La rappresentazione mediatica del gangsterismo

Le audizioni in diretta tv

Una volta concluso il lavoro dell’Fbi, all’interno del dipartimento di Giustizia ci fu un vivace dibattito sull’opportunità di un’audizione pubblica di Valachi, a cui l’idea non dispiaceva. Il senatore McClellan ebbe in carcere un incontro preliminare con lui. In seguito, d’accordo con Robert Kennedy, sciolse le riserve sull’evento che avrebbe attratto l’interesse della stampa e di milioni di persone.

Il 3 ottobre 1963, prima che cominciasse una delle giornate di deposizione, un cronista annotò la presenza di diciassette fotografi stipati e accovacciati di fronte alla sedia di Valachi, pronti a contendersi l’inquadratura migliore. Metà dell’aula, che conteneva oltre cinquecento persone, era affollata soprattutto da giornalisti. Testimoniò un cronista:

Quando durante la pausa all’ora di pranzo ho chiamato mia moglie, che seguiva la diretta televisiva, ho avvertito il senso di stupore diffuso.1

Non mancarono momenti d’allarme per l’incolumità del collaboratore di giustizia, come riportò James P. McShane, responsabile della protezione di Valachi. Due telefonate anonime annunciarono la presenza di una bomba in aula e quella di un killer professionista camuffato da operatore televisivo. Il direttore dell’Fbi mandò a McShane una segnalazione raccolta da un portuale di New York, che dichiarava di essere venuto a conoscenza di un piano per l’assassinio di Valachi, mentre era al lavoro su una nave approdata al porto di New York dall’Italia.2

La copertura radiotelevisiva fu ampia: Abc, Columbia Broadcasting System e National Broadcasting Company mandarono in onda gli interrogatori in diverse fasce orarie. La Nbc dedicò lunghi speciali. Le emittenti radiofoniche (Wins, Abc, Mutual Broadcasting System) garantirono la diretta delle testimonianze. In molti non erano d’accordo con il fatto che i riflettori fossero puntati su un condannato a vita per traffico di droga e per omicidio, che testimoniava solo perché in cambio lo Stato gli assicurava una protezione contro la vendetta del clan.3

Una parte della stampa americana criticò la spettacolarizzazione delle udienze, arrivando a mettere in discussione la credibilità del testimone:

Valachi sembra essere un attore all’altezza della situazione, ma è un informatore sovrastimato. È molto in dubbio che questo spettacolo elaborato costituisca un grandioso passo in avanti per la giustizia o per la legge. La principale notizia che viene fuori dalle audizioni riguarda le varie offerte pervenute a Valachi da produttori cinematografici per ottenere i diritti circa la rappresentazione della sua vita. Ciò fotografa bene il tono dell’intero show. Nessuna evidenza potrà essere utilizzata al di fuori di tale circo pubblicitario.4

E ancora:

Nell’ambito della Settimana nazionale della cultura a Washington è andata in scena la prima della nuova opera italiana titolata Cosa nostra. Robert F. Kennedy ne è il committente e John L. McClellan il regista. La star dell’opera è il baritono Joseph Valachi, definito dai critici come uno dei più grandi cantanti del nostro tempo. Al maestro Valachi si deve evidentemente anche il libretto. Siccome il Centro nazionale della cultura non è stato ancora costruito, l’opera si è tenuta nelle stanze del Senato.5

Nella gestione del collaboratore una parte della politica statunitense non evitò speculazioni a fini elettorali. William G. Hundley, responsabile della sua protezione, spiegò come l’alta spettacolarizzazione dell’evento e la volontà di alcuni senatori di mettersi in mostra in televisione avessero rischiato di compromettere il servizio di pubblica informazione.

The Valachi papers, un bestseller internazionale

Il clamore suscitato dalle parole di Valachi animò una fronda reazionaria, che trovò udienza e importanti sponde nella politica dopo l’assassinio del presidente Kennedy e l’addio del procuratore generale. Influenti gruppi italoamericani, sostenuti dalla campagna mediatica di giornali come «Il progresso italoamericano», fecero pressioni sulla Casa Bianca affinché venissero meno le blandissime misure premiali previste per Valachi, accusato d’infangare un’intera comunità di persone oneste e di lavoratori integerrimi. I risultati della campagna furono pressoché immediati.

Nei due anni trascorsi in prigione a Washington, Valachi aveva prodotto circa 1180 pagine dattiloscritte. Il giornalista Maas lo aveva incontrato ventidue volte, aveva costruito con lui un rapporto di fiducia ed elaborato una consistente mole di materiale pronto per la pubblicazione. Ma presto al dipartimento di Giustizia protestarono contro la divulgazione delle memorie.

Il 1° febbraio 1966 Peter W. Rodino Jr., esponente democratico del New Jersey, portavoce di un’ampia delegazione composta anche da quattro membri del Congresso, incontrò il ministro della Giustizia Nicholas deB. Katzenbach e William G. Hundley, asserendo che l’uscita del libro avrebbe avuto esiti disastrosi per la comunità italoamericana. Per i deputati il memoriale era una ripetizione di quanto già testimoniato da Valachi e avrebbe arrecato un ulteriore danno d’immagine agli italiani.

A nulla valsero le proteste di Valachi, che dal carcere ribatteva: «Non scrivo degli italiani. Mi occupo dei criminali». Né le dichiarazioni di Jack Rosenthal, neodirettore della comunicazione del dipartimento di Giustizia, che aveva delegato a un avvocato le trattative con le dodici case editrici interessate alla pubblicazione delle memorie:

Valachi non ha cominciato a scrivere il libro per ragioni personali o egoistiche ma su nostra richiesta. La notorietà di Valachi non è attribuibile ai suoi crimini, bensì alla portata del suo contributo con la giustizia.6

Il procuratore generale Katzenbach, succeduto a Kennedy, rivide la decisione, assunta dal dipartimento il 27 dicembre 1965, di pubblicare le memorie di Valachi, sostenendo che sarebbe stato il primo detenuto a ottenere quell’inusuale beneficio rientrante nella strategia kennedyana d’informazione sul crimine organizzato. Si scatenò una battaglia legale.

Il 17 maggio 1966 il giudice federale Joseph C. McGarraghy emise il divieto temporaneo di divulgazione del testo. Una settimana prima il dipartimento di Giustizia si era rivolto alla Corte per ingiungere di non pubblicare il manoscritto, ritenendolo dannoso per l’interesse nazionale. Il procuratore generale ribadiva il diritto, contenuto nell’accordo con Maas, di avere l’ultima parola sulla diffusione. Per la prima volta nella storia degli Stati Uniti d’America il ministro della Giustizia, rivedendo la decisione assunta in precedenza, intraprendeva un’azione legale per la messa al bando di un libro.

Katzenbach chiedeva al giudice la restituzione del manoscritto, intitolato The real thing, che a dicembre era stato recapitato a Maas, poiché la pubblicazione sarebbe stata dannosa per l’esercizio delle funzioni del dipartimento e in contrasto con il regolamento del penitenziario, che proibiva ai detenuti di pubblicare scritti sulla propria vita criminale. Il ministro era seccato dalla divulgazione di citazioni, estratte dalle 1180 pagine del manoscritto, apparse in un articolo a firma di Jack Anderson sul «New York Times».

In aula Gilbert Hahn Jr., avvocato difensore di Maas, affermò che il divieto imposto violava il Primo emendamento della Costituzione, che garantisce la libertà di stampa – «Non era mai accaduto che un procuratore generale degli Stati Uniti cercasse di censurare un libro» – e sostenne che quelle memorie costituivano un documento di grande rilevanza per la società. Oltretutto, dopo il rilascio dell’autorizzazione a Maas, il procuratore generale, in ossequio al Primo emendamento, non aveva alcun diritto alla confisca.

