Trent’anni di storia criminale

La mappa delle famiglie

Valachi spiegò a Flynn che la Commissione, l’organo che sovrintendeva Cosa nostra, aveva il compito di mantenere l’azienda in «buona forma»: una definizione significativa, che raffigurava bene l’evoluzione dell’organizzazione mafiosa. Durante le audizioni della Commissione McClellan, una domanda ricorreva spesso: «Lei sa qual è l’attività apparentemente legittima degli imputati?». Questo perché Cosa nostra aveva una mentalità imprenditoriale e i suoi boss volevano accreditarsi come rispettabili uomini d’affari perfettamente integrati nella società, tutt’altro dunque che corpi estranei. La natura dell’organizzazione era deducibile solo dalle molteplici relazioni che intratteneva con gli altri poteri.

Valachi disegnò la struttura organizzativa, la suddivisione delle famiglie che amministravano il territorio e la rigida gerarchizzazione della catena di comando dal capo ai soldati. Inoltre illustrò la flessibilità, tuttora peculiare, delle associazioni di stampo mafioso, capaci di interpretare il proprio tempo, mutare pelle ed evolvere per intercettare i business più redditizi.

Come avrebbe spiegato molti anni dopo Giovanni Falcone, parlando di mafia non ha senso usare l’aggettivazione «vecchia» e «nuova»:

La mafia si caratterizza per la sua rapidità nell’adeguare i valori arcaici alle esigenze del presente, per la sua abilità nel confondersi con la società civile, per l’uso dell’intimidazione e della violenza, per il numero e la statura criminale dei suoi adepti, per la sua capacità di essere sempre diversa e sempre uguale a sé stessa. […] È necessario distruggere il mito della presunta nuova mafia o, meglio, dobbiamo convincerci che c’è sempre una nuova mafia pronta a soppiantare quella vecchia. […] Tutte le volte che Cosa nostra si converte ad attività più redditizie e sale il livello di pericolo sociale da essa rappresentato, non si sa far altro che parlare di nuova mafia. […] Non si è compreso, non si è voluto comprendere che dalla strage di Portella della Ginestra al controllo di gran parte del traffico mondiale di eroina destinata agli Stati Uniti vi è sempre stata una sola e unica mafia.1

Nella narrazione di Valachi, New York rappresentava il cuore nevralgico dell’organizzazione mafiosa. Nell’audizione del 2 ottobre 1963, sollecitato dalle domande del senatore Adlerman, scandì pubblicamente i nomi delle cinque famiglie: Genovese, Gambino, Bonanno, Colombo e Lucchese.

Nel corso della stessa seduta, venne chiamato a deporre anche l’ispettore della polizia di New York John Shanley:

D: Lei ha nominato le cinque famiglie come descritto e identificato dal testimone Valachi. Costituiscono una parte fondamentale della criminalità a New York?

R: Sì.2

La testimonianza di Shanley cominciò con l’illustrazione dell’organigramma dal vertice alla base della famiglia Genovese, che con i suoi effettivi aveva collezionato 1064 arresti, tra cui una significativa percentuale per reati connessi al narcotraffico.3

La ricostruzione della struttura e la conferma degli appartenenti erano il risultato della condivisione di informazioni tra le agenzie investigative, supportate dal riscontro determinante di Valachi, come ribadì Shanley:

È la mappa più accurata che siamo riusciti ad assemblare negli anni. Per la prima volta nella nostra esperienza, un uomo ci ha portato alla genesi dei fatti, ha mostrato l’architrave dell’organizzazione e la successione interna. Valachi ha classificato con precisione la posizione degli affiliati nella scala gerarchica delle famiglie di Cosa nostra. È un’acquisizione fondamentale in termini d’intelligence, che ci permette di ricalibrare gli obiettivi investigativi e portare il fenomeno all’attenzione dell’opinione pubblica. […] Senza la sua testimonianza sarebbe stato impossibile farlo.4

Gaffney, l’uomo della Narcotici che aveva contribuito alle due condanne per narcotraffico di Valachi, era sulla stessa lunghezza d’onda di Shanley:

La testimonianza di Valachi è andata ben oltre le nostre conoscenze del fenomeno. Ci ha dato un’enorme quantità di informazioni per l’attività di intelligence, mentre avevamo solo una serie di teorie. Ci ha fornito la corretta interpretazione di molti eventi, risalendo all’inizio degli anni Trenta. Sono abbastanza disturbato dalla lettura di articoli che tendono a screditare il valore delle sue parole. Posso solo dire che noi siamo rimasti impressionati. Ha corroborato molte cose che già conoscevamo e ha chiarito aspetti per noi oscuri. L’opinione è condivisa dalle altre agenzie investigative. Per aggredire un problema è fondamentale avere la piena consapevolezza di quanto sia diffuso. Penso sia uno dei contributi maggiori che Valachi abbia dato.5

Il procuratore generale Kennedy aprì i lavori della Commissione McClellan con una lunga dichiarazione, che avvalorò le testimonianze rese da Valachi e quasi sempre confermate dall’autorità investigativa:

Le sue rivelazioni sono importanti poiché nel mettere insieme un mosaico, ciascuna tessera che lo compone ci dice qualcosa del quadro nel suo complesso e ci permette di stabilire ulteriori connessioni.6

In diverse fasi dei colloqui non mancarono i momenti di sconforto. Valachi sembrava mettere in guardia Flynn su come fosse difficile estirpare alla radice il fenomeno mafioso:

A che cosa serve ciò che stiamo facendo? Nessuno ci darà retta. Nessuno crederà e reagirà. Questa Cosa nostra è come un secondo governo che sta diventando troppo potente e, una volta che si sarà radicato, diventerà impossibile da sconfiggere.7

Dalle deposizioni di Valachi, Cosa nostra emergeva come un’organizzazione oligarchica, longeva e impunita. Su cui aleggiava il mito della presunta inscalfibilità dei boss.

Ascesa e caduta di Vito Genovese

La figura e il potere di Vito Genovese, nato nella periferia di Napoli e arrivato a sedici anni nel Greenwich Village di New York, furono al centro del contributo di Valachi, che diede la misura dell’influenza del capo:

La giurisdizione di Genovese non si limita solo alla nostra famiglia. Genovese ha il potere di decretare la morte di qualcuno, qualora intenda liberarsene. Non c’è nessuno che possa metterlo in discussione. La sua influenza non è stata ridotta dalla detenzione.8

Genovese, cresciuto nel sodalizio criminale con Luciano, faceva rumore. Esercitava una potenza distruttiva che, come avvenuto spesso nella storia di Cosa nostra, a lungo termine si rivelò dannosa, perché espose l’organizzazione alla ribalta mediatica e alla reazione delle autorità statuali. Con il meeting di Apalachin, Genovese, che ambiva a diventare il Capo dei capi, finì per mobilitare l’apparato dell’Fbi. La sua volontà di punire Valachi e la sentenza emessa nei suoi confronti convinsero quest’ultimo a collaborare e consentirono alle autorità di ricostruire la storia di tre decadi di Cosa nostra, a partire dall’evento cruciale della Guerra castellammarese, che nel 1930 ne aveva delineato la struttura.

Il detective Shanley, ripercorrendo l’ascesa di Genovese, spiegò il gioco di sponda del boss:

Genovese, nato in Italia nel 1897 e giunto nel 1913 negli Stati Uniti, è l’apice della famiglia. È noto anche come «Don Vitone». Attualmente è detenuto per traffico di droga. Gestiva il gioco d’azzardo e praticava l’usura. Il primo arresto risale al 1917 per porto abusivo d’armi. È stato naturalizzato cittadino americano nel 1936 e nel 1953 gli è stata tolta la cittadinanza con un provvedimento d’espulsione non andato a buon fine.9

Shanley si soffermò anche sui legami di Genovese con il fascismo e sul suo coinvolgimento nell’assassinio dell’editore antifascista e sindacalista anarchico Carlo Tresca, commesso a New York nel 1943.

Nel 1937 Genovese, temendo l’arresto e il processo, era fuggito in Italia dove aveva trovato terreno fertile per i propri affari, grazie alla rete di relazioni intessuta col potere. Benito Mussolini lo aveva decorato con il massimo riconoscimento per un cittadino, nominandolo commendatore.

Durante la Seconda guerra mondiale Genovese si era occupato su larga scala del mercato nero in tutto il Meridione d’Italia: godeva di amicizie di alto livello dentro il governo militare alleato. La Seconda guerra mondiale aveva aperto a Cosa nostra immense opportunità d’infiltrazione e affari.

Lo stesso Valachi, entrando nel mercato nero delle tessere usate per il razionamento di carburante e altri beni di consumo, deciso dal governo statunitense, aveva ottenuto profitti considerevoli tra il 1942 e il 1945. Valachi indicò nel boss Carlo Gambino il magnate del mercato nero che aveva permesso alla famiglia di intascare milioni di dollari con il commercio clandestino delle tessere. Nel 1963 Valachi svelò i rapporti intercorsi tra i Gambino e l’Office of Price Administration, l’agenzia governativa che gestiva il programma di razionamento e la distribuzione delle tessere.

Nella vicenda giudiziaria di Genovese era apparso significativo il ruolo del sergente della Criminal Investigation Division Orange Dickey, che aveva indagato sul passato del boss, nello specifico sull’omicidio Boccia, e ne aveva ordinato l’arresto in Italia e l’estradizione negli Stati Uniti.10 Il governo militare alleato aveva esercitato pressioni fortissime su Dickey, affinché archiviasse la vicenda Genovese, e lo aveva isolato. Il boss aveva tentato di corrompere il militare ventiquattrenne con una ricca tangente:

Lei è giovane. Così va il mondo. Prenda i soldi e si sistemerà per tutta la vita. Quello che lei fa non importa a nessuno. Perché vuole farlo?11

Dickey non aveva ceduto. Nel maggio del 1945 si era occupato del ritorno di Genovese negli Stati Uniti. Un anno dopo, con un sorriso di scherno, il boss aveva eluso il processo Boccia. Come raccontò Valachi davanti alla Commissione McClellan, il testimone fondamentale di quel giudizio, Peter LaTempa, era stato avvelenato in carcere da Cosa nostra. Il 17 aprile 1959 Genovese fu invece condannato a quindici anni per traffico di eroina.

L’affiliazione di Valachi

Flynn e Valachi ricostruirono trent’anni di storia criminale, risalendo fino al 1930.

L’iniziazione di Valachi era avvenuta nel pieno della Guerra castellammarese, che in quell’anno aveva insanguinato le strade americane, disegnando la struttura e gli equilibri di potere interni a Cosa nostra. L’ingresso formale di Valachi nell’organizzazione aveva avuto luogo in una casa a novanta miglia da New York, nelle settimane più cruente della guerra di mafia.

Nel memoriale The real thing, Valachi rievocò le sollecitazioni dei compagni di strada che lo avevano spinto a entrare dentro Cosa nostra e a fare un salto di qualità nella sua carriera criminale:

So che prima o poi ti assocerai con qualcuno. Odio vederti ancora vivere di rapine. Ti conosco da bambino e ti ho sempre visto sulla 107ª strada. Tutti hanno smesso di rubare, mentre tu sei nella stessa situazione.12

Valachi giunse alla medesima conclusione:

«Dopotutto è il momento di cambiare. Non posso continuare con le rapine» gli ho risposto.13

Una volta assoldato nel gruppo di fuoco del capomafia Maranzano, Valachi era pronto per diventare un componente di Cosa nostra:

Si combatteva ferocemente, come se non avessimo niente da perdere: eravamo pronti a morire. In quella fase tutti i ragazzi erano affiliati e mi spiegarono come stessi per diventarlo.14

Secondo il racconto di Valachi, Buster, killer di primo piano nella Guerra castellammarese, lo presentò a Salvatore Maranzano per la prima volta nella casa newyorkese in cui convennero circa quaranta persone, tra cui alcuni boss di spicco: Tom Gagliano, Joe Profaci, Tom Lucchese, Joe Bonanno, Dominick Petrilli detto Gap, mentore di Valachi, e Salvatore Schillitani. Maranzano fece accomodare Valachi alla sua destra. La cerimonia d’affiliazione entrò nel vivo dopo il pranzo a base di spaghetti. Maranzano si complimentò con Valachi per come aveva svolto il ruolo di sentinella e soldato nella sorveglianza dei movimenti del capomafia rivale Masseria.

Valachi colpì e accese l’immaginario degli americani, descrivendo il rituale del giuramento mafioso.15

Dopo il caffè, Frank Callace accompagnò Valachi e altri due giovani destinati all’affiliazione nella stanza dove nel frattempo si erano spostati i boss, riuniti attorno a Maranzano:

Fui il primo a essere chiamato qualche minuto più tardi. Entrai nella stanza ed erano tutti in piedi intorno a un tavolo. Mi avvicinarono a Maranzano e sul tavolo vidi un coltello e una pistola. Lui pronunciò alcune parole in italiano, che non conoscevo, ma capii poi il senso. Significava vivere e morire per e con la pistola e il coltello.16

Poi Valachi ricevette un pezzo di carta, un santino, che bruciò tra le mani:

Ripetei ad alta voce che sarei bruciato allo stesso modo, se avessi violato la segretezza di Cosa nostra. Successivamente Maranzano spiegò alcune regole fondamentali dell’organizzazione.17

L’ingresso in Cosa nostra comportava soprattutto la stretta osservanza dell’assoluta riservatezza e il divieto d’importunare o violare mogli, sorelle o figlie degli altri membri.18

Una parte dell’audizione di Valachi davanti alla Commissione McClellan riguardò proprio l’obbligo del silenzio:

R: Quello che sto esponendo a voi, alla stampa e al paese è la promessa che ho rotto. Non avrei mai dovuto circostanziare il rito d’iniziazione.

D: Le spiegarono altre regole da rispettare?

R: In quell’occasione due.

D: Quali erano?

R: Una riguardava appunto il segreto sulla modalità d’affiliazione. L’altra vietava di approcciarsi a donne che fossero mogli, sorelle o figlie di altri membri di Cosa nostra. Mancando a questi precetti eri senza difesa.

D: Era dunque proibito violare la relazione coniugale di altri affiliati di Cosa nostra?

R: È esatto. Nel giorno del giuramento furono queste le due regole esposte.

I convenuti estrassero a sorte per scegliere il padrino di Valachi. Uscì il nome di Joseph Bonanno, il cui padre viveva in Sicilia ed era un amico stretto di Maranzano. Per sancire la relazione, Bonanno lo ferì con un ago, provocando la fuoriuscita di sangue da un dito. Il significato di tale gesto è che il legame può essere sciolto solo nel sangue. Gli altri boss applaudirono: da quel momento Valachi era a pieno titolo parte di Cosa nostra.

L’ultimo passaggio prima di diventare a tutti gli effetti un affiliato consisteva nel provocare con un ago una perdita di sangue dal dito usato per sparare. Significava diventare fratelli di sangue.19

Valachi spiegò anche la responsabilità individuale che comportava l’introduzione di un membro dentro Cosa nostra:

Ogni azione sbagliata di un nuovo affiliato ricade su chi l’ha proposto, che è responsabile di ogni suo movimento. E, se necessario, per riparare all’errore eventualmente commesso, può essere ucciso.20

Ricordando alcune discussioni con la moglie dopo il giuramento, sottolineò chiaramente come, una volta affiliati, non ci fosse più la possibilità di uscire da Cosa nostra.

Che cosa significa appartenere a un’organizzazione mafiosa? Un criminale come Valachi, che nel 1931 stava compiendo il salto di qualità, doveva esserselo chiesto. La Guerra castellammarese – storia di congiure e di omicidi consumati a tradimento, come vedremo tra poco – fu un bivio continuo per il neoaffiliato Valachi, che amava i cavalli e doveva scegliere pragmaticamente quello vincente tra le famiglie in guerra. Dal giorno dell’affiliazione, Valachi cambiò tre volte appartenenza, transitando in tre famiglie diverse.

Nel suo memoriale, si rivolse accorato ai giovani già coinvolti o vicini al crimine organizzato:

Spero che i ragazzi leggano le mie parole, capiscano quanto sia difficile questa vita e mi credano. Ripenso al giorno in cui decisi di arruolarmi. A volte proponevo al mio amico Buster, ucciso troppo giovane, di scappare da Cosa nostra. Ci saremmo persi e ritrovati da qualche parte. E lui ne sorrideva.21

Sull’autenticità del sentimento di Valachi non si può indagare. In alcune pagine del suo memoriale traspare un intento educativo che senz’altro era di interesse per il dipartimento di Giustizia che ne autorizzò la circolazione. Ma le dinamiche dell’affiliazione riportate da Valachi sono tuttora riscontrabili nella realtà criminale.