Sembra che Carlo V, quello sul cui impero non tramontava mai il sole, si vantasse del fatto di saper parlare tante lingue: una per ogni occasione. Ovvero – stando a una delle numerose versioni di quest’aneddoto – lo spagnolo per parlare con Dio, il francese con gli amici, il tedesco con i nemici; l’italiano con le donne. E, avrebbe dovuto aggiungere, con gli artisti. A quel tempo, infatti, l’italiano cominciava a diventare per le arti figurative ciò che più tardi sarebbe stato per la musica: la lingua egemone. Quella a cui le altre grandi lingue di cultura attingevano per aggiornare la loro terminologia; quella che gli addetti ai lavori usavano nella comunicazione internazionale. In italiano scriveva Van Dyck nel suo taccuino, quando – davanti ai capolavori di Giorgione o di Raffaello – annotava i suoi schitzi; in italiano scriveva Rubens (da Anversa) ad artisti, mercanti, nobili e intellettuali di tutta Europa; in italiano scriveva Tiziano allo stesso Carlo V per reclamare il pagamento della sua cesarea pensione: «Sperando che il liberalissimo animo del maggior Imperator christiano che fosse mai non vorrà patire che i suoi ordini non siano eseguiti dai suoi ministri».

Significativo che tra le lingue citate nell’aneddoto non ci sia l’inglese.

– Che vi par di questa lingua Inglese, ditemi di grazia.

– È una lingua che vi farà bene in Inghilterra, ma passate Dover, la non val niente.

– Dunque non è praticata fori in altri paesi?

– Signor no, con chi volete che parlino?

Questo scambio di battute proviene da una raccolta di dialoghetti pubblicata a Londra nel 1578 (i First fruits di John Florio) e pensata proprio per chi voleva imparare la lingua italiana. Esigenza tutt’altro che rara, visto che nell’Inghilterra di quel tempo «coloro che son onorati e gentili uomini», consapevoli che «la lingua inglesa non viene in uso se non dentro quest’isola, se stimarebbono salvatici, non sapendo altra lingua che la propria naturale»; e dunque – come racconta Giordano Bruno nella Cena delle ceneri (1584) – studiavano «o latino, o francese, o spagnolo, o italiano».

La prima a studiare italiano era proprio la regina. Il 6 gennaio del 1601, Virginio Orsini – duca di Bracciano e accademico della Crusca – viene ricevuto a corte da Elisabetta I, che lo accoglie (come racconta lo stesso Orsini alla moglie) «parlando così bene italiano e dicendo tanti belli concetti che io posso dire d’aver preso lezioni dal Boccaccio o nella Accademia». Tutto questo italianismo, però, non era visto di buon occhio: «Inglese italianato, diavolo incarnato» era uno dei proverbi che circolavano all’epoca.1

Negli ultimi anni, invece, a far paura è proprio l’invasione degli anglicismi. Da qualche tempo anche in Cina – è la globalizzazione, baby – si cominciano a adottare misure protezionistiche, imponendo di ridurre al minimo parole ed espressioni inglesi, e in ogni caso di accompagnarle con la traduzione in cinese. «Allo stesso modo in cui il latino dà a seconda dei casi il rumeno e lo spagnolo, l’italiano e il francese», scriveva René Étiemble nel 1964, «l’americano d’oggi produrrà l’italglese, il germanglese o il franglais». Mezzo secolo dopo, sono ancora in molti – in tutta Europa – quelli che non perdono occasione per rilanciare l’allarme. Nel luglio 2013, ad esempio, un articolo dell’“Economist” raccontava le reazioni tedesche all’irresistibile avanzata del Denglish o Engleutsch (proprio a partire da quello shit sfuggito alla cancelliera Merkel di cui s’è detto nel capitolo precedente). Già nei primi anni Ottanta, peraltro, c’era chi parlava di Deutschglish e l’ibrido franglais – «francese lardellato d’inglese», come lo definisce Bruno Migliorini – era stato coniato nel lontano novembre 1955.

Quanto a ibridi (almeno a nomi ibridi), da noi c’è stato appunto l’italglese, etichetta usata in passato per indicare alcuni vezzi di pronuncia: «Quelle canzoni dal falso inglese o dall’italiano pronunciato all’americana (l’italglese), accompagnate dalla musica pseudo-pop di cui non vale la pena parlare», si leggeva in un numero della rivista “Il dramma” del 1974. Ad affiancarlo, negli anni Settanta, anche itangliano: Parliamo itang’liano: ovvero, le 400 parole inglesi che deve sapere chi vuole fare carriera, s’intitolava un fortunato librettino apparso nel 1977 per i tipi di Rizzoli e la firma pseudonima di Giacomo Elliott.