Gaithers, l’avvocato della controparte, ricordò invece che il manoscritto era stato rilasciato dietro la stipula di un contratto che prevedeva l’approvazione finale del procuratore generale. Maas quindi non aveva ottemperato agli obblighi contrattuali. Anni dopo, sulle pagine del «New York Times, il giornalista ricostruì così l’esito della diatriba:

Il presidente Johnson stava pianificando la rielezione e non intendeva avere problemi con una parte importante di politici italoamericani. In tribunale mi proposero un compromesso. Non avrei dovuto usare il manoscritto originale di Valachi, ma i materiali raccolti durante le interviste con lui. E accettai. Ventidue case editrici si rifiutarono però di pubblicare il mio libro. Lo fece l’editore iconoclasta Arthur C. Fields. Il libro, edito da G.P. Putnam’s Sons, uscì grazie all’insistenza di Fields dopo il capodanno del 1969 e divenne un bestseller internazionale, tradotto in quattordici lingue, con quasi due milioni di copie vendute. Fu apprezzato molto anche dalla critica.7

Valachi credeva nella pubblicazione senza fini di lucro del proprio manoscritto, perché la riteneva una prova tangibile del sostegno e della fiducia delle istituzioni nella sua collaborazione.

Dopo il dietrofront del dipartimento di Giustizia, il regime detentivo di Valachi s’inasprì: fu trasferito in una prigione federale a Milan, nel Michigan, dove avrebbe dovuto trascorrere il tempo che gli restava in isolamento. L’Fbi, come le altre agenzie d’investigazione, non gradì la scelta, che non avrebbe certo incentivato la collaborazione di altri mafiosi disposti a parlare.

Sconfortato dalla reazione dello Stato e sentitosi nuovamente abbandonato, Valachi tentò il suicidio e si salvò in modo del tutto fortuito: il nodo scorsoio con cui aveva provato a impiccarsi si sciolse da solo. Scrisse al proposito il dipartimento di Giustizia:

Secondo quanto riportato, il criminale sessantunenne ha vissuto diversi periodi di abbattimento psicologico. Valachi si è scusato per l’accaduto. Il detenuto avrebbe raccontato alle guardie penitenziarie di aver provato a impiccarsi con un filo elettrico, ma è caduto sul pavimento e ha riportato contusioni alle ginocchia.8

Le memorie scritte da Valachi e le sue testimonianze dirette, rielaborate da Peter Maas, nonostante gli ostacoli videro dunque la luce. E furono raccolte nel manoscritto The real thing e nel libro The Valachi papers del giornalista newyorkese.

I segreti di Cosa nostra al cinema

Valachi criticava la rappresentazione mediatica del gangsterismo americano. Prese le distanze dalla serie Gli Intoccabili, trasmessa dalla Abc tra il 1959 e il 1963, perché la considerava priva di qualsiasi fondamento e controproducente per la conoscenza delle mafie. Per ironia della sorte si trovò tuttavia inserito in diverse sceneggiature cinematografiche: a lui è ispirata ad esempio la figura di Frank Pentangeli nel film di Francis Ford Coppola Il Padrino – Parte II. Nel 1972 Dino De Laurentiis produsse una pellicola tratta dal libro di Maas, per la regia di Terence Young, intitolata Joe Valachi. I segreti di Cosa nostra, con Charles Bronson nel ruolo del collaboratore e la partecipazione di Walter Chiari e Amedeo Nazzari.

Il film segnò uno spartiacque nella carriera del produttore De Laurentiis che, dopo aver visto sgretolarsi il sogno artistico e industriale dello stabilimento romano, tecnologicamente avanzatissimo, noto come Dinocittà, si rilanciò con successo oltreoceano partendo proprio dal film uscito negli Stati Uniti con il titolo The Valachi papers.9 Nel febbraio del 1969 De Laurentiis aveva acquistato i diritti del libro per duecentomila dollari, ma la trasposizione cinematografica ebbe una gestazione complessa, come ricostruì lo stesso Maas.10

Malgrado l’interesse riscosso dalla storia, secondo quanto riportato dall’agente letterario che si occupò della vendita dei diritti, Hollywood aveva paura della ritorsione mafiosa:

Nessuno aveva intenzione di trascorrere il resto della propria vita col timore che la mattina gli esplodesse una macchina sotto casa.11

Poi arrivò la proposta di Dino De Laurentiis, amico di Maas, che scritturò Charles Bronson per interpretare Valachi con un’offerta milionaria che comprendeva anche altri due film e una percentuale sugli incassi al botteghino.

Ma le intimidazioni mafiose non cessarono. Arrivarono minacce affinché fosse cambiato il titolo, fosse omesso il riferimento diretto a Cosa nostra e fossero tolti i nomi degli affiliati. Al punto che la produzione decise di completare le riprese a Roma. Addirittura la proiezione riservata ai critici saltò per un procurato allarme bomba nella sala cinematografica. Come per la pubblicazione del libro, non mancarono le proteste e le pressioni delle associazioni italoamericane.

De Laurentiis, che coprodusse l’opera con Euro France Films, per poi finire in causa con la stessa, strinse un accordo con la Paramount, entusiasta del progetto, che investì circa due milioni di dollari nella distribuzione, per poi rinunciarvi a causa delle reiterate minacce di stampo mafioso. Il produttore restituì l’anticipo, riprese pieno possesso della pellicola e annullò il contratto.

Dopo una manifestazione d’interesse, anche la Warner Bros si tirò indietro per la stessa ragione. Nelle sue memorie De Laurentiis raccontò di aver chiesto a un suo collaboratore, l’italoamericano Ralph Serpe, di fornirgli un contatto con cui parlare all’interno del crimine organizzato per sbloccare la situazione. E a Miami ricevette rassicurazioni da Jimmy Blue Eyes, all’anagrafe Vincent Alo, esponente di rango della famiglia Genovese:

Avuta la sua parola vado alla Columbia, gli faccio vedere il girato e chiedo quattro milioni di dollari in anticipo. Accettarono perché il film valeva la pena e infatti ebbe negli Usa un enorme successo.12

Alle domande degli inquirenti sul contatto con Alo, De Laurentiis rispose:

Conosco gente di ogni tipo, fra cui Jimmy Blue Eyes, perché sono un produttore cinematografico. E un produttore ha bisogno di conoscere un po’ tutti, ha bisogno di studiare da vicino i personaggi che deve mettere nei suoi film.13

La Columbia portò nelle sale la pellicola nel novembre del 1972 e nei primi otto mesi di vita negli Stati Uniti registrò oltre nove milioni di dollari di incassi. L’accoglienza della critica cinematografica fu tutt’altro che benevola. Il «New York Times» la inserì nella classifica dei dieci peggiori film del 1972. Il critico Roger Greenspun non risparmiò il sarcasmo:

Mi aspettavo che Maranzano declamasse «Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate». Non l’ha fatto, ma avrebbe potuto essere un motto utile da affiggere sulle porte delle sale cinematografiche che proiettano The Valachi papers.

E ancora:

Il vero mistero di The Valachi papers è che qualcosa di così scadente possa essere stato prodotto dagli sforzi di così tante ottime persone. Non solo Wiseman, normalmente un buon attore, come anche Charles Bronson, Lino Ventura e gli altri. Tutti sembrano aver lavorato distanti dal proprio stile. Terence Young aveva diretto in maniera convincente prima di questa pellicola. Come sono state convincenti altre sceneggiature di Stephen Geller. Ma in The Valachi papers tutti hanno reso al di sotto delle proprie potenzialità. Come se non avessero saputo come tirare fuori il film dal libro.14

Il «Washington Post» non fu più tenero:

Ci vuole un’inettitudine considerevole per produrre un gangster movie così estenuante. Ogni boss accorto, consapevole della rappresentazione, dovrebbe correre a promuoverlo, in quanto il crimine organizzato emerge non come la tradizionale minaccia alla società, fonte vivida per la cinematografia e la critica sociale, ma semplicemente come un individuo tremendamente noioso. La contorta qualità dello scritto, grottesco e tedioso, di Geller non è stata mitigata dalla direzione fiacca di Terence Young. Il regista appare dormiente, deve aver diretto al telefono. Tutto è poco convincente.15

Lo stesso Maas non fu particolarmente felice della trasposizione filmica, nonostante il gradimento del pubblico e la lunga vita anche televisiva della pellicola, che conquistò spettatori in tutta Europa e in Giappone.

The Valachi papers non resse il confronto al botteghino con Il Padrino, uscito nel mese di marzo dello stesso anno e incensato dalla critica giornalistica. Il libro di Mario Puzo, da cui è tratto l’adattamento di Coppola, fu pubblicato nel 1969, un anno dopo il lavoro di Maas. Paramount ne aveva acquisito i diritti già prima della pubblicazione. Puzo dichiarò di aver ripreso da Valachi la parola padrino, Godfather. Immaginando i paragoni, De Laurentiis rilasciò una dichiarazione di sei pagine nella quale definiva complementari i due lavori. Sostenne che la mafia aveva tentato di bloccare la produzione di The Valachi papers poiché il film la spogliava della sua aura mistica. De Laurentiis aveva ragione su un punto: il suo film si basava sui fatti, Il Padrino sul mito. L’autore della sua storia, Valachi, era interno al fenomeno mafioso.16

In sostanza, sul grande schermo il mito funzionava più di una presa diretta sulla realtà criminale. Tralasciando la qualità estetica delle due opere, in quella di Terence Young non si rintraccia il carattere apologetico presente ne Il Padrino, la mafia non ha un volto umano. Nella testimonianza di Valachi quasi tutto suggerisce il contrario: non c’è l’idea dell’esistenza di una vecchia mafia buona, attenta agli ultimi nella società, presunto argine contro il traffico di droga, che è custode di valori antichi e che preserva la giustizia, l’onore e la famiglia contro le degenerazioni che minano la società americana. Nella sua narrazione non c’è segno di una supposta moralità mafiosa. Valachi aveva parlato di lotte feroci per il potere e di sanguinosi conflitti interni, rivelando l’egoismo dei boss nei confronti dei soldati e il tema della gerarchia all’interno dell’organizzazione:

Nella famiglia Genovese sono quaranta o cinquanta i veri arricchiti, i milionari. Nella gerarchia, dai luogotenenti in su sono benestanti, i soldati non se la passano così bene. Noi usiamo un’espressione: hai i soldi, hai peso.17

La mafia ha alimentato letteratura e rappresentazioni nelle quali il folclore ha preso il sopravvento minando la comprensione del fenomeno. Il mito ha suggerito spiegazioni spesso irrazionali per codificare ciò che appariva sfuggente.18

Nella settimana dell’uscita de Il Padrino, la stampa americana si interrogava sul successo commerciale dei film sui boss e sulla moltiplicazione delle emulazioni cinematografiche:

La scorsa settimana sono cominciate le riprese di tre film sulla mafia, incluso uno basato su The Valachi papers di Peter Maas. Il produttore De Laurentiis ha aggiunto una nota di autenticità, annunciando di aver ricevuto minacce telefoniche per bloccare la lavorazione. […] La mafia trionfa al botteghino e ovunque in questi giorni, dalle librerie ai negozi di giocattoli, dove Il Padrino si vende rapidamente da mesi. I produttori de Il Padrino erano così fiduciosi che il mercato della mafia avrebbe continuato a macinare utili, che hanno cominciato a lavorare al sequel prima dell’uscita dell’originale. Come nasce la fascinazione per la mafia? Certamente il mistero dietro all’organizzazione con i propri riti iniziatici e l’elaborazione del codice d’onore sono i fattori principali.19

Oltre quarant’anni dopo Il Padrino, il «New Yorker»20 si domanda ancora perché i boss siano trattati da celebrità e non come criminali disgustosi. La reazione dei lettori sui social è significativa: «I boss de Il Padrino corrispondono in gran parte alla mia conoscenza dei gangster e della mafia. Innanzitutto erano persone. Non volevano essere calpestati. Si uccidevano fra di loro. Detto ciò, sì, rimane una fascinazione più che una vera ammirazione» ha commentato una lettrice, restituendo lo spirito di molti altri interventi.