La rottura del silenzio

«Perché ho deciso di parlare»

D: Innanzitutto voglio chiederle se lei fa parte di un’organizzazione segreta, che si dedica o ha come principale attività il perseguimento di un disegno criminale e la protezione dei membri che perpetrano reati. Lei appartiene a un’organizzazione del genere?

R: Sì.

D: Qual è il suo nome?

R: O meglio, ne ho fatto parte.

D: Significa che ora non è più accettato e tenuto in considerazione dai vertici di quel sistema. Ma c’è stato un periodo in cui è stato a pieno titolo uno di loro?

R: Sì, esatto.

D: Quando è entrato nell’organizzazione?

R: Nel 1930.

D: Che nome ha?

R: Cosa nostra.

D: Si chiama così in italiano?

R: In inglese significa Our thing o Our family.

D: […] È un’organizzazione che pretende assoluta obbedienza e conformità alla politica imposta dal suo vertice di comando?

R: Sì.

D: Posso chiederle quali sono i diversi livelli di comando all’interno dell’organizzazione, a partire dal vertice?

R: Al vertice c’è quella che chiamiamo griemeson, che sarebbe una commissione.

D: Quindi oggi al vertice c’è una commissione. Invece, quando è entrato lei che cosa c’era?

R: C’era un Capo dei capi. […] Poi ci sono i capi delle diverse famiglie, i sottocapi e i luogotenenti, infine alla base della scala ci sono i soldati.

D: Secondo quanto ha dichiarato esiste una commissione. È guidata da un Capo dei capi?

R: No, non più, hanno un consiglio. L’ha istituito Lucky Luciano.1

Il 27 settembre 1963, durante la prima deposizione dinanzi alla Commissione d’inchiesta del Senato americano sulla criminalità organizzata presieduta dal senatore dell’Arkansas John McClellan, e a una nazione ancora poco consapevole malgrado l’apporto della precedente Commissione Kefauver, Valachi parlò e fece per la prima volta il nome dell’organizzazione che il procuratore generale Robert Francis Kennedy aveva definito «il maggior pericolo interno degli Stati Uniti».

Il dipartimento di Giustizia considerò Valachi una straordinaria scoperta per l’intelligence. Questo detenuto delle prigioni federali, personaggio non di primissimo piano nella gerarchia mafiosa, dopo aver testimoniato e fornito una ricostruzione articolata della struttura interna di Cosa nostra divenne una vera e propria celebrità internazionale. Il quadro che delineò era esaustivo soprattutto della città di New York, snodo centrale del business delle famiglie mafiose più influenti. «L’esistenza di un’organizzazione criminale come Cosa nostra è spaventosa» commentò McClellan. «È una forma di governo al di fuori della legge.»

Nel 1962 Valachi era un uomo che aveva perso il desiderio di essere parte di un gruppo, aveva smarrito il senso dell’ostentazione della propria alterità in quanto membro di una potente famiglia di mafia. Per trent’anni aveva obbedito, non si era posto domande scomode, e ora non riusciva ad accettare il rinnegamento con l’accusa di essere un collaboratore di giustizia, quale poi divenne. Vincent Teresa, che per un periodo condivise con lui la cella, sottolineò l’ossessione di Valachi nei confronti di Genovese per la condizione d’isolamento ed emarginazione alla quale lo aveva costretto. Valachi era un reduce che si avvertiva ormai estraneo a quella che aveva considerato la propria patria; si sentiva accerchiato:

Naturalmente, se potessi ricominciare la mia vita da capo lo farei. Ora sono completamente solo. Non scrivo a mia moglie e a mio figlio perché non vogliono più parlarmi; e chi gli dà torto? È Vito Genovese il responsabile di tutto. I ragazzi gli raccontavano un sacco di storie false sul mio conto e lui ci ha creduto. Si era preparato a colpirmi, io lo colpii prima. Spero che gli americani traggano vantaggio dal fatto di conoscere che cos’è la mafia. Se mi avessero ucciso nel carcere di Atlanta, sarei morto marchiato come un infame, un traditore, senza aver fatto niente. Perciò, che cosa ho perduto?2

Le parole di Joe Valachi, in gran parte affidate al giornalista Peter Maas nel libro-confessione The Valachi papers, uscito in America nel 1968 e tradotto in Italia l’anno successivo con il titolo La mela marcia, sono un documento testimoniale prezioso per capire gli effetti dell’infrangimento della regola mafiosa del silenzio. Valachi, dopo essere stato un soldato, da ultimo al servizio del boss Vito Genovese, si rese protagonista di una rottura storica, violando il vincolo di segretezza che caratterizza e garantisce la longevità delle organizzazioni di stampo mafioso.

