C’era una volta... “L’italiano!”, direte subito voi, miei cari lettori. E invece no: stavolta avete sbagliato. Nonostante tutte le cose che si leggono e si sentono, nonostante i fantasmi dell’itangliano e dell’essemmessiano, nonostante il paventato avvento del facilese o all’opposto del difficilese, la nostra lingua gode oggi di ottima salute. Anzi, per certi versi non è mai stata così in forma.

Eppure. Il congiuntivo è morto, il punto e virgola è morto e anche l’italiano – vorrebbero farci credere – non si sente troppo bene. Continuano a ripeterci che si sta corrompendo, contaminato dall’inglese e minacciato da Internet e dai messaggini (signora mia, non c’è più rispetto neanche per la grammatica). Ma siamo sicuri che le cose stiano davvero così? La risposta che questo libro intende dare è: no, il dibattito è aperto.

Perché il dibattito sia davvero aperto, però, bisogna innanzi tutto sgombrare il campo da pregiudizi e falsi miti. Mi riferisco in particolare a due errori molto diffusi. Il primo consiste nel ritenere il cambiamento linguistico un elemento negativo, dimenticando che solo le lingue morte non cambiano nel tempo. Il secondo è quello per cui si continua a considerare come modello una tradizione che rispecchia solo in piccolissima parte la storia della nostra lingua: la più distante (guarda caso) dalla comunicazione quotidiana. Da questi due capisaldi discendono varie opinioni che – mal fondate, o mal applicate – impediscono costantemente il miglioramento della lingua.1 Idee talmente diffuse che molti di noi le hanno ormai introiettate. Ma non per questo hanno smesso di essere errori. E allora sarà bene mettere subito in chiaro alcune cose.

1) Tutte le lingue sono alla deriva, perché la deriva è la condizione naturale di tutte le lingue vive.

La lingua cambia nel tempo, e per definire questo continuo movimento i linguisti parlano di deriva (esattamente come i geologi parlano di deriva dei continenti). In questo significato, deriva ricalca l’inglese drift, un’espressione che la linguistica ha cominciato a usare in campo internazionale quasi un secolo fa.

Come ricorda Riccardo Tesi nella sua Storia dell’italiano, negli anni in cui sempre più persone hanno cominciato a parlarla quotidianamente, «anche una lingua di cultura come l’italiano, che già aveva abbreviato i suoi tempi interni nel passaggio dall’età medievale alla moderna, ha iniziato a muoversi con movimenti di deriva relativamente più rapidi». Oggi che sempre più italiani hanno cominciato a scriverla (oltre che a parlarla) quotidianamente, la nostra lingua potrebbe nuovamente accelerare la sua deriva, cioè quell’evoluzione indispensabile a stare al passo con i tempi. Chi continua a parlare in toni allarmati di un italiano alla deriva, dunque, scambia per patologica una situazione perfettamente fisiologica.

2) Se le lingue cambiano nel tempo, i modelli del passato non possono valere per il presente.

Qualche anno fa, a Roberto Saviano sfuggì – twittando – un apostrofo di troppo: «Qual’è il peso specifico della libertà di parola?». Capita, può capitare, specie quando si scrive rapidamente su una tastierina piccola come quella di un telefono. Ma Saviano non volle ammettere l’errore e, rispondendo alle critiche, scrisse: «Ho deciso :-) continuerò a scrivere qual’è con l’apostrofo come #Pirandello e #Landolfi». E allora perché non anche la j in parole come ajuto, bujo, guajo, vassojo o le grafie staccate glie lo, su le («lo scialletto che teneva su le spalle»), come faceva Pirandello? Perché non zittella con la doppia e scimia senza, come faceva Landolfi?