Ma il termine che ha avuto negli anni la storia più lunga è italiese. L’invenzione sembra sia da attribuirsi al critico teatrale (e appunto anglista) Gabriele Baldini, che nei primi anni Sessanta parlò retroattivamente di italiese a proposito del teatro in italiano di Pirandello: «Una commedia italiana che non sia in dialetto ha sempre l’aria di essere stata tradotta dall’inglese o dall’americano. Il risultato è una lingua che potrebbe chiamarsi “italiese”, che non si parla nella vita e neppure nei romanzi». Il riferimento – quindi – era più che altro a un falsetto, a un gergo teatrale considerato estraneo alla lingua di tutti i giorni. La definizione piacque a Ennio Flaiano, che nel 1967 ne trasse lo spunto per il suo Prontuario d’Italiese. Niente più, in realtà, che una piccola antologia di quegli strafalcioni chiamati dai linguisti malapropismi: «Saluti dalle pernici del Monte Bianco; si sono tutti alcolizzati contro di me; in quanto a idee politiche io e lei siamo agli antilopi; le zucchine mi piacciono trafelate; si accorse di essere incinta perché non le venivano le amministrazioni; la sera ci mettiamo sulla veneranda a guardare il paesaggio; mia moglie fa una cura contro le vene vanitose; ma questo lo discuteremo in separata sedia; ha un completo di inferiorità».

Tra gli anni Sessanta e Settanta – forse proprio a causa di un certo complesso d’inferiorità – italiese acquisì rapidamente altri significati. Lo troviamo usato da Tullio Chiarioni per indicare gli pseudoanglicismi, ovvero quelle parole che in italiano si usano ritenendole inglesi, ma in inglese non esistono o hanno un altro significato (come il jolly o la miss, lo smoking, il frack e il tight, la spider e il beauty case). Da Gianrenzo P. Clivio per indicare la mistura di italiano e di lingua locale parlata dai nostri emigranti in Canada (poi per la stessa realtà in altri paesi di lingua inglese, come gli USA e l’Australia). E da Claudio Quarantotto (fin dal gennaio 1966), per indicare quell’italiano che gli italiani in Italia infarciscono sempre più di parole inglesi o anglicizzanti.

– Non sai chi è Joe Di Maggio, mami?

– Nando!

– È una cosa complicata, vero? Joe Di Maggio è un giovane italiano, mami, che da bimbo fu trasferito nel Kansas City.

– Oh, ce risemo co ’sto Kansas City!

– Questo intrepido bimbo prese la mazza e ha sposato Marilina. Se anch’io da bimbo, mami, fossi stato trasferito nel Kansas City ... invece so’ stato bloccato dalla scarlattina ... do you remember mami quando ho ricevuto la scarlattina? You don’t remember?

La moda dell’american way of life comincia in Italia dopo la fine della Seconda guerra mondiale, ed esplode negli anni Cinquanta. Il film Un americano a Roma (da cui lo scambio di battute riportato qui sopra) è del 1954; solo tre anni dopo, Renato Carosone incide Tu vuo’ fa l’americano: «Tu vuoi vivere alla moda / ma se bevi whisky and soda / poi te senti disturbà / tu abballi o roccheròl / tu giochi a beisebòl / ma i soldi pe’ camèl / chi te li dà? / la borsetta di mammà».

E proprio in quegli anni, in molti manuali sul buon uso della lingua, le parole e le espressioni inglesi cominciano ad affiancare (nelle liste di proscrizione, neanche a dirlo) quelle francesi. Così, ad esempio, Eugenio Treves nel suo Si dice? (1951) ricorda che «due púgili (e non due boxeurs) entrano nel recinto o salgono sul quadrato (e non nel ring) per misurarsi in una gara (e non in un match) di dieci tempi (e non di dieci rounds); che in un negozio o in un laboratorio (pardon, atelier!) la première è, da noi, la prima commessa o la prima lavorante o, semplicemente, la prima; che quando si è ammalati bisogna rassegnarsi a stare a letto, due, tre, dieci, quanti giorni occorrono e non è affatto necessario guardare il letto» (vecchia espressione francesizzante osteggiata dai puristi).