Nel rispondere al senatore Muskie, Valachi precisò:

Da quando sono entrato in Cosa nostra, posso dirle che non è mai stata chiamata mafia. Non so quale sia il nome in Italia. So che questa organizzazione esiste da lungo tempo, ma da quando ne faccio parte l’ho sempre sentita nominare Cosa nostra.3

Vent’anni più tardi, il «boss dei due mondi» Tommaso Buscetta convenne con Valachi, spiegando che la parola mafia era una creazione letteraria, i veri mafiosi si chiamavano «uomini d’onore» e, come negli Stati Uniti, il nome dell’organizzazione era Cosa nostra. Il senatore Mundt cercò di chiarire la questione con Robert Kennedy:

D: Lei sembra usare in modo interscambiabile le parole mafia e Cosa nostra. Può delineare la differenza o il legame tra le due?

R: È una differenza puramente lessicale, senatore.

D: Sono interscambiabili?

R: […] È un’organizzazione. Che la si chiami mafia, Cosa nostra o con altri nomi, si riferisce alla stessa cosa. Ciò che importa è […] che negli Stati Uniti esiste un’attività criminale organizzata basata sulle stesse modalità operative. È importante focalizzare l’attenzione sull’esistenza di un’associazione criminale di questo tipo.4

Per restare al lessico: che cos’è una «famiglia» mafiosa? Nel 1963 Valachi spiegò, insieme ai rituali e ai giuramenti, che l’organizzazione non andava confusa o ridotta al legame familistico biologico. Nel gergo mafioso il senso del termine, adottato poi anche sul versante criminale siciliano, era molto più ampio. «Quando parlo di famiglia non mi riferisco a quella biologica, ma definisco formalmente il gruppo mafioso d’appartenenza.»5

Muskie gli chiese conferma di questo aspetto:

D: Penso sia evidente che non ci stiamo riferendo alla famiglia in senso tradizionale. Non si parla della famiglia composta da padre, madre, fratelli e sorelle. È un’organizzazione di persone imparentate?

R: No, non ho detto che sono imparentate. Stiamo parlando sempre di Cosa nostra. Si usa l’espressione «famiglia» ma non ha niente a che vedere con la famiglia naturale. Non si tratta di genitori e figli, fratelli e sorelle.

D: Le famiglie si incontrano per definire l’indirizzo dei propri affari?

R: Nella mia famiglia d’appartenenza, in trent’anni di militanza non è mai accaduto che ci siamo riuniti tutti insieme. Si teneva un incontro ogni Natale, una tavolata, una specie di cena, e il mio «regime» si componeva di trenta persone. La conoscenza fra i membri non era necessariamente collegata a queste grandi riunioni, le occasioni erano molteplici.6

Valachi fu lapidario nello spiegare a cosa mirasse con la sua collaborazione:

La ragione principale è distruggere i capi di Cosa nostra, perché in tutti questi anni sono stati egoisti. I boss hanno tenuto un comportamento pessimo con i soldati, pensando solo al proprio bene.7

E quando McClellan gli chiese perché non avesse abbandonato prima l’organizzazione, Valachi non usò mezzi termini:

Una volta che sei entrato, non puoi uscirne da vivo. Se ci provi, ti danno la caccia. Che cosa devi aspettarti se esci? Nulla, se non il supplizio.8

Valachi si rivolse spesso a chi, come lui, aveva vissuto – o continuava a vivere – come un soldato dentro Cosa nostra, decostruendo le illusioni di successo e arricchimento:

Vorrei che i giovani mi leggessero. Chi aspira a questa vita non sa davvero che cosa comporti. Joe «The Boss» Masseria ne ha mandati a morire decine nonostante fosse consapevole che per lui era impossibile vincere la guerra. E come lui fanno molti capi mafiosi per i quali la vita è apparentemente dolce. Sono sempre più ricchi e non vogliono mai cedere il comando. Formano quello che definisco un secondo governo, così potente che sembra impossibile da fermare.9

Da collaboratore di giustizia Valachi smentì numerosi luoghi comuni sulla presunta onorabilità dei mafiosi:

Ho assistito all’omicidio particolarmente efferato di un boss di origine napoletana che doveva essere eliminato per una faida e di suo figlio molto piccolo. Il bambino implorò il killer di non uccidere il padre. Li assassinarono entrambi.10

E ancora:

Dentro Cosa nostra non ho incontrato uomini liberi. È il rimorso di aver fatto parte di un’organizzazione composta soprattutto da cani addomesticati e obbedienti ai padroni.11

Valachi era un sopravvissuto, una rarità. Era un soldato salvatosi nonostante i trent’anni al fronte, coincisi con lo sviluppo di Cosa nostra. La sua vicenda mostrava quanto fosse difficile fare carriera in un’organizzazione basata sull’accumulazione capitalistica e sulla concentrazione del potere in pochissime mani, in cui la vita dei sudditi aveva un valore relativo. Esattamente i motivi che lo spinsero a sfogare la propria frustrazione verso l’irriconoscente Genovese.

L’apprendistato criminale

Nel luglio del 1923 Valachi, neanche ventenne, aveva rischiato di morire in seguito a una rapina. Durante la fuga un poliziotto gli aveva procurato una ferita grave alla spalla con un colpo d’arma da fuoco. Era stato salvato dall’intervento di un medico in un ambulatorio compiacente.