Proseguendo di questo passo, Ariosto non voleva che uomo si scrivesse senza l’acca («chi leva la H all’huomo non si conosce uomo e chi la leva all’honore non è degno di onore»), mentre Petrarca scriveva senz’acca le voci del verbo avere (che gli editori moderni distinguono aggiungendo un accento: «Pace non trovo e non ò da far guerra»). E il ragionier Fantozzi potrebbe giustificare i suoi vadi e dichi facendo il nome dei tanti scrittori che, dal Due all’Ottocento, hanno usato congiuntivi di quel tipo (non ultimo Leopardi, nelle Operette morali: «Io credo che tu abbi in capo una mala intenzione»).

Però non è così che funziona: perché, appunto, la lingua è in continua evoluzione. Quello che un tempo era corretto oggi può essere sbagliato. Ma anche il contrario. Per secoli, fino alla seconda edizione dei Promessi sposi (1840-42), i grammatici si sono accaniti contro l’imperfetto di prima persona del tipo io amavo, sostenendo che l’unica forma corretta era il tipo io amava, rispettosa dell’etimo latino. Ancora nel 1932, nella sua Guida alla grammatica italiana, Alfredo Panzini si sente in dovere di rispondere a questo dubbio: «Amavo (io), o amava (io)? Amava è forma più antica (latino amabam) e popolare, amavo è dell’uso toscano ed è più chiaro perché distingue la 1a dalla 3a persona, specie se manca il soggetto io». Oggi dire o scrivere in italiano io amava non sarebbe solo sbagliato: sarebbe assurdo.

3) Profeti di sventura sul futuro dell’italiano ce ne sono da secoli, ma il futuro li ha sempre smentiti.

Da dove vogliamo partire? Almeno dal Settecento, quando Anton Maria Salvini prevedeva che – venendo meno la reverenza verso quelli che chiama «i padri della lingua» – l’italiano sarebbe presto degenerato in «una Babilonia di stili e di favelle orribile», finendo col diventare «un gergo e un mescuglio barbarissimo». Ai primi del Novecento, non essendosi la rovina ancora compiuta, Giuseppe Rigutini la rimandava solo di un po’: «Una corrente rapida e lutulenta travolge la lingua e il pensiero italiano; di modo che fra cinquant’anni sarà additato per cosa mirabile chi penserà e scriverà in italiano».

Giusto cinquant’anni dopo, Leo Pestelli (nel suo Parlare italiano, 1957) ammetteva che le cose erano andate – tutto sommato – meglio del previsto. «Esagerati. Per fortuna non è stato così»; anzi, «salvo che nei telegrammi e negli annunci economici, dove per risparmiare una lira si sbattezzerebbe Cristo, la favella di Dante non è trattata troppo male dagl’Italiani d’oggi». Negli anni successivi, però, ben pochi hanno mostrato di condividere queste ottimistiche impressioni. In fatto di lingua, tra «apocalittici» e «integrati» – come li definiva Umberto Eco alla metà degli anni Sessanta – i primi sono rimasti a lungo i più numerosi (o quantomeno rumorosi). Titoli come Lingua in rivoluzione (Franco Fochi, 1966), Il museo degli errori. L’italiano come si parla oggi (Aldo Gabrielli, 1977), Prontuario della lingua selvaggia (Italo Zingarelli, 1979) non lasciano troppi dubbi in merito. “Nemo propheta in (lingua) patria”, verrebbe da dire; ma poi molti penserebbero al capitano di Jules Verne o al pesciolino della Pixar.

Interessante, in proposito, rileggere quello che Luciano Satta scriveva in un articolo intitolato La lingua del Duemila, apparso nel quotidiano “La Nazione” l’8 settembre 1962. Satta parte, una volta tanto, dalla constatazione che «l’italiano sembra godere buona salute», anche se – aggiunge subito – la grammatica si mostra ancora «maledettamente lacunosa, oscillante, indeterminata nella sua parte normativa». Poi passa a riportare l’opinione di vari linguisti. C’è chi, come Giacomo Devoto, prevede la scomparsa del congiuntivo, il trionfo di gli per loro e l’arretramento del passato remoto. Chi, come Gianfranco Folena, immagina una lingua del Duemila «non troppo diversa da quella di oggi, ma con un’impronta tecnica più accentuata». Chi infine, come Bruno Migliorini, preferisce non sbilanciarsi, ripetendo le parole scritte da Gino Capponi poco dopo l’unità d’Italia: «La lingua italiana sarà ciò che sapranno essere gli italiani».

A Luciano Satta, però, sembra che manchi qualcosa (nessuno ha parlato di lessico); quindi, nel tirare le conclusioni, scrive così: «La lingua italiana va avanti senza passi sconsiderati, e la vigilanza attenta dei linguisti potrà ancora condurla per mano lungo la via giusta. Bisognerà essere caso per caso più rigorosi o più tolleranti, impiantare la grammatica su più solide norme, rinvigorire e rinverdire i dizionari. Soprattutto bisognerà montare la guardia diuturnamente contro i neologismi insulsi e i barbarismi».2

4) Un’età dell’oro in cui tutti parlavano (o scrivevano) bene non c’è mai stata.

«Salvo i giovanetti di mente sveglia, gli altri, sebbene non stupidi addirittura, arrivano al Ginnasio, passano al Liceo, entrano nell’Università, e finalmente anche nelle professioni, nei pubblici ufficj, nel Parlamento, che non sanno cansare gli errori più ovvj d’ortografia». Come succede per la pelle di certe signore, qui a tradire l’età è proprio la lingua: quel finalmente nel senso di “infine”, quel cansare per “scansare”, quelle -j nel plurale delle parole che finiscono in -io. Per il resto, un brano così potremmo averlo letto in un saggio dell’anno scorso o anche nel giornale di stamattina; non nel Discorso alle scuole elementari di Massalombarda (oggi in provincia di Ravenna) tenuto dal filologo Francesco D’Ovidio nel dicembre del 1871. I lodatori del bel tempo andato parlano sempre di un tempo che non c’è mai stato: questo – sia chiaro una volta per tutte – vale anche per la lingua.

Limitandoci al campo della scuola, indagini recenti ci dicono che i ragazzi non capiscono parole come biasimare: «Su questo ti do ragione = non ti posso biasimare», esemplifica uno studente; e un altro: «Dai, Marco, senza biasimare, prova a camminare sulle tue gambe!». Non va dimenticato, però, che quarant’anni fa la situazione era sostanzialmente la stessa. Loro coetanei iscritti a licei classici e scientifici di Padova non capivano parole come eterogeneo, peculiarità, esigenze, avallare, etico, tutela, ipotizzare; confondevano i significati di reazionario e rivoluzionario; interpretavano la svolta autoritaria come una “presa di posizione decisa”. E fuori dalla scuola le cose non andavano certo meglio. Una ricerca di metà anni Sessanta sulla comprensione del linguaggio politico rivelava che solo il 28% di «un gruppo di agricoltori di Adria» sapeva cosa volesse dire alternativa, e solo il 19% capiva una parola come rimpasto; solo l’8% di «un gruppo di casalinghe di Voghera» (poi passate in proverbio) conosceva il significato di nozione. A essere messo in dubbio – stanti così le cose – era piuttosto il significato di nazione, che dovrebbe basarsi sempre su una cittadinanza consapevole.

Il problema, allora, non è la decadenza o la corruzione dei tempi, il presunto impoverimento della lingua. Il problema è: cosa si è fatto negli ultimi decenni per risolvere questa inadeguatezza? La sensazione è che, di là dagli sforzi di molti insegnanti (e di molti linguisti), si sia fatto troppo poco. Soprattutto in termini di investimento nella scuola, nell’università, nella formazione in generale. Non si è lavorato per innalzare la competenza linguistica (lessicale, testuale) dell’italiano medio: si è provveduto – piuttosto – ad abbassare il livello di tutto il resto.

Il divario tra produzione culturale e consumo di massa (compreso quello tra discorso politico ed elettorato) non si è risolto alzando il livello della cultura di massa (la consapevolezza dell’elettore - quasi mai lettore), ma abbassando quello della produzione culturale, proprio a partire dalla comunicazione politica. Alla fine del 1997, un panettiere di nome Luigi, entusiasta sostenitore del neosenatore Antonio Di Pietro, esaltando il suo modo di esprimersi «schietto e frugale», dichiarava: «Finalmente il partito del popolo ha candidato un uomo del popolo. Uno che sbaglia i congiuntivi come noi...». Sono soddisfazioni.

5) Parole nuove (e straniere) fanno parte da sempre di un continuo e salutare ricambio epidermico.

«Non mai come oggi si sono vedute nei giornali tante rubriche linguistiche; e in tutte c’è un’antipatia, un cruccio, un’ostilità contro l’invasione dei neologismi». Così scriveva Dino Provenzal, nel suo Curiosità e capricci della lingua italiana, 1961. Il bisogno di certezze linguistiche evidentemente non è una novità, così come la diffidenza verso tutto ciò che è nuovo (parole comprese). Troppo spesso si dimentica che tutte le parole che usiamo sono state, un tempo, parole nuove. Quelle tanto temute nel 1961 erano – nella fattispecie – parole come libresco, (stanza di) soggiorno, fantascienza (per tutti quelli che credono che i neologismi li portino gli ufo).

Rimanendo in tema, in un suo dizionarietto intitolato Il neoitaliano (1989), Sebastiano Vassalli definiva «parole aliene», tra le altre, ludoteca e telenovela. Non si era accorto, forse, che il neoitaliano appariva all’epoca già un po’ invecchiato: era il 1966 (ben ventitré anni prima), quando sulla copertina del pamphlet Lingua in rivoluzione campeggiava lo strillo: “Sta nascendo il neoitaliano?”.

Niente di neo sotto il sole, è proprio il caso di dire, con una metafora dermatologica che – nel caso del lessico – risulta particolarmente adatta. Se si prende per buona l’idea della lingua come una sorta di organismo vivente, infatti, si può paragonare il lessico all’epidermide, le cui cellule sono sottoposte a un ricambio rapido e incessante. Racconta lo scrittore Sandro Veronesi, parlando del nonno (nato nel 1904 e morto nel 1985): «Con lui, nei posti, entrava tutto un plotone di vocaboli in estinzione o ricercati, una vera lingua salvata, della quale purtroppo ricordo solo pochi frammenti: la milizia, il frigidèr, il restoràn, il parabrìs, trichesvaine, Margherìt o Tognino per dire tedesco, e poi sbafare, fifa, tafanario...».3

A proposito di parole in via d’estinzione. Sarà bene mantenere una certa diffidenza verso il “pandismo” di chi sembra confondere il World Wildlife Fund (WWF) con il Word Wildlife Fund: vale a dire i – sedicenti – salvatori di parole. Che poi sono spesso riconducibili al profilo dei ben noti profeti di sventura (per cui potete tornare senz’altro al punto 3). L’individuazione delle – presunte – parole da salvare, in effetti, non segue quasi mai un criterio scientifico, fondato sulla documentazione della ricorrenza di quelle parole nell’uso. E finge di ignorare il fatto che la sorte delle parole non è decidibile né prevedibile da chicchessia.

Nel maggio 1994, per dire, la rivista “Il Migliore” lanciò una campagna a favore di parole che sarebbero dovute scomparire «entro il 1998». Tra queste, insieme a frugale e schietto (per cui, neanche a farlo apposta, si può tornare al punto 4), insieme a scorcio, incutere e mite, c’era l’aggettivo sagace, che pochi anni dopo sarebbe assurto addirittura al rango di tormentone grazie al suo uso in uno spot radiotelevisivo con l’attore comico Claudio Bisio.

6) Difendere la purezza di una lingua è assurdo, perché nessuna lingua è mai stata pura.

«Niuna lingua è pura. Non solo non n’esiste attualmente alcuna di tale, ma non ne fu mai», scriveva nel 1800 quello stesso Melchiorre Cesarotti che abbiamo citato all’inizio del capitolo (le leggete le note, vero?). E continuava: «La supposta purità delle lingue, oltre che affatto falsa, è inoltre un pregio chimerico, poiché una lingua del tutto pura sarebbe la più meschina e barbara di tutte quante esistono, e dovrebbe dirsi piuttosto un gergo che una lingua». Idee antiquate? Oltranzismi radicali da veteroilluminista? No: le cose stanno esattamente così.

Chi ama la propria lingua e assume atteggiamenti da purista fa come quegli innamorati asfissianti che, per troppo amore (dicono loro), finiscono col provocare la fine della relazione. Perché «un eccesso di purismo nell’atteggiamento o nelle prescrizioni può accelerare il processo di precarizzazione di una lingua malata». E a dirlo è uno che negli ultimi vent’anni si è battuto con forza contro la morte delle lingue: il sinologo francese Claude Hagège. Bisogna farsene una ragione: il purismo alle lingue fa male. Perché anche la lingua della migliore lana non è né pura né vergine (e questo forse spiega perché c’è sempre chi confonde purista con puritano).

Per avere la controprova, basta guardare su quali parole ed espressioni si appuntavano le censure dei puristi ottocenteschi: pantaloni era un «empio gallicismo», comò parola «orrenda e da riprovarsi in ogni purgata scrittura», all’insaputa espressione «da tollerare per ora nel linguaggio e nelle scritture familiari, e non altro» (se avessero saputo l’uso che ne hanno fatto poi certi politici...). Né va troppo diversamente se lo sguardo si sposta sulle censure del purismo fascista, che nei libri di scuola bandiva – in quanto «francesismi travestiti» – il bleu, ma anche il blu («azzurro, turchino»), il timbro («bollo») e il flacone («boccetta»), il dettaglio («particolare») e persino il rubinetto (che si sarebbe dovuto chiamare «chiavetta»).

Certo, oggi nessuno ha più il coraggio di dirsi apertamente purista. Avete presente quelli che prima di parlar male degli immigrati dicono sempre “premesso che non sono razzista”? Molti, quando si parla di lingua, fanno lo stesso: “Premesso che non sono purista, però tutte quelle parole straniere... tutte queste orrende parole nuove... tutti quegli attimino... e poi a me mi non si può proprio sentire”. Non sono propriamente puristi, sono un po’ puristi: popuristi, insomma (e spesso anche populisti). L’argomentazione principe dei popuristi è che una parola o un’espressione vanno evitate perché suonano male. Sono “cacofoniche”, dicono quelli che vogliono darsi un tono. Forse per questo in passato, quando si parlava di purezza della lingua, si usava spesso l’espressione «lingua purgata».4

7) Nella lingua, il confine tra giusto e sbagliato è molto meno netto di quanto si possa immaginare.

Già alla metà del Seicento, Daniello Bartoli – nel suo Il torto e ’l diritto del non si può – scriveva che i più esperti in fatto di lingua sono sempre restii a pronunciare «un di que’ non si può, che in altri val quanto: non mi piace». Se ci si mette sul piano del gusto, allora bisogna tener conto che il gusto (come la lingua) cambia nel tempo. Per dirla col Bartoli, «chi volesse oggidì comparire in pubblico col cappuccio o col vaio di messer Dante, belle risa che metterebbe di sé a tutto il popolo». (Il vaio, per la cronaca, è la pregiata pelliccia di scoiattolo che nel Medioevo indossavano – come segno di distinzione – magistrati, dignitari e dottori; in anni più recenti si è chiamata petit-gris: la indossava spesso la madre dello scrittore Dino Segre, che infatti scelse di firmarsi con lo pseudonimo di Pitigrilli). Oggi, per limitarsi a qualche esempio, c’è chi dice che cogli “suona male”, ma più d’un secolo fa Vittorio Imbriani ammetteva solo cogli e pegli, trovando disdicevoli tutti quei coni (con i) e quei peri (per i); oggi c’è chi propone di fondare il “Comitato Italiano Anti Diminutivi”, ma nell’Idioma gentile (1905), Edmondo De Amicis inseriva un’accorata Apologia del diminutivo.

Diminutivo per diminutivo, il tipo un momentino peggio era accolto senza commenti dai dizionari ottocenteschi, mentre oggi è censurato anche dal correttore stilistico e grammaticale di Word: «Si consiglia di evitare questo termine, non perché errato, ma perché logoro e abusato», dice. Un correttore particolarmente severo, anche con francesismi diffusi in italiano da secoli (saltare agli occhi, ad esempio: «Per migliorare lo stile del documento si consiglia di evitare l’uso di questo francesismo»). E pronto a condannare senz’appello costrutti accettabili in molti registri di scrittura come ma però: «Questa forma pleonastica è tipica della lingua parlata; si consiglia di eliminare uno dei due termini».

Fermo restando che non si tratta di termini, ma di congiunzioni (chi corregge il correttore automatico?), la diffusa ostilità contro il povero ma però non è affatto giustificata. Si tratta di un rafforzamento intensivo che non ha in sé nulla di strano o di irregolare: «Ma può sommarsi ad altre congiunzioni avversative o sostitutive con effetto di intensificazione: ma però, ma bensì», scrive Serianni nella sua grammatica.

Se ci si mette sul piano della grammatica, bisognerà riconoscere che tra giusto e sbagliato c’è spesso una zona grigia. Alla domanda si può dire?, il linguista non può rispondere quasi mai con un secco o no (Si dice? Non si dice? Dipende! si intitola un recente libro di Silverio Novelli). Perché in una lingua viva la norma non è data una volta per tutte, ma vive in un equilibrio dinamico, che si ridefinisce ininterrottamente in base alla coscienza linguistica collettiva. La norma degli utenti – scriveva Antonio Gramsci nei suoi Quaderni dal carcere – è definita «dal controllo reciproco, dall’insegnamento reciproco, dalla “censura” reciproca»: «tutto questo complesso di azioni e reazioni confluiscono a determinare un conformismo grammaticale, cioè a stabilire “norme” o giudizi di correttezza o di scorrettezza».

8) Usare bene una lingua non significa parlare (o scrivere) come un libro stampato.

Qual è il vero italiano virtuale? L’italiano telematico degli sms, delle e-mail, delle chat o quello che continua a essere insegnato in tante scuole? Da un lato c’è l’evoluzione di una lingua che da almeno trent’anni ha preso a essere usata dalla grande maggioranza degli italiani in quasi tutte le situazioni comunicative (e ultimamente è diventata di uso quotidiano anche nello scritto). Dall’altro, l’atteggiamento di chi continua a trasmettere un’immagine dell’italiano sempre meno aderente alla realtà di tutti i giorni. Recarsi, presso, effettuare; dimenticare e non scordare, prendere e non pigliare, egli e non lui. Mai e poi mai ma però. Davvero? Perché? Ancora? Siamo sicuri che le cose non stiano come racconta la Margherita Dolcevita di Stefano Benni?

Ascoltavo la mia prof preferita, quella di lettere. Stava spiegando che non si dice ma però e neanche ma d’altra parte. Sono pleonasmi, allungano il discorso, e continuava a parlare, parlare e io pensavo che aveva ragione, ma però d’altra parte contemporaneamente d’altronde, per spiegarci di non farla lunga la stava facendo lunghissima, ma però non se ne accorgeva.

Forse basterebbe avere un’immagine meno polverosa – meno libresca, appunto – del nostro italiano. Basterebbe smettere di accostarsi alla lingua usando la vecchia grammatica dei tempi di scuola. Abbandonare l’idea che l’italiano corretto sia come il pappagallo impagliato che l’amica di nonna Speranza tiene accanto al busto d’Alfieri e alle altre «buone cose di pessimo gusto».

Ci si renderebbe subito conto che in una lingua viva e finalmente parlata (e scritta) da quasi tutti gli italiani in quasi tutti gli usi comunicativi, la norma non può che rifrangersi in una pluralità di norme. Se lo sapevo non venivo è un costrutto sbagliato (in astratto), che però funziona benissimo nel parlato o in uno scritto informale, là dove il costrutto tradizionale (se lo avessi saputo non sarei venuto) potrebbe essere avvertito da chi ascolta o legge come troppo ricercato.

Conoscere bene una lingua, insomma, non significa parlare «come un libro stampato» (per usare un’altra frase di Pinocchio), ma essere in grado di muoversi in un’ampia gamma di scelte e di soluzioni, per poter selezionare di volta in volta quella più adatta ed efficace. Tanto più che, ormai, i libri spesso non sono neanche stampati. Forse, per rendere l’idea di com’è cambiato il mondo, dovremmo dire “parli come un e-book”. Solo che, al momento, non è che da un punto di vista linguistico ci sia tutta questa differenza. L’unica vera differenza tra e-book e libri stampati sembrerebbe, allo stato attuale, l’abolizione post-ideologica delle pagine di destra e di sinistra.

Morale della favola

«Se le cognizioni umane dovessero stare ne’ limiti strettissimi che gli assegnano i grammatici» – scriveva Alessandro Verri nella sua Rinunzia avanti notaio al «Vocabolario della Crusca» (1765) – «sapremmo bensì che carrozza va scritta con due erre, ma andremmo tuttora a piedi». Una provocazione ancora valida: non certo per esortare all’anarchia linguistica,5 ma per ripartire dall’idea (illuministica, ancora una volta) che la lingua deve evolversi e progredire di pari passo con la cultura. «Che le parole» insomma «servano alle idee, non le idee alle parole» (per dirla ancora con il Verri).

Se la chiave di tutto è il progresso, l’evoluzione della lingua, ecco allora che diventa fondamentale – per capire meglio cosa sta succedendo e cosa probabilmente succederà nell’immediato futuro – ripartire dalla storia. In mancanza di una visione storica, infatti, il rischio è quello di scambiare fenomeni normali (anche letteralmente: riconducibili, cioè, alla norma linguistica) per clamorosi sconvolgimenti; processi in atto da secoli per il portato – esecrabile o lodevole, secondo i pareri – dell’odierna società della comunicazione.

Come scriveva Giovanni Nencioni (illuminatissimo presidente dell’Accademia della Crusca dal 1972 al 2000): «La storia è un modo di conoscenza che ci rende più umani e meno intransigenti, perché mira a dimostrarci che, se siamo diventati quello che siamo, lo dobbiamo in parte a chi ha vissuto prima di noi. Nella lingua ci addita i motivi di crisi, cioè dei mutamenti in corso, le possibilità di soluzione, l’opportunità di favorire l’una piuttosto che l’altra».

L’Italia – si sa – oltre che un paese di santi, navigatori ed eroi, è anche un paese di grammatici. Già Rodolfo il Glabro narra di un tal Vilgardo da Ravenna, suo contemporaneo, che – correva l’anno Mille – «nutriva per la grammatica una passione più forsennata che costante, come è sempre stato tipico degli Italiani». Secoli e secoli di discussioni non ci hanno ancora sfiancati: sulle norme linguistiche (come sulle formazioni della nazionale di calcio) si è sempre pronti a riaccendere la discussione.

Ma il rischio – il secondo rischio – è quello di guardare ai particolari e perdere di vista il disegno complessivo. Soffermarsi su una questione ortografica o sull’esatta pronuncia di una parola rara va benissimo, a patto che non si trascuri di trasmettere le competenze necessarie per strutturare adeguatamente una frase, un periodo, un testo. Un testo tradizionale, s’intende, non uno dei microtesti a cui ci stanno abituando la scrittura e la lettura digitale. Un testo come un articolo di giornale, che oggi – stando ai risultati di una serie di rilevazioni internazionali – solo una minoranza degli italiani sembra saper leggere e capire davvero.

Il terzo rischio, infine, è quello di rappresentare la norma linguistica come un cumulo di regole arbitrarie, ognuna delle quali fa storia a sé: una specie di catechismo preconciliare fatto di domande secche e di risposte aproblematiche. Pochi sanno che il vocabolo latino grammatica in finlandese è diventato raamattu cioè “bibbia”. «Per noi la lingua è parola di Dio, anche quando in Dio non si crede», scrive Diego Marani nel suo romanzo Nuova grammatica finlandese, «e la grammatica è una scienza esatta, fatta di significati commensurabili e retta da teoremi incontestabili». In inglese, invece, il latino grammatica, passando per il francese grimoire “libro di stregoneria” (in origine “libro scritto in latino, dunque incomprensibile”) e poi per lo scozzese glamer “incantesimo”, ha finito col riferirsi a un fascino diverso da quello della magia nera, e ha dato come esito la parola glamour.6

Il sacro e il profano, l’autorità e la seduzione, la tradizione e la moda: le due anime della grammatica. Ma forse, come spesso capita, la verità sta nel mezzo. In un’idea della grammatica più vicina a quella di Gianni Rodari, che – introducendo la sua Grammatica della fantasia – scriveva:

Io spero che il libretto possa essere ugualmente utile a chi crede nella necessità che l’immaginazione abbia il suo posto nell’educazione ... a chi sa quale valore di liberazione possa avere la parola. «Tutti gli usi della parola a tutti» mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo.

1 Sarà un caso che quest’ultima frase provenga (alla lettera) da un Saggio sulla filosofia delle lingue applicato alla lingua italiana pubblicato nel 1800? Quanto ci rimarrebbe male Melchiorre Cesarotti (l’autore di quel saggio), sapendo che a dispetto dei suoi illuministici sforzi – e degli sforzi di tutti quelli che in questi due secoli l’hanno seguito – quei pregiudizi sono ancora lì quasi intatti?

2 Se vi sta particolarmente a cuore la questione delle parole nuove e delle parole straniere, potete fare subito un salto al punto 5.

3 Per chi non lo sapesse, trichesvaine sta per “bevitore” e tafanario è un modo scherzoso per dire “sedere”.

4 D’accordo, d’accordo: la battuta a qualcuno potrebbe anche suonare non elegantissima. Se volete, potete far finta di scandalizzarvi. Un po’ come Nicola Zingarelli, quando – racconta il figlio Italo – «rincasò furibondo perché in tram aveva letto un avviso di un’acqua purgativa che sotto un’immagine classica della donna amata dall’Alighieri faceva spiccare il verso del II canto dell’Inferno: “I’ son Beatrice che ti faccio andare”. Gli spiegai, per calmarlo strappandogli un sorriso, che chi avesse bevuto con successo quell’acqua avrebbe potuto riprendere la recitazione col verso immediatamente successivo: “Vegno del loco ove tornar disìo” ... Servì a poco».

5 «Se accettate almeno provvisoriamente che il significato sia l’uso e la lingua sia pubblica e la comunicazione sia impossibile senza consenso e regole, vedrete che l’argomento Descrittivista si presta all’obiezione che il suo scopo finale – l’abbandono di regole e convenzioni linguistiche “artificiali” – renderebbe la lingua stessa impossibile. Impossibile come in Genesi, 11, 1-10: letteralmente una Babele. Deve pur esserci qualche regola o convenzione, no?». Così lo scrittore americano David Foster Wallace nel suo Autorità e uso della lingua, pubblicato la prima volta nel 2001 (quello riportato è solo un piccolo stralcio della seconda parte della nota 32 che, tenendo conto anche degli ulteriori richiami asteriscati, occupa poco meno di tre fittissime pagine in corpo minore. Questo per chi dovesse pensare che le note sono solo una cosa da professori).

6 Il quarto rischio (non ultimo) è quello di annoiare mortalmente chi legge, visto che le riflessioni grammaticali e linguistiche possono a volte risultare di una certa pesantezza. Per questo, «a fin poi d’alleviare in parte la noia del leggerle, come altresì a me dello scriverle ... v’ho lasciato scorrer per entro certe poche volte alcuna cosa giuchevole ma innocente» (seguendo, nel mio piccolo, l’esempio di Bartoli e del suo stare sempre dalla parte del torto).