Il segno di Robert Kennedy

Un destino votato alla democrazia

In occasione di una festività natalizia JFK e Jacqueline Kennedy regalarono a Robert una copia del suo stesso libro, The enemy within, scrivendo una dedica: «A Bobby, che ha reso possibile l’impossibile e ha cambiato le nostre vite».

L’impegno del procuratore generale contro il crimine organizzato resta una chiave di volta delle vicende drammatiche che hanno stravolto i Kennedy. Certamente impresse un salto di qualità allo spessore politico della famiglia.

Dopo l’uccisione del fratello divenne una persona molto tormentata, e iniziarono a venire fuori le fragilità umane prima celate. Dalla scomparsa di JFK, Robert non riuscì più a citare pubblicamente il suo nome. Dal 22 novembre 1963 trascorsero quattro mesi di silenzio prima che riapparisse sulla scena pubblica. Il 27 agosto 1964 ad Atlantic City, sul palco della convention democratica, salì un uomo trasfigurato dal dolore. Il senatore di Washington Henry Jackson lo introdusse, poi seguirono ventidue minuti di applausi. Lui, visibilmente emozionato, ringraziò i delegati per il sostegno assicurato al fratello durante la presidenza e concluse l’intervento con la citazione di alcuni versi della poesia Stopping by woods on a snowy evening di Robert Frost:

La foresta è attraente, oscura e profonda

Ma ho promesse da mantenere

E miglia da percorrere prima di dormire

E miglia da attraversare prima di dormire.

Nella raccolta di scritti di Robert Kennedy The pursuit of justice si legge:

Il vero problema del potere non è la sua esistenza. La questione che il potere pone è come gestirlo in modo responsabile senza lucrare sulle spalle della società. L’essenza della responsabilità è mettere il bene comune prima del guadagno personale. L’uomo, a cui è affidata temporaneamente la cosa pubblica, deve donare la propria fede e il destino alla democrazia.1

Nei sedici anni di vita pubblica, Kennedy maturò con costanza e riuscì nell’opera più complessa per un politico: chiedere al proprio paese di guardarsi dentro in un decennio tumultuoso segnato dalle crescenti disuguaglianze e dalle violenze, dalle ombre della Guerra fredda, dalla segregazione razziale e dalla lacerante guerra in Vietnam, di cui si assunse la propria parte di responsabilità per gli esiti disastrosi della dottrina della controinsurrezione. Affermò il 18 marzo 1968 davanti agli studenti dell’Università del Kansas:

Questa guerra divisiva ha provocato una profonda crisi di fiducia in noi stessi come nazione. Sono stato coinvolto nelle prime scelte sul Vietnam, decisioni che hanno contribuito a produrre la situazione attuale. Ho il desiderio di farmi carico della mia parte di responsabilità davanti alla storia e ai miei concittadini. Gli errori del passato non perdonano che li si perpetui. La distruzione del Vietnam, il prezzo che paghiamo noi e il mondo non sono di alcuna utilità. La guerra deve finire.2

Un luogo, Università di Città del Capo, una giornata, il 6 giugno 1966, e un viaggio consentono di entrare nella complessa eredità del più rilevante ministro della Giustizia nella storia degli Stati Uniti d’America.

Alla fine del 1965, il ventunenne sudafricano Ian Robertson, studente di Medicina e presidente della National Union of South African students, invitò Robert Kennedy a tenere un discorso in occasione della Giornata per la riaffermazione della libertà umana e accademica presso l’Università di Città del Capo. A Washington, mentre era procuratore generale, Kennedy aveva incontrato Patrick Duncan, un oppositore al regime di apartheid, e gli aveva assicurato il mantenimento dei contatti e dell’assistenza.3

In veste di senatore dello Stato di New York, Kennedy accettò senza esitazioni l’invito del giovane Robertson, malgrado l’ostilità del governo sudafricano che, contrario alla visita, aveva negato il visto ai giornalisti americani.

Prima di denunciare il periodo più duro del regime di apartheid, rompendo la solitudine internazionale degli oppressi in Sudafrica, Kennedy riconobbe quello che subivano i neri d’America. E fino all’assassinio sulla strada verso la Casa Bianca mantenne la stessa parola di libertà. Non a caso la parte conclusiva del discorso, uno dei più importanti del Novecento, pronunciato la notte della morte di Martin Luther King Jr. è identica a quella declamata due anni prima, appena atterrato all’aeroporto di Johannesburg:

Dedichiamoci a perseguire quello che i greci scrissero tanti anni fa: domare la natura selvaggia dell’uomo e rendere gentile la vita in questo nostro mondo.4

Robert s’immerse senza scorta insieme alla moglie Ethel nel laboratorio ribelle della township di Soweto, riverberando con Mandela già in carcere la parola vietata del presidente dell’African National Congress, Albert Lutuli. Kennedy volle incontrarlo nel confino riservatogli dal governo segregazionista. L’icona del difficile processo sudafricano di riconciliazione Desmond Tutu ricorda ancora la centralità di quella visita nel lungo cammino verso la libertà. A Città del Capo Kennedy tenne probabilmente il discorso politico più maturo, che s’ispirava al cambiamento di passo avuto da procuratore generale sulla questione dei diritti civili.

In questo senso fu paradigmatico il rapporto con Martin Luther King Jr. Come ministro della Giustizia Kennedy sapeva dell’attività spionistica dell’Fbi e della posizione di Hoover sul Movimento per i diritti civili. Inizialmente preoccupato dagli effetti della disobbedienza civile, poi difese sul campo gli attivisti noti come freedom riders. King e Kennedy s’incontrarono lungo la strada della lotta alla povertà e dello smantellamento della segregazione razziale, che costituì l’altra battaglia durevole dell’amministrazione Kennedy.

Addolorato e pieno d’angoscia per il paese, come quando ammazzarono il fratello, fu il primo a mettersi a disposizione della vedova Coretta Scott King. Nella giornata successiva all’uccisione del pastore, scoppiarono sollevazioni in oltre cento città americane con 46 morti e 2500 feriti. L’unico luogo risparmiato dall’onda distruttrice fu Indianapolis, dove Kennedy diede l’annuncio dell’assassinio e seppe attutire la rivolta:

Per chiunque sia nero e sia tentato di sentirsi colmo di odio e diffidenza a causa della profonda ingiustizia di tale atto, che si rivolta contro tutti i bianchi, posso solo dire che nel mio cuore provo lo stesso sentimento. Un membro della mia famiglia è stato assassinato, ed è stato ucciso da un uomo bianco. Tuttavia dobbiamo fare uno sforzo per comprendere, per andare oltre questi tempi piuttosto difficili.5

Il presidente mancato

A cinquant’anni dalla morte, Robert Kennedy raffigura il presidente mancato. In una fase di profonda polarizzazione della vita politica e sociale statunitense, le sue parole continuano a ispirare. Kennedy incarnò un’idea alta e collettiva del fare politica, capace anche d’autocritica, che pure non fu esente da incongruenze, soprattutto nello scenario della Guerra fredda, con errori e ambizioni di potere legate alla famiglia. Ricorda Ronald Goldfarb:

Nel pieno della notte squillò il telefono e mi dissero che lo avevano ucciso. Già con la morte violenta del presidente Kennedy era tramontata la nostra gioventù. Giorno dopo giorno ho preso piena consapevolezza di quanto quel periodo sia stato entusiasmante e pieno di opportunità.

«Il senatore Robert Francis Kennedy è deceduto all’una e 44 di oggi, 6 giugno 1968, all’età di quarantadue anni.» Frank Mankiewicz, suo portavoce dal 1966, annunciò al mondo la conseguenza fatale dell’attentato della notte precedente, quando nel corridoio delle cucine dell’Hotel Ambassador a Los Angeles Sirhan Sirhan, statunitense di origine giordana, sparò al candidato che aveva appena vinto le primarie in California, una tappa nella lunga corsa verso la Casa Bianca. L’assassinio del settimo dei nove figli di Joseph e Rose Kennedy assomiglia a una ferita mai rimarginata. È la malinconia di una stagione politica drammaticamente incompiuta per una nuova generazione di americani, come la definì il presidente John F. Kennedy nel discorso d’insediamento a Washington.

Anche durante la campagna elettorale per la nomination democratica alla presidenza degli Stati Uniti, nel 1968, Kennedy tematizzò e mise in agenda la questione del crimine organizzato con riferimenti costanti alla propria esperienza di procuratore generale, ribadendo come esso fosse un problema per tutti gli americani e la stessa tenuta democratica del paese. In questo senso il 26 aprile 1968 pronunciò parole nette a Indianapolis dinnanzi al Marion County Democratic Committee:

Il crimine è un affare pericoloso, che rischia di compromettere il nostro percorso sulla strada di una nazione migliore. Lo Stato che si arrende all’associazione mafiosa è destinato al fallimento. È disturbante che milioni di americani guardino al crimine organizzato come a un nemico pervasivo, che non può essere sconfitto e debellato. Combatterlo significa occuparsi dell’eguaglianza nella nostra società; equivale alla lotta contro la fame, la deprivazione o alla prevenzione dell’inquinamento dell’aria e dell’acqua. È una battaglia vitale per preservare la qualità delle comunità che sono la radice della nostra grandezza; una battaglia per mantenere la fiducia in noi stessi e nell’essere cittadini pienamente liberi. È una battaglia per la qualità delle nostre vite.6