I genitori, originari di Napoli, avevano messo al mondo sei figli. Joe, nato a New York il 22 settembre 1903, era tra i quattro sopravvissuti. Il padre Dominick, alcolizzato, spesso violento nei confronti della moglie Maria Casale, era un venditore ambulante e si arrangiava con altri lavori. Vivevano a East Harlem, in un appartamento fatiscente privo di servizi e di acqua calda. Rievocando quegli anni, Valachi scrisse nel memoriale The real thing:

Provengo dalla famiglia più povera della terra, o almeno così la percepivo da ragazzino. A Natale non ho mai ricevuto un regalo; capitava invece che mio padre mi svegliasse e mi offrisse un bicchiere di whisky che io rifiutavo perché era troppo forte. Ho commesso i primi furti insieme a mio fratello per contribuire all’affitto di casa. Prendevamo di mira soprattutto i negozi di abbigliamento per rivendere borse e vestiti.12

Valachi abbandonò presto la scuola. Spesso assente ingiustificato, un giorno ferì un insegnante all’occhio tirandogli un sasso e fu espulso dall’istituto. All’età di undici anni si ritrovò nel riformatorio New York Catholic Protectory. In seguito lavorò per un anno con il padre su una chiatta che sgombrava il porto dai banchi di sabbia, prima d’instradarsi definitivamente nella malavita. Quando suo padre morì appena cinquantenne a causa dell’abuso di alcol, il giovane Valachi, nell’America della Grande Depressione, considerò la criminalità la sua unica opportunità di sostentamento.

Il suo apprendistato cominciò quando era ancora minorenne, in un contesto di esclusione sociale:

Abitavamo nella 108ª strada vicino al palazzo chiamato «degli omicidi», che appariva di continuo nelle cronache dei giornali. Frank Costello, di cui avvertivo forte l’influenza, e Willie Moore provenivano dallo stesso stabile. Per chi nasceva in quella zona era difficile trovare un lavoro onesto ed essere accettato dalla società. Quando dicevo da dove venivo, scrollavano tutti le spalle e si voltavano dall’altra parte: «Non abbiamo bisogno» dicevano.13

Durante i suoi otto anni di educazione criminale per le strade di New York, Valachi si associò con diversi giovani che in seguito divennero affiliati di Cosa nostra. Assimilò rapidamente il senso di appartenenza a una gang e la dinamica di controllo del territorio: l’importanza di sapere dove e come muoversi. Diciottenne, trovato in possesso di un revolver carico, fu condannato per porto abusivo d’armi a Jersey City. Imparò a leggere e scrivere in carcere. A diciannove anni era già un rapinatore seriale affiliato nelle vesti di autista alla 107ª Street gang di New York, i cui componenti erano noti alla polizia come minutemen per la rapidità con cui si davano alla fuga dopo le rapine. La gang piazzava due o tre colpi a settimana, dopodiché vendeva la refurtiva ai ricettatori e offriva un servizio di protezione ai commercianti che non denunciavano i furti e le estorsioni.

Anni dopo, Valachi rischiò di morire accoltellato. Insieme alla gang Irish Mob, di matrice irlandese ma multietnica, aveva infastidito il boss Ciro Terranova, soprannominato il re dei carciofi poiché, come confermato dallo stesso Valachi nelle deposizioni, a New York controllava e dirigeva il fruttuoso commercio dell’ortaggio. Era un criminale di rango, aveva legami con i sindacati. Era forte nei mercati rionali e nella grande distribuzione. Aveva una posizione così dominante sul mercato che poteva determinare il prezzo della materia prima, e riscuoteva i pagamenti dai venditori ambulanti e dai negozianti.

La prima notizia di reato a carico di Valachi risale al 1918. Da quel momento fu tratto in arresto undici volte fino al 1930. Nel 1923 varcò per la prima volta la soglia del carcere di Sing Sing, un luogo chiave nella sua formazione criminale: «Sono stato educato a Sing Sing».14

La detenzione, mediante il contatto con boss di alta caratura, divenne per Valachi un momento di elezione. Proprio nella prigione di Sing Sing a Ossining, New York, entrò in contatto con il camorrista Alessandro Vollero, uno dei più noti gangster italiani di Brooklyn, condannato nel 1918 alla pena di morte, poi commutata in un ergastolo per omicidio. Vollero gli illustrò l’esistenza di una società segreta che garantiva una certa protezione ai propri affiliati. Sempre da detenuto, sul finire degli anni Venti conobbe Dominick «Lo Squarcio» Petrelli, una sorta di modello del quale emulare atteggiamenti, vocabolario e look. Fino al 1959, quando fu rinchiuso per traffico di stupefacenti nella prigione di Atlanta dove Vito Genovese era detenuto per lo stesso reato, aveva accumulato diciotto arresti con incriminazioni differenti, ma in quarant’anni ne aveva trascorsi in carcere appena quattro.

