella società americana. Sette mesi dopo, Terranova, in solitario, fece lo stesso in Italia, nel corso di una fondamentale audizione presso la Commissione d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia. Esattamente come il procuratore generale americano, il giudice istruttore italiano cominciò con il dire che «l’entità del fenomeno è notevole».9

Nei rispettivi interventi entrambi evidenziano la caratterizzazione e la specificità di tale associazione per delinquere, che appare come «una forza corrosiva e disgregatrice delle istituzioni, un vero potere occulto in antagonismo con quello dello Stato, un vero e proprio cancro sociale, le cui profonde infiltrazioni nei più diversi settori della vita pubblica ed economica sono solo in minima parte documentate dalle risultanze processuali».10 Allo stesso modo, entrambi si trovano davanti alla difficoltà di riconoscere la mafia come organizzazione strutturata e di reggere alla prova dei procedimenti in tribunale. Nelle sentenze, Terranova la definisce una criminalità organizzata, articolata in famiglie o meglio ancora cosche, e sottolinea l’unitarietà della mafia, né vecchia né giovane, in quanto associazione delinquenziale.

«La mafia a Palermo si occupa anche della vendita dei fiori» asserì Terranova, per poi descrivere le fonti di arricchimento illecito, indicando nel traffico di stupefacenti e nelle estorsioni le più fruttuose.11 Illustrò gli interessi mafiosi nel reinvestire il ricavato in speculazioni industriali e commerciali, specificando come l’edilizia fosse il settore che attirava i maggiori interessi per l’investimento del denaro sporco.

Infine ribadì il suo rifiuto della concezione culturalista della mafia:

Non bisogna ricadere nel vecchio errore di adombrare una concezione razzista della mafia, quasicché la mafia esiste in Sicilia perché esistono i siciliani.12

Sollecitato da Girolamo Li Causi, segretario del Pci siciliano e vicepresidente della commissione d’inchiesta, Terranova affrontò senza indugi il nodo del rapporto tra mafia e politica:

Non c’è dubbio che il mafioso è portato ad appoggiarsi al politico; anzi una delle forze del mafioso consiste in questo appoggiarsi al potere costituito.13

Nella sua ottica, per dare un apporto concreto alla lotta contro la mafia, era indispensabile ripristinare la fiducia nelle istituzioni, cominciando dall’allontanamento dai posti di potere di coloro che erano stati in qualche misura compromessi o invischiati con la mafia.14

Anche l’omertà dipendeva in larga parte dalla compromissione delle istituzioni pubbliche:

Da che cosa deriva l’omertà? Forse ci saranno anche delle spiegazioni etiche, storiche, ambientali, ma molto incide la scarsa fiducia che il cittadino ha dei pubblici poteri.15

Se Kennedy considerò la collaborazione e il coordinamento tra le agenzie investigative un cardine dell’attività antimafia, Terranova segnalò ai parlamentari le carenze e i ritardi italiani:

Purtroppo da noi le polizie – questo è un fatto notorio – agiscono indipendentemente l’una dall’altra: Carabinieri, Finanza, Pubblica sicurezza. Non c’è un organo superiore che le coordina e questo, naturalmente, procura tanti inconvenienti. La collaborazione dipende spesso dai rapporti personali tra i dirigenti locali e dai rapporti che si creano con l’Autorità giudiziaria, la quale nominalmente dirige la Polizia giudiziaria.16

Il giudice intuì quanto nella strategia di repressione del contagio mafioso fosse necessario colpire le ricchezze accumulate dai boss:

Il sistema più efficace per stroncare o, quanto meno, per scoraggiare concretamente le attività delinquenziali delle organizzazioni criminose e in particolare delle associazioni di tipo mafioso è, indubbiamente, quello di colpire i patrimoni del delitto mediante il sequestro e la confisca dei beni di illecita provenienza.17

Il compimento del dovere fino al sacrificio

Terranova era un intellettuale borghese in rivolta contro la concezione clientelare e mafiosa del potere, alla quale non si rassegnava. Dopo la partecipazione alla guerra e gli studi in Giurisprudenza, prese le funzioni giudiziarie, era stato destinato alla Pretura di Messina. Alle elezioni del 7 maggio 1972, dopo la richiesta di collocamento in aspettativa dalla magistratura per mandato parlamentare, su invito di Emanuele Macaluso si era candidato ed era stato eletto come indipendente di sinistra nelle liste del Pci.

In un’intervista a «L’Ora», sette mesi dopo la sua elezione, aveva esternato il disincanto verso l’esperienza parlamentare:

Il primo contatto con il Parlamento fu per me molto deludente. Avevo la sgradevole sensazione dell’inutilità. Un’impressione iniziale deludente che si prolunga sulla Commissione. […] Mi aspettavo un ritmo di lavoro piuttosto serrato, sollecito. Penso che questa commissione funziona da ben nove anni, ma non può dirsi che abbia se non in piccola parte corrisposto all’attesa dei cittadini. Si procede in modo dispersivo.18

Anni dopo, questa insoddisfazione si sarebbe concretizzata nel voto contrario di Terranova alla relazione della Commissione d’inchiesta sul fenomeno della mafia. La critica sostanziale, mossa ai lavori in sede parlamentare, consisteva nel non aver adeguatamente trattato la compenetrazione tra il sistema di potere mafioso e l’apparato statuale-politico:

Certi nodi, certi confusi e loschi grovigli, certi rapporti sono stati appena sfiorati dalla Commissione, pur rappresentando l’essenza della mafia, l’elemento fondamentale che vale a differenziare la mafia da ogni altro tipo di delinquenza associata.19

Terranova stimava l’acutezza delle analisi e delle indagini di Giorgio Boris Giuliano, capo della Squadra mobile palermitana, che erano giunte fin dentro le banche. Giuliano aveva chiesto di essere trasferito a Palermo, indignato dall’efferatezza della strage di Ciaculli del 1963, in cui avevano perso la vita sette membri delle forze dell’ordine. Specializzatosi all’Accademia dell’Fbi a Quantico, aveva esperienza internazionale. Aveva mappato il territorio attraverso i pedinamenti estenuanti dei suoi uomini sulla strada senza ausili tecnologici, creato un vasto archivio per schedare le famiglie mafiose e risalire ad alleanze e ostilità. Si era messo in testa di risolvere i casi Mario Francese e Mauro De Mauro. Era stato freddato il 21 luglio 1979, dieci giorni dopo l’avvocato Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della Banca privata italiana, finita in dissesto nelle mani di Michele Sindona. Quell’anno tragico e spartiacque si era aperto con gli omicidi proprio del giornalista Francese e del segretario provinciale della Democrazia cristiana Michele Reina. Usando le parole di Leonardo Sciascia, l’assassinio di Boris Giuliano aveva marcato una svolta: il vantaggio per la mafia della sua eliminazione era più forte del rumore suscitato da un delitto eccellente, poiché lasciava un vuoto incolmabile.

A proposito della loro fine Sciascia scrisse:

Questa catena di delitti nasce dal fatto che la caduta dello spirito pubblico investe le istituzioni, quando da esse non diparte, a tal punto che fra gli individui preposti a sorreggerle, che scelgono di sorreggerle, coloro che inflessibilmente e fino in fondo vogliono compiere il loro dovere restano come segnati, segnalati, come isolati.20

Dopo il secondo mandato parlamentare, Terranova decise di non ricandidarsi alle elezioni politiche del giugno 1979, chiedendo di tornare in magistratura e in prima linea sul fronte palermitano. Fu ucciso il 25 settembre 1979, una volta lasciato il Parlamento, prima che potesse indossare di nuovo la toga all’Ufficio istruzione. Il 10 luglio il Csm lo aveva nominato consigliere di Corte d’appello a Palermo. Il suo fu un vero e proprio omicidio preventivo, di modo che non riversasse sulle indagini l’imponente conoscenza del fenomeno mafioso da lui maturata.

Sciascia si soffermò su questo aspetto del delitto Terranova:

Fu assassinato prima che tornasse al suo ufficio di magistrato: nella certezza che a Palermo, nell’amministrazione della giustizia, vi sarebbe stato un nemico accorto e implacabile della mafia; e, per di più, un nemico che aveva acquisito una visione del fenomeno in tutta la sua complessità, in ogni sua diramazione.21

Per poi restituire la statura e l’equilibrio del giudice, nonché il sentimento più forte che lo animava, la compassione:

E molti giudici si possono ricordare duri a misura di giustizia, ma pochissimi credo capaci di patire con quei che patiscono.22

L’unica forma di protezione garantita a un uomo esposto alla minaccia mafiosa, qual era Terranova, era stato l’autista e scorta, nonché amico fidato, Lenin Mancuso, che fu ucciso con lui nell’agguato nel centro di Palermo. In un’intervista a «Il Diario», pubblicata due giorni prima, Terranova aveva indicato la nuova linea intrapresa dal crimine organizzato:

La più grossa connotazione che io darei alla mafia oggi è quella degli appalti. L’appalto delle grandi opere pubbliche e quanto c’è dietro. L’argomento più interessante destinato a svilupparsi negli anni futuri.23

Il presidente della Repubblica Sandro Pertini, in una lettera indirizzata al Csm, descrisse Terranova come un incorruttibile servitore dello Stato repubblicano. Ed evidenziò un passaggio, confermato dolorosamente dal tempo e dagli eventi:

Queste vite di assoluta dedizione al dovere sono pienamente conosciute e comprese dal nostro popolo solo nel momento del sacrificio.24

Chinnici, padre del pool antimafia italiano

I magistrati Cesare Terranova e Rocco Chinnici si incontrarono per la prima volta nel maggio del 1963. Il padre del futuro pool antimafia italiano era agli inizi della carriera, e vedeva nel collega, all’apice dell’impegno, un modello al quale ispirarsi:

All’inizio, da modesto pretore, avevo seguito attraverso la stampa l’opera tenace e coraggiosa di Terranova. Nutrivo per lui sincera ammirazione. Poi a Palermo, nello stesso ufficio, ci fu un rapporto di cordialità e amicizia. Non esitavo a chiedere qualche consiglio. È stato uno dei migliori magistrati che abbia conosciuto. È nostro dovere continuare l’opera per giustizia e civiltà.25

Chinnici sviluppò le tracce importanti impresse da Terranova. Nella sua azione vi furono senz’altro tre cardini essenziali: il riconoscimento della specificità del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, l’indagare e colpire gli ingenti patrimoni illeciti accumulati dalla mafia, la necessità di misurarsi a livello globale con il traffico di stupefacenti. Con lui il lavoro di magistrato accrebbe nella sua dimensione pubblica. Parlare e descrivere, soprattutto ai giovani, la pericolosità dell’acuirsi del fenomeno mafioso rientrava tra le sue priorità.

Nella splendida prefazione di una raccolta di scritti e testimonianze del giudice palermitano, Paolo Borsellino ne evidenziò la determinazione nel definire l’organicità dell’associazione:

Gli era così chiara l’unitarietà e l’interdipendenza fra tutte le famiglie mafiose e palese la connessione fra tutti i loro principali delitti (concetti che oggi fanno parte del patrimonio comune di chiunque si occupi di criminalità mafiosa, sebben talune poco convincenti decisioni della Cassazione li abbiano posti recentemente in dubbio) che a lui risalgono la paternità o almeno l’ispirazione dei primi provvedimenti di riunione delle istruttorie sui grandi delitti di mafia. Era convinto che solo con un grande sforzo, inteso ad affrontare unitariamente l’esame del fenomeno, cercando di cogliere tutte le interconnessioni fra i grandi delitti, fosse possibile fare chiarezza su di essi. […] All’inizio del decennio era già difficile fare accettare il concetto dell’esistenza stessa della mafia, spesso definita, e anche in sede autorevole, «volgare delinquenza», ed è merito di Chinnici in prima linea l’averne intuito la profonda essenza.26

Tra le richieste di Chinnici ci fu l’adozione di uno degli strumenti voluti dal procuratore generale Kennedy poco dopo l’insediamento:

È necessario istituire la banca dei dati, ed è questa una drammatica urgenza che abbiamo rappresentato anche al capo dello Stato proprio in occasione dei funerali del povero Ciaccio Montalto. Questo centro di raccolta delle informazioni deve metterci in condizione di sapere istantaneamente chi sono i personaggi implicati nei vari delitti mafiosi e quali eventuali collegamenti possano esserci tra di loro.27

Chinnici auspicava una legge sui collaboratori di giustizia con misure premiali per il mafioso che fornisse un contributo valido ed effettivo. Tutti elementi che sono stati parte del metodo costruito negli anni Sessanta nel dipartimento di Giustizia americano. L’idea senz’altro chiave fu la costituzione di un gruppo di procuratori e autorità investigative specializzate nelle indagini sulla criminalità organizzata di natura mafiosa.

Il magistrato, a capo della struttura giudiziaria in prima linea a Palermo sul fronte della repressione del fenomeno, immaginò e concepì quello che, sotto la direzione di Antonino Caponnetto, sarebbe diventato, quasi due decenni dopo l’intuizione di Robert Kennedy, il pool antimafia italiano.

Paolo Borsellino ne rievocò così la genesi:

Uno per uno ci scelse noi magistrati che solo dopo la sua morte avremmo costituito il cosiddetto «pool antimafia». Ci prospettò lucidamente le difficoltà e i pericoli del lavoro che intendeva affidarci, ci assistette e ci spronò a superare diffidenze e condizionamenti: poiché allora, con carica non meno insidiosa dell’arrogante tracotanza di oggi, così si manifestavano gli ostacoli frapposti dalla «palude» al nostro lavoro.28

E sottolineò come, al pari dei tre i principi riscontrabili anche nell’attività dell’Organized Crime and Racketeering Section, per Chinnici era essenziale la scelta degli uomini e l’instaurarsi fra loro di uno stretto rapporto di collaborazione e condivisione delle informazioni:

Chinnici credeva fermamente nella necessità del lavoro di équipe e ne tentò i primi difficili esperimenti, sempre comunque curando che si instaurasse un clima di piena e reciproca collaborazione e di circolazione di informazioni fra i «suoi» giudici. Per suo merito, nell’estate del 1983, si erano realizzate, pur nell’assenza di un’idonea regolamentazione legislativa, ancora oggi mancante, tutte le condizioni per la creazione del pool antimafia, che, infatti, subito dopo fu possibile realizzare sotto la direzione di Antonino Caponnetto, il quale continuò meritoriamente l’opera di Rocco Chinnici e ne realizzò il disegno.29