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Si parla italiano, si scrive e-taliano?
Ormai l’abbiamo imparato: con le profezie, in fatto di lingua, è meglio andarci cauti. Tanto più, potremmo aggiungere, quando c’è di mezzo la tecnologia. In molti, negli ultimi anni, hanno sostenuto che «è nata, per così dire, una “terza” lingua, forse non tanto andante quanto la parlata, certo non così prudente come vorrebbe essere la scritta». Dà da pensare che lo avesse già fatto – proprio con queste parole – Leo Pestelli, in un libro che abbiamo avuto modo di citare più volte: Parlare italiano, pubblicato nel 1957. A spingere Pestelli verso questa conclusione, l’affermarsi di innovazioni come «la penna stilografica che dispensa dall’intingere e quella “a sfera” che non lascia mai in secco, la macchina per scrivere, la stenografia e il dittafono» (tutti «stimoli allo scrivere avventato»).1
Eppure è evidente che negli ultimi quindici anni si è verificato – nella storia della nostra lingua – un fatto decisamente nuovo: per la prima volta l’italiano si ritrova a essere non solo parlato, ma anche scritto quotidianamente dalla maggioranza degli italiani. Una novità apparentemente paradossale, visto che l’italiano è vissuto per secoli soltanto come lingua scritta. In realtà clamorosa, se si pensa che l’italiano scritto è sempre stato una varietà tanto forte nella sua codificazione quanto debole nella sua diffusione, ostacolata prima dall’analfabetismo, poi dal dominio dei mezzi audiovisivi (ovvero da quella che Walter Ong chiamava «oralità secondaria»). Ora invece, dopo aver conquistato l’uso parlato (a scapito del dialetto), la lingua nazionale ha conquistato finalmente anche l’uso scritto di massa (a scapito del non uso). Nel primo caso il merito è stato in buona parte della televisione; nel secondo, tutto della telematica.
Nel novembre 2000, l’ISPO (Istituto per gli Studi sulla Pubblica Opinione) svolgeva per conto di Poste Italiane un’inchiesta sugli italiani e la scrittura. Ne risultava che le uniche forme di scrittura quotidiana erano – per gli italiani adulti – gli appuntamenti sull’agenda e la lista della spesa; per il resto, quasi nulla. A scrivere un po’ di più erano i 18-29enni: l’8% diceva di scrivere lettere personali tutti i giorni o quasi, il 9% e-mail, il 39% messaggi con il cellulare. Era già cominciato il passaggio – decisivo – dall’epistola all’e-pistola.
Oggi, a quasi quindici anni di distanza, oltre l’86% degli italiani ha un telefonino; più del 63% usa Internet (più del 90% tra i giovani); quasi il 45% è iscritto a facebook. Da questi dati CENSIS (relativi al 2012) è facile intuire la portata che hanno le varie forme di neoepistolarità tecnologica: e-mail, chat, sms. La straordinaria fortuna di questi (ormai non troppo) nuovi media ha provocato – negli ultimi vent’anni – un’imprevedibile diffusione dell’uso scritto della lingua. Moltissime persone che fino a poco tempo fa non scrivevano neppure un rigo oggi producono incessantemente una mole enorme di testi digitati.
Come si è già accennato, però (nel capitolo 6: quello su chi scrive coi piedi, con rispetto parlando), tante di quelle persone sembrano non avere alcuna dimestichezza con la lingua scritta tradizionale. Stando a dati recenti diffusi dall’OCSE, la reading literacy degli italiani (cioè la capacità di leggere e comprendere testi scritti) è mediamente molto bassa: 250 punti, contro i 296 del Giappone, i 280 dell’Australia, i 270 degli Stati Uniti. Circa il 70% degli italiani tra i sedici e i sessantacinque anni dimostra capacità alfabetiche considerate – più o meno gravemente – insufficienti.
D’altra parte, quelli che nel 2013 hanno dichiarato di aver letto almeno un libro (un libro all’anno) sono appena il 43%; più o meno la stessa percentuale di quelli che si dichiarano del tutto estranei ai mezzi a stampa. Mentre il digital divide – il ritardo culturale di chi non ha accesso ai mezzi digitali – sta diminuendo, il press divide è in deciso aumento. La cosiddetta «dieta mediatica» degli italiani si fa sempre più leggera: poca ciccia – verrebbe da dire – quasi stessimo diventando dei vegetariani culturali (vegani, addirittura, visto che anche i lettori di e-book rimangono intorno al 9%).
Ma il punto non è tanto il supporto su cui viaggia la lingua scritta, quanto la tipologia testuale che questo porta con sé. Se si guarda agli sms, ai messaggi di Twitter e di WhatsApp, ma anche a molti testi pubblicati in facebook, ci si accorge subito che i testi digitati sono ben diversi dai tradizionali testi scritti. E la differenza più profonda non sta nella loro presunta vicinanza alla lingua parlata (anni di studi hanno dimostrato che mancano quasi del tutto, in questi testi, le marche sintattiche tipiche dell’italiano parlato); né tantomeno nelle soluzioni grafiche adottate (i vari xké, c 6, tvb e simili), tutte rispondenti a meccanismi vecchi. Vecchi o, molto spesso, antichi.
Per farsene un’idea, basta tornare all’Ottocento, quando la simultaneità della comunicazione telefonica e telematica era ancora qualcosa d’impensabile, e l’unico modo per far sentire la propria voce era «intrattenersi almeno con la penna con gli amici lontani» (come scrive Basilio Puoti). Non c’era nessun limite di caratteri, come negli sms o nei tweet, ma c’erano comunque tariffe postali a carico del destinatario che sarebbe stato imbarazzante rendere troppo pesanti (di qui l’ansia del Manzoni di non mandare lettere che superassero un foglio; di qui i trucchi della famiglia Leopardi, che nello scrivere a Giacomo infilava i messaggi dentro a finti plichi di stampe). A quest’esigenza si aggiungeva quella della rapidità, visto che ogni giorno si dovevano scrivere svariate lettere («Addio dunque e ringraziami ché proprio avevo voglia di scrivere come di farmi frate», scrive ad esempio Massimo D’Azeglio).
Non stupisce, quindi, che anche nell’Ottocento ci si servisse di numerose abbreviazioni (quasi tutte in uso già da secoli) segnalate a volte dal classico puntino, altre volte da un trattino sovrapposto o dalla resa in apice dell’ultima parte della parola. Erano quasi sempre abbreviate le formule di saluto iniziale (la più comune delle quali era C. A., ovvero Caro Amico) e finale (T.V. era Tutto Vostro, Obbl.mo Obbligatissimo, e così via) e molto spesso i titoli di rispetto (Ill.mo e simili), anche se i manuali epistolari biasimavano quest’uso come troppo informale. Nelle date, i nomi dei mesi si trasformavano spesso in serie alfanumeriche (con esiti del tipo di 8bre, 9bre, Xbre); altrove venivano decurtati il -mente degli avverbi (incredibilm.e, finalm.e) e lo -zione degli astratti (relaz.e, educaz.e). Ma qualunque parola poteva essere resa con un compendio: Giuseppe Giusti scrive «alla B. di Risparmio», Gioachino Belli manda i suoi affettuosi abb.cci; nelle lettere della famiglia Leopardi sono usate con grande larghezza grafie come nro e vro per nostro e vostro o anche qlche, fse, gno, qdo e persino frasi come «quasi spre sza dolore» o «mandate per ½ del P. Da Gugliano» (questo libro, insomma, si sarebbe potuto tranquillamente intitolare Cmq anche Leopardi diceva le parolacce).2
Quello che rende diversi questi testi digitati dai testi scritti tradizionali non è in realtà la loro grafia: è la loro frammentarietà. Non sono solo brevi, sono incompleti: singole battute di un testo molto più ampio costituito dall’insieme del dialogo (che può passare contemporaneamente per gli sms, le telefonate, le e-mail, le foto, ecc.). «Frammenti di un discorso ordinario», li chiama Elena Pistolesi in un saggio recente, parafrasando Roland Barthes, che aveva intitolato un suo famoso libro Frammenti di un discorso amoroso. Non ipertesti, ma ipotesti. E questo spiega perché li possono scrivere – e ovviamente leggere – anche i tanti italiani che non toccano mai libri o giornali; anche i tanti che quando leggono un articolo di giornale non sono in grado di capire cosa dice.
Allora, forse, saper digitare non equivale a saper scrivere. O meglio: l’italiano digitato è una varietà diversa rispetto all’italiano scritto tradizionalmente inteso. È a questa varietà che darei il nome di e-taliano (nome complessivo, che racchiude tutte le sottovarietà legate ai diversi mezzi e contesti d’uso: l’e-taliano e i suoi dialetti). Una varietà che per le persone colte rappresenta solo una scelta stilistica, uno dei tanti registri possibili: l’evoluzione di quello che Francesco Sabatini chiamò negli anni Ottanta «italiano dell’uso medio» (e-taliano come italiano dell’uso immediato). Ma per tutti quelli che scrivono solamente in queste occasioni potrebbe finire col diventare l’unico modo di scrivere: l’unica scelta possibile, ghettizzante e socialmente deficitaria. L’e-taliano come italiano neopopolare, in questo caso: mutazione tecnologica di quello usato per secoli da chi – sapendo a malapena tenere la penna in mano – doveva cimentarsi con la scrittura (magari, come Totò e Peppino, per chiedere a una malafemmena di lasciare in pace il nipote, «xkè il giovan8 è studente ke studia ke si deve prendere 1 laura»).
È anche vero, però, che l’imprevedibile potenziamento della comunicazione scritta seguito al diffondersi della telematica potrebbe rappresentare, per la nostra lingua, una grandissima occasione. Ancora una ventina d’anni fa, la spinta all’innovazione linguistica partiva quasi esclusivamente dal parlato; o, per meglio dire, dall’attrito tra un uso parlato finalmente adatto alla quotidianità e una norma nata e custodita soprattutto nello scritto. Se si guarda alla storia degli studi linguistici, il rapporto dinamico tra scritto e parlato è stato inteso quasi sempre come un progressivo recuperare terreno del secondo (il parlato, il grande assente) sul primo (la matrice scritta e tradizionalista della nostra lingua; quella sorta di peccato originale che viene addebitato – ancora una volta – all’umanista cinquecentesco Pietro Bembo).
Oggi le nuove tecnologie hanno finalmente creato le condizioni per l’affermarsi di un italiano scritto davvero informale. L’impressione di vicinanza al parlato che si ha quando ci si accosta alla scrittura telematica è dovuta in buona parte proprio a questa informalità: al riflesso condizionato che da sempre ci porta verso l’equazione “grammatica informale” uguale “grammatica del parlato”. Ciò significa che, nella società della comunicazione in cui ci troviamo a vivere, lo scritto è diventato – o sta diventando – un secondo motore del mutamento linguistico. Ovvero, almeno potenzialmente, un ulteriore stimolo alla crescita, alla diffusione e all’evoluzione della nostra lingua. Uno strumento per rendere l’italiano ancora più ricco, variegato, dinamico. Un motivo in più per smetterla (finalmente) con le lamentele, e ricominciare a guardare con ottimismo al futuro.
L’italiano è vivo, viva l’e-taliano!
1 Più prudente Gian Luigi Beccaria, che nel 1988 scriveva: «È già l’era delle comunicazioni via satellite. In America puoi già tenere in tasca un microcomputer con video (è in vendita alla cifra non esorbitante di 300 dollari) che è il primo giornale elettronico del mondo, dedicato per ora esclusivamente allo sport. Dà notizie a ritmo continuo trasmesse via satellite da un computer centrale situato a Las Vegas. Tra un po’ arriverà in Europa. Vogliamo sapere, in breve tempo, e intanto corriamo il rischio che la tecnica ci porti a una cultura prealfabetica, paurosamente semplificata e omologante. Sono problemi, questi sì, inquietanti. Difficile divinare il futuro».
2 Oltretutto, come mi ha detto qualche tempo fa la figlia dodicenne di un caro amico (nello stesso discorso in cui mi spiegava che le Clark’s erano tornate di moda), «le abbreviazioni nei messaggini ormai sono da sfigati». Ciò non toglie che noi tutti continuiamo – nostro malgrado – a vivere nell’acronimato, assediati da sigle che spesso suonano ambigue, se è vero che SPA vale tanto per le società quotate in borsa quanto per le terme con idromassaggio; che la GAG non si fa più al cabaret ma in palestra (sta per gambe-addominali-glutei); che IMU in Italia era l’odiata Imposta Municipale Unica, mentre in tutto il mondo si usa per I Miss You “mi manchi”.