Un soldato al tramonto

La condizione di isolamento accompagnò Valachi sino alla fine. Dopo l’inizio della collaborazione, abbandonato dalla famiglia, cadde nell’oblio, come riporta un articolo dell’epoca:

Valachi vive in uno spazio separato con la paura costante per la propria incolumità. È sorvegliato a vista ed è destinato da un anno a un’esistenza errante in carceri simili, isolate e dislocate in varie zone del paese. Valachi conosce bene l’equazione «l’informatore è un morto che cammina». Consuma i pasti all’interno della cella e per ragioni di sicurezza il cibo a lui destinato proviene dalla cucina delle guardie. Il dipartimento per l’Amministrazione penitenziaria, che è responsabile della sua tutela, ricorda bene l’avvelenamento, tramite il pasto servito nella mensa carceraria, del testimone chiave di un processo che vedeva imputato Vito Genovese.15

Passava la maggior parte del tempo in pigiama a guardare programmi televisivi, unico mezzo di contatto con il mondo esterno, e a fumare sigarette. In carcere leggeva e si aggiornava regolarmente sui risultati delle corse dei cavalli. La passione per l’ippica risaliva agli anni Trenta. Di quell’epoca Valachi ricordava soprattutto due purosangue, Knight’s Duchess e Son of Tarra, e si vantava di non aver mai venduto una corsa quando in gara c’erano loro.

Come molti figli di immigrati italiani di seconda generazione, Valachi era secolarizzato e smentiva l’assioma della religiosità dei mafiosi. Un agente della polizia penitenziaria raccontò al giornalista Milton Lewis per il supplemento «This Week» del «Los Angeles Times»:

Chiesi a Valachi se volesse incontrare un prete. Mi rispose che l’ultima volta che ne aveva scomodato uno risaliva a trent’anni prima, nel carcere di Sing Sing. E aggiunse: «Durante la confessione mi domandò troppi dettagli. Gli rivelai circa dodici “lavoretti” messi a segno e lui iniziò a pregare. Questo fu tutto».16

Il 3 aprile 1971 morì d’infarto all’età di sessantotto anni al La Tuna Federal Correctional Institution, nei pressi di El Paso, in Texas.

C’è un completo estraniamento dalla sua famiglia; non menziona mai la moglie, ma parla malinconicamente del figlio, che non sapeva nulla del suo coinvolgimento nella malavita. Ora Valachi ha tre nipoti, ne ha conosciuti due quando erano ancora piccoli.17

Mildred Reina, figlia del boss Gaetano Reina, che era stata sposata con Valachi per venticinque anni, rilasciò un’ampia intervista al tabloid «The New York Daily Mirror», da cui traspare l’ipocrisia dei valori e dei legami famigliari spesso millantati dai mafiosi:

Non ha mai fatto mancare nulla alla famiglia, ma non l’ho mai amato. Le donne! Giocherellava sempre con una diversa. Ormai siamo separati da cinque anni: sono morta come signora Valachi. Ora sono Mildred Reina.18

Secondo la ricostruzione della donna, che lavorava in una lavanderia nel Bronx, il matrimonio tra i due, celebrato nel 1932, in età avanzata per l’epoca, era stato un atto di pura convenienza, benedetto da Vito Genovese per cementare il legame tra le famiglie malavitose.19 Valachi ribadì spesso che la moglie e il figlio non furono mai coinvolti direttamente nell’attività criminale.

Dopo la sua morte, nessuno ne richiese il corpo e gli ufficiali del penitenziario texano non riuscirono a rintracciare alcun parente che si occupasse dei funerali. Trascorse un mese prima che qualcuno se ne interessasse e le autorità mantennero il riserbo sull’identità del richiedente, anche dopo la sepoltura che si tenne a spese del governo nelle vicinanze di Lewiston, nello Stato di New York. Si scoprì solo in seguito che la richiesta era arrivata da una certa signora Jackson.

Dopo l’audizione trasmessa in televisione, molte persone, soprattutto donne, gli avevano scritto in carcere e negli ultimi cinque anni di vita Valachi aveva tenuto una fitta corrispondenza con la quarantacinquenne Marie Jackson, separata con figli, che aveva cominciato a scrivergli in una fase molto difficile della prigionia.

I due non si incontrarono mai, ma lei non gli fece mancare piccoli regali e un sostegno economico. Valachi la nominò esecutrice testamentaria e principale beneficiaria dei diritti, circa trentamila dollari, derivanti dal libro di memorie scritto con Peter Maas.

Qualche mese dopo la scomparsa di Valachi, quest’ultimo riferì al «New York Times»:

Le lettere della signora Jackson, sua amica di penna, gli sollevavano lo spirito. Quando lei non scriveva per un lungo periodo, Valachi ripiombava nella depressione, accusando il dipartimento di Giustizia di nascondergli le lettere.20

Le parole cariche di stima che la signora Jackson gli inviava anche più volte a settimana restarono per Valachi uno dei pochi motivi di conforto:

Ti ammiro per il coraggio che hai mostrato negli scorsi mesi. Sei un uomo forte. Non so se tu sia pentito del tuo modo di vivere. Qualora non sia così, proverei compassione per te, ma non credo a ciò che le persone dicono sul tuo conto. Questo paese non ha più bisogno di politici persuasivi, ma necessita di uomini come te, Joe Valachi, disposti a mettere a repentaglio la propria vita per estirpare la corruzione.21

Il precedente di Abe Reles, caduto dalla finestra

Vent’anni prima di Valachi, un altro soldato, originario di Brooklyn, legato al boss Albert Anastasia e membro del gruppo criminale Murder Inc.,22 aveva incrinato il vincolo di omertà aprendo un varco determinante a comprendere la natura di questa legge fondamentale interna alle organizzazioni mafiose.

Si trattava di Abraham «Kid Twist» Reles, classe 1906, il quale, dopo essere stato arrestato per omicidio nel 1940, per salvarsi dalla pena capitale aveva testimoniato contro Louis Lepke Buchalter e altri membri del proprio gruppo in ascesa nel gangsterismo di New York, condannandone sei, tra cui Lepke, alla sedia elettrica e altri tre all’ergastolo; inoltre aveva descritto nel dettaglio la struttura della banda identificando chi era al vertice. Tre giorni prima di una testimonianza in tribunale che avrebbe riguardato Anastasia, leader superstite, Reles morì in circostanze tuttora misteriose.

Era sorvegliato a vista, ventiquattr’ore su ventiquattro, e alloggiava da solo in una suite dell’Half Moon Hotel a Coney Island. Il 12 novembre 1941 volò dalla finestra della stanza.

Nel libro-testamento di Lucky Luciano è riportato uno scambio tra lui e Frank Costello a proposito di Reles:

FC: Reles sta cantando. O’Dwyer mi ha detto che non c’è modo di trattenerlo.

LL: Quanto sta cantando?

FC: A squarciagola. L’infame ha la memoria di un elefante e la voce di un canarino. Continua a vomitare come se non si potesse fermare. Di questo passo arresteranno tutti, inclusi Benny Siegel e Albert Anastasia.

LL: Non mi interessa nulla di Lepke, dobbiamo lavorare per tirare fuori Bugsy e Albert. Frank, Reles deve togliere il disturbo. È l’unico modo per salvarli. Senza di lui tutti i Dewey del mondo non potranno condannarli. Abbiamo un dovere nei loro confronti. Devi muoverti per sistemare quel piccolo bastardo.

FC: Ma proteggono Reles come se fosse oro dentro a Fort Knox, è blindato e circondato da poliziotti giorno e notte.

LL: Abbiamo pagato per anni tutta la polizia di Brooklyn, perché ora è così difficile questo lavoro?

FC: Non c’è modo di avvicinarsi a lui, devono pensarci le guardie.

LL: E allora? Faglielo fare. Cristo, devono meritarsi i quattrini.

FC: D’accordo, ma ricorda che ci costerà moltissimo.

LL: Non mi frega nulla, paga.23

Secondo i documenti della polizia, Reles era precipitato dalla finestra tentando la fuga. Nessun poliziotto fu incriminato per complicità e corruzione, ma di fatto la scomparsa di Reles interruppe i procedimenti contro il livello superiore della Murder Inc. e i suoi legami, compromettendo la possibilità di provare in tribunale le responsabilità di Anastasia e dell’associazione criminale.

Il sistema delle cinque famiglie mafiose newyorkesi ne uscì indenne, tuttavia la morte di Reles destò scalpore nell’opinione pubblica e occupò per molte settimane le pagine dei giornali. Il procuratore distrettuale di Brooklyn O’Dwyer fu accusato, anche dalla Commissione Kefauver, di non aver seguito le piste criminali che portavano alla macchina politica, dalla quale d’altra parte dipendeva la carriera stessa del procuratore.

Anche la Commissione McClellan interpellò Valachi sulla fine di Reles, la cui figura e morte secondo il collaboratore ribadivano la capillarità del contagio mafioso:

R: Ce n’era un altro, Abe Reles, che avrebbe dovuto testimoniare, ma cadde dalla finestra.

D: Lei sa la dinamica?

R: Lo lanciarono.

D: Chi?

R: Dalle informazioni che mi giunsero, furono loro.

D: Loro chi?

R: Quelli che lo avevano in custodia. Lo buttò giù dalla finestra la polizia.

D: È a conoscenza di qualche altro elemento?

R: No, è tutto quello che so dalle conversazioni con i membri della mia famiglia fuori dal carcere.

D: Lei crede a questa versione?

R: Sì.24

Alla Commissione McClellan Valachi confessò di aver pianificato lui stesso la fine di un altro informatore, Eugene Giannini, accusato di collaborare con gli agenti del Federal Bureau of Narcotics. L’assassinio fu portato a compimento nel 1952, eseguendo gli ordini della «Commissione» di Cosa nostra e di Lucky Luciano dall’Italia:

Tony Bender25 mi diede appuntamento al Ristorante Rocco in Thomson Street. Mi disse che «Gene» era un informatore e nel periodo trascorso in Italia gli agenti avevano provato a fargli avvicinare Luciano. Quest’ultimo ci avvisò del suo ritorno negli Stati Uniti e della necessità di eliminarlo.26

La morte di Giannini era stata approvata da Vito Genovese.

Tony Bender diceva che non si riusciva a trovarlo per sparargli. Allora gli dissi: «Lo troverò io». Equivaleva ad assumere l’incarico di ucciderlo.27

Giannini aveva contratto un debito economico con Valachi e tra i due c’era un rapporto di consuetudine che lo facilitò nella macchinazione della trappola. Quest’ultimo non eseguì materialmente il delitto, ma lo appaltò ai fratelli Joe e Pasquale Pagano e a Fiore Siano, che lo effettuarono nel settembre del 1952 a Harlem.

Il voltafaccia

Cosa nostra è tutta una storia di potere costellata di tradimenti che ne hanno segnato gli equilibri e le trasformazioni. Lo stesso disvelamento dell’organizzazione deriva dalla rottura di un rapporto di fiducia. La narrazione pubblica di Valachi cominciò dal «bacio della morte» di Vito Genovese. Dopo vent’anni al servizio del capomafia, Valachi affrontò in carcere il secondo processo a suo carico, quello di Cosa nostra.

Che cosa determinò la scelta di sconfessare un giuramento di sangue trentennale, contribuendo in modo decisivo a svelare la struttura di una società segreta?

È difficile determinare il peso effettivo del suo ravvedimento intimo. Sicuramente Valachi era spaventato dall’ovvio esito della delazione di un altro detenuto, Vito Agueci, tra i ventiquattro coimputati nel medesimo caso di traffico di droga per cui lui stesso subì una condanna a quindici anni di reclusione.28 Agueci aveva fatto circolare la voce del principio di collaborazione di Valachi con il Federal Bureau of Narcotics e dunque adombrato il tradimento. Rivelando la presunta cospirazione di Valachi intendeva ingraziarsi Genovese al fine di ottenere sostegno per vendicare la morte del fratello Alberto, coinvolto nel traffico di eroina tra Sicilia, Canada e Stati Uniti, e ucciso mentre era in libertà vigilata. Alla Commissione McClellan espresse la certezza che l’avessero marchiato come un traditore e avessero pianificato di ucciderlo in carcere in una situazione di sovraffollamento:

D: Che cosa le disse il detenuto Ralph Wagner sotto la doccia?

R: Mi riferì che il greaseball Agueci mi aveva rovinato. […]

D: L’avevano accusata di essere un informatore e sapeva che equivaleva a una condanna a morte?

R: Sì, senatore. Avevo paura di spostarmi in qualsiasi posto affollato del carcere.29

Prima che cominciasse la sua effettiva collaborazione con la giustizia, Valachi era sopravvissuto a una tentata aggressione. Da allora aveva evitato accuratamente gli spazi comuni come le docce e aveva digiunato per paura di essere avvelenato, fin quando aveva ottenuto l’isolamento temporaneo:

Dopo il trasferimento di cella ero un’anatra morta. Equivaleva all’essermi recato spontaneamente in una stazione di polizia. Sapevano che l’avevo richiesto per proteggermi. Era come se mi avessero visto entrare in una stazione di polizia per collaborare.30

Di fronte al pericolo che percepiva dietro le sbarre, decise di reagire e di imprimere una direzione alla storia.

La mattina del 22 giugno 1962 nel cortile del carcere, durante l’ora d’aria e lontano dagli sguardi della sorveglianza, si armò di un tubo di ferro e uccise un uomo. Fu un omicidio preventivo. Il sentirsi continuamente braccato lo aveva spinto ad assassinare un membro di Cosa nostra che lui presumeva essere l’uomo scelto da Genovese per eliminarlo:

D: Quando è uscito quella mattina per l’ora d’aria, che cosa è successo?

R: Ho individuato Joe Beck. Me lo sono ritrovato davanti mentre camminava insieme a un altro uomo. Poi ho visto un tubo e l’ho afferrato per aggredirlo.

D: Aveva intuito che fosse uno di quelli a cui avevano ordinato di eliminarla?

R: Sì, senza alcun dubbio.

D: E che cosa ha fatto?

R: L’ho colpito in testa con il tubo circa tre volte, in maniera violenta.31

Le guardie lo scortarono nella stanza del direttore del penitenziario e gli mostrarono alcune fotografie. Valachi si rese conto che l’uomo assassinato in realtà non era Joe Beck DiPalermo. Lui e John Joseph Saupp erano molto simili ed era quasi impossibile distinguerli. Fu l’omicidio di un innocente, che Valachi aveva appunto scambiato per un sodale di Genovese, ad avvicinarlo alla scelta di collaborare.

Prima di cedere alla pressione degli investigatori, Valachi volle un confronto diretto con Genovese. Fino all’ultimo tentò di convincere il capo di non aver infranto la legge fondamentale di Cosa nostra, ma la sentenza era già stata emessa. In precedenza Valachi aveva scritto una lettera dal carcere destinata al capomafia Lucchese, asserendo l’infondatezza dell’accusa di essere un informatore e la scorrettezza del modo in cui era stato giudicato.

Ottenuto il confronto con Genovese, il boss gli disse:

Sai, abbiamo un barile di mele e in questo barile ce n’è una marcia. Bene, questa mela marcia deve essere tolta di mezzo perché, se non viene eliminata, infetta tutte le altre.

L’ultimo gesto della relazione complessa tra il capo e il soldato rientrava nella simbologia mafiosa: Genovese si avvicinò per il bacio che equivaleva alla condanna a morte. Valachi ne colse subito la gravità:

Devo ammettere che ero turbato. Restituendogli il bacio, però, gli feci intendere che avevo capito. In quel momento persi il mio rispetto per lui, che per trent’anni era stato assoluto e incondizionato. Nel 1932 era stato anche il mio testimone di nozze.32

Lo smacco di essere stato scaricato da Genovese, al quale aveva dedicato l’esistenza, spinse definitivamente Valachi ad avviare il rapporto con i federali e la giustizia americana. Il primo effetto del dissociamento da Cosa nostra fu il rigetto da parte della famiglia nucleare – la moglie e il figlio recisero il legame –, ma la decisione non lo sorprese. Era un soldato semplice al tramonto. Grazie alla collaborazione con la giustizia, invece, divenne un uomo pubblico, che spiegò al paese la vasta ramificazione di un’entità criminale capace ogni anno di guadagnare e sottrarre alla collettività decine di miliardi di dollari.

Sotto la protezione dello Stato

Le vicende che precedettero l’inizio della collaborazione di Valachi richiamano due questioni tuttora centrali: la gestione della detenzione dei mafiosi e la capacità di intercettare la volontà di collaborare e di stimolarla.

Prima del delitto Saupp, Valachi trascorse qualche giorno in isolamento per poi essere rimesso tra la popolazione carceraria. Richiedendo l’intervento delle autorità, aveva tentato invano di recapitare al vicedirettore della Narcotici George Gaffney il messaggio che era pronto a parlare. Valachi non si fidava dell’amministrazione penitenziaria, perché Genovese governava indisturbato dal carcere.

Anche il capo dell’Organized Crime and Racketeering Section William G. Hundley considerava Valachi un killer qualunque, nonostante la lunga militanza criminale. Quando seppe della condanna per narcotraffico e dell’omicidio del detenuto Saupp, immaginò che il delitto fosse collegato alla droga.

L’attenzione sul caso Valachi si accese quando da Atlanta giunse al dipartimento di Giustizia la missiva nella quale si evidenziava come dalle dichiarazioni dell’imputato emergesse la figura di Vito Genovese. L’Fbi esercitò una forte pressione su Hundley per ottenere l’affidamento di Valachi:

Mi fece molta impressione quando vennero a dirmi: «Vogliamo questa persona, vogliamo parlare con lui». Iniziai così a capire la sua importanza.33

Assecondando lo spirito del pool kennedyano, Hundley fu l’anello di congiunzione fra due agenzie di investigazione, poiché riuscì a convincere la Narcotici a condividere la propria fonte d’informazione una volta soddisfatta delle dichiarazioni raccolte. Valachi fu trasferito a New York per testimoniare sul narcotraffico. Su richiesta del procuratore Robert Morgenthau, la Narcotici prelevò Valachi destinazione Westchester, la prigione della contea a nord di New York che raggiunse nel luglio del 1962, dopo la condanna per l’assassinio di Saupp. I report elaborati dal commissario della Narcotici Henry Giordano con le dichiarazioni di Valachi iniziavano a delineare la possibile ampiezza del suo contributo, a cominciare dalla descrizione del ruolo di Genovese.

Dopo Westchester, in cui gli garantirono una nuova identità e quindi un nuovo nome, Joseph De Marco, nel febbraio del 1963 lo spostarono a Fort Monmouth, una prigione dell’esercito americano nel New Jersey.

Il rapporto di fiducia con l’agente speciale Flynn

Scampato alla sedia elettrica quando la condanna per omicidio – sommandosi alle sentenze per traffico di droga – fu commutata in ergastolo, Valachi centellinò le dichiarazioni in attesa dell’elemento irrinunciabile: la costruzione di un rapporto di fiducia con la controparte. Decisivo nel convincerlo a parlare a tutto tondo fu l’agente speciale dell’Fbi James P. Flynn, che uno stretto collaboratore di Kennedy descrisse come un investigatore di razza:

L’Fbi scelse un professionista eccellente. Flynn non era un agente qualsiasi: era dotato di grande capacità di dialogo e iniziativa.34

Riuscì a guadagnarsi la fiducia di Valachi e le sue confidenze. Sapeva quando essere inflessibile con lui e come sollevarlo quando precipitava in depressione. Vissero in simbiosi per otto mesi. Flynn si recava a Westchester e poi a Fort Monmouth quasi quotidianamente e lavoravano insieme, riuscendo a ottenere notizie d’intelligence di grande valore per quantità e qualità.35

Non è azzardato proporre un parallelo tra la relazione intercorsa tra Giovanni Falcone e Tommaso Buscetta e quella tra Flynn e Valachi.

Flynn si era occupato del caso Apalachin e aveva maturato una notevole competenza nelle indagini sul crimine organizzato. Valachi lo aiutò a ricostruire le relazioni interne e il sistema di governo di Cosa nostra. Flynn aveva bisogno di una lettura d’insieme degli eventi, una visione complessiva dell’organizzazione, per colmare i vuoti d’informazione. Valachi gliela fornì.

L’investigatore della polizia di New York Ralph Francis Salerno, considerato un’autorità di rilievo nelle indagini sul crimine organizzato, non esitò a valutare le confessioni di Valachi allo stesso livello d’importanza della tempesta di Apalachin. Una considerazione avvalorata e confermata dalle reazioni dei mafiosi impresse nelle intercettazioni telefoniche.36

A Fort Monmouth, il ritmo degli incontri tra Valachi e Flynn divenne serrato: quattro volte a settimana, tre ore al giorno. Flynn non riteneva Valachi un peccatore pentito, bensì un assassino che viveva in un mondo di paure e sospetti: la sua mossa aveva come fine la sopravvivenza e la vendetta; a Valachi, come poi accadde a Buscetta, interessava colpire i propri nemici. Flynn se ne servì per entrare in possesso del «vocabolario» di Cosa nostra.

Dopo le deposizioni, lo descrisse come un uomo contorto, ribelle a ogni autorità costituita, ma trovò la chiave per entrare in comunicazione con lui. Si mise in ascolto con umiltà, fece trapelare rispetto. Dominando l’arte dell’interrogatorio, instaurò un dialogo con un uomo capace di violenze efferate, coinvolto in molti omicidi, ma soprattutto dotato di una mentalità imprenditoriale. Pur essendo un semplice soldato, Valachi era solito ripetere: «Il potere consiste nel denaro e nella capacità di far girare i soldi, non in quella di uccidere».

Hundley elogiò spesso il lavoro di Flynn, perché ampliò significativamente il quadro delle conoscenze degli investigatori.

Nell’agosto del 1963 Valachi approdò nel carcere di Washington per preparare la grande audizione pubblica presso la Commissione McClellan. Fu allora che la notizia della collaborazione con l’Fbi divenne di dominio pubblico:

Da qualche parte, in un nascondiglio segreto, gli agenti dell’Fbi proteggono un esponente della criminalità organizzata che ha rivelato informazioni dettagliate, come mai avvenuto in passato, su un’organizzazione che nell’ipotesi investigativa controlla gran parte del crimine negli Stati Uniti. L’informatore è Joseph Valachi. Ha descritto un’organizzazione regolata da una Commissione e ha delineato la struttura delle famiglie, al cui vertice ci sarebbe il boss Vito Genovese. Valachi ha proposto il suo racconto indiretto sul meeting di Apalachin. Gli interrogatori sono stati quasi completati, ora le informazioni raccolte continueranno a essere vagliate.37

Nei primi tre anni, il costo della protezione di Valachi ammontò a 167.908 dollari.38 La sua incolumità, affidata alla tutela dello Stato, aveva un altissimo valore simbolico, poiché equivaleva a rompere l’equazione mortale di Cosa nostra: pur segnando una crepa nel muro dell’omertà, Valachi aveva la possibilità di sopravvivere. Il dipartimento della Difesa partecipò alla sua protezione e Robert Kennedy ringraziò con una lettera personale il segretario alla Difesa Robert McNamara:

Voglio esprimere a te e alla polizia militare l’apprezzamento sincero per l’aiuto che ci avete dato consentendoci di confinare Valachi nel carcere militare di Fort Monmouth. Sono consapevole delle difficoltà che la scelta ha creato, ma l’operazione è stata portata a compimento con sicurezza ed efficienza.39

Anticipando l’audizione pubblica di Valachi, Robert Kennedy illustrò le misure che poi diventeranno legge per la protezione dei testimoni. Il procuratore generale intendeva incentivare la quantità e la qualità dei collaboratori di giustizia attraverso un sistema premiale e di protezione per chi contribuiva a scardinare il muro del silenzio:

Riscontriamo difficoltà nell’ottenere testimoni per questo tipo di reati. L’intimidazione mafiosa prevale e gli uomini rifiutano di parlare: non siamo in grado di farli testimoniare in tribunale. Ci siamo mossi trasferendo persone e famiglie lontano dagli Stati Uniti e dando loro una nuova identità. Abbiamo fornito sistemazioni e posti di lavoro in aree dove nessuno può davvero avere alcun contatto con loro. Per chi offre una testimonianza importante o avrebbe il desiderio di farlo, garantiamo questo tipo di protezione. In questo senso abbiamo ottenuto e continuiamo a chiedere altri fondi.40

Anni dopo, nel 1970, il Witness Security Program contenuto nell’Organized Crime Control Act recepì le istanze previste da Kennedy, che si rivelarono decisive per aumentare il contributo dei collaboratori nel decennio degli anni Ottanta.