Bruno Migliorini, da parte sua (La lingua italiana d’oggi, 1958), ironizza su marrons glacés, lapin, viveur, oltre che su record, gol e il solito ring, concludendo ottimisticamente: «Del resto chi penserebbe a tornare indietro e a dire régisseur in luogo di regista, oppure a chiamare di nuovo meeting quello che ormai tutti chiamano comizio?» (nel caso della parola francese aveva ragione, nel caso di quella inglese no). E Leo Pestelli (sempre nel suo Parlare italiano, 1957) si scaglia contro «quelli che tengono in vita il toccante, il complotto, il punto di vista e altri gallicismi da galera».

Fino alla Seconda guerra mondiale, d’altronde, il nemico da sconfiggere era stato proprio il francesismo. Nel Barbaro dominio, pubblicato nel 1933 da Paolo Monelli, su cinquecento parole straniere prese in considerazione soltanto il 15% proveniva dall’inglese: il resto quasi tutto dal francese. E di provenienza francese era anche la grande maggioranza delle parole ed espressioni contenute nei quindici elenchi di esotismi pubblicati dal “Bollettino di informazioni della Reale Accademia d’Italia” tra il 1941 e il 1943.

Ai lavori della Commissione per l’italianità della lingua presero parte scrittori come Marinetti, Bacchelli, Bontempelli e linguisti come Antonino Pagliaro e lo stesso Migliorini; ma l’ultima parola spettava sempre a Mussolini. Persino lui riteneva che in alcuni casi – ormai troppo radicati nell’uso – convenisse convalidare esplicitamente la legittimità del termine straniero, come scriveva in una riservata del 3 agosto 1941 (l’esempio che faceva era quello di bidet). Allo stesso modo, la Commissione ritenne insostituibili altre parole francesi come babà, bazar, cognac (e anche alcune inglesi: bar, film, tennis); altre volte si limitò a intervenire sulla grafia (sufflè, bignè, ragù; ciac e giàz; vafer e valzer; vodca) o sulla vocale finale (alcole, brioscia, festivale e – da pedicurepedicuro “se uomo”, pedicura “se donna”).

Ma non sempre questo adattamento fu ritenuto sufficiente: per yoghourt, ad esempio, si propose in un primo momento la iogùrt (al femminile), poi si preferì latte bulgaro; se per il Saint-Honoré ci si era accontentati di Sant’Onorato, per la Chateaubriand si propose granfiletto e per flacon non flacone, ma boccetta, bottiglietta, fiala; per bijouterie non bigiotteria, ma conteria; per purée non purea, ma passato. L’intento, insomma, era stanare anche quelle che nel già citato Correttore degli errori più comuni (1936) erano chiamate Parole italiane usate alla francese: «fammi vedere il piano della nuova costruzione» (da sostituire con disegno); «il bordo del mio vestito è già un po’ consumato» (orlo); «oggi Eugenio è una celebrità» (persona celebre); anche «fin da ragazzo Leopardi mostrò di possedere un grande talento», da correggersi con «un grande ingegno», perché «talento significa voglia, desiderio: è male usato a significare ingegno».2

Col senno di poi, ci fa sorridere l’idea che al bar (per l’appunto) si potesse ordinare una gineprella (gin) o un arlecchino (cocktail) e al ristorante uno sfritto di cozze (sauté); che un bambino potesse chiedere una tenerella (caramella mou) e un uomo di successo potesse raggiungere con la sua trasformabile (cabriolet) una sala di danze (dancing) e lì, vestito in giacchetta da sera (smoking), ballare una volpina (fox trot). Eppure, proprio come prevedevano queste liste, oggi non balliamo lo slow, ma il lento; nessuno dice più guichetier per bigliettaio o chèque per assegno; tutti mangiamo ancora l’uovo alla coque, ma nessuno lo fa brouillé (strapazzato), poché (in camicia) o sur le plat (al tegamino). Alcune parole continuano a usarsi accanto al corrispondente italiano (omelette/frittata, chef/cuoco, lingerie/biancheria); altre – châssis, réclame o parebrise – riportano ormai ad atmosfere d’antan.

Basta pensare a serie sinonimiche italiano/francese/inglese come trucco/maquillage/make up o modella/mannequin/top model: il vocabolo italiano è quello non marcato, quello francese ha addirittura una patina di vecchio (démodé, volendo usare un altro francesismo); quello inglese, invece, è caratterizzato da un alone di prestigio. Ed è proprio questo prestigio a favorire l’uso di parole inglesi o americane la cui provenienza straniera sia chiara fin dalla grafia, fin dalla pronuncia. Quell’aura che le porta a essere sentite come parole a vario titolo migliori – perché di volta in volta tecniche, scientifiche, autorevoli, divertenti, alla moda – andrebbe persa se si ricorresse a una parola italiana, anche se questa fosse simile nel suono e perfettamente sovrapponibile nel significato.

Il che vale anche per tutti quei casi in cui l’anglicismo serve semplicemente a occultare realtà sgradevoli. Cos’è l’eros center se non una sorta di postribolo legalizzato?, si chiedono Claudio Giovanardi e Riccardo Gualdo nel loro Inglese-italiano 1 a 1, e propongono di sostituirlo con bordello (sembra di sentire l’eco di quel puttanambolo proposto da un lettore del quotidiano fascista “Il Tevere” per sostituire l’allusivo francesismo tabarin). E in uno dei racconti di Pausa caffè (2004) in cui Giorgio Falco descrive la concitata vita quotidiana di un call center, si legge: «Urlo call wait call wait il capo del mio capo dice va bene ma ti do un feedback un feedback è uno che ti vuole fottere in inglese».

Proprio in forza di quest’aura cosmopolita, anche nella lingua dei politici il latino filosofico-giuridico ha lasciato il posto – ormai da qualche decennio – all’inglese managerial-finanziario (governance, welfare, blind trust). Per dirla con Gian Antonio Stella: al vecchio latinorum, quello con cui Don Abbondio cercava di confondere le idee a Renzo, si è sostituito l’inglesorum con cui la politica cerca di abbagliare i cittadini. Il riferimento era ad alcuni termini usati molto spesso dall’allora ministro delle Finanze Giulio Tremonti (welfare, deregulation, authority bancaria, bad bank, spoil system, venture capital). Molti di questi sono ancora oggi sulla bocca di politici e giornalisti, e nel frattempo molti altri se ne sono aggiunti, fino ai più recenti spending review o jobs act.

Verrebbe quasi da dire che siamo in pieno trend negativo. Ma non solo rischieremmo, come la giornalista di Palombella rossa, di scatenare la giusta ira di chi la pensa come Nanni Moretti («Io non parlo così! Le parole sono importanti! Chi parla male, pensa male e vive male!»). Finiremmo anche col dire una cosa vera solo in parte. Questa sensazione di essere invasi dalle parole inglesi, infatti, potrebbe essere paragonata a quella temperatura percepita di cui tanto spesso si sente parlare nei telegiornali estivi. Come ci hanno spiegato i meteorologi, a una temperatura obiettiva (misurabile tramite il termometro), corrisponde – nelle calde giornate d’estate – una temperatura percepita più alta, perché condizionata dal notevole tasso di umidità. Quello che succede per gli anglicismi non è molto diverso: una presenza obiettiva contenuta in percentuali fisiologiche viene avvertita come preoccupante invasione perché amplificata dai mezzi di comunicazione di massa.

Se si guarda ai dati obiettivi, infatti, all’inizio degli anni Sessanta l’incidenza degli anglicismi integrali era al di sotto dell’1% del patrimonio lessicale dell’italiano; oggi – stando a quanto si può ricavare da tutti i principali dizionari dell’uso – raggiunge all’incirca il 2%. Una percentuale che si abbassa drasticamente se ci si limita alle parole usate con maggiore frequenza: in quello che i dizionari chiamano «vocabolario di base» le parole inglesi non superano lo 0,5% e negli unici dati disponibili sul parlato (risalenti al 1993) si scende fino allo 0,2%.

Uno dei motivi della scarsa presenza di anglicismi nel parlato e nel lessico di base va cercato nel fatto che molti di questi vocaboli appartengono alle terminologie di vari linguaggi tecnici o scientifici: quasi un quarto degli anglicismi, per il dizionario Sabatini Coletti, è costituito da tecnicismi; per il Grande Dizionario Italiano dell’uso diretto da Tullio De Mauro i tecnicismi sono più della metà. Il che ci dovrebbe riportare alla memoria quanto Leopardi scriveva nel suo Zibaldone il 18 aprile 1822:

Rinunziare o sbandire una nuova parola o una sua nuova significazione, per forestiera o barbara ch’ella sia, quando la nostra lingua non abbia l’equivalente o non l’abbia così precisa e ricevuta in quel proprio e determinato senso, non è altro e non può esser meno che rinunziare o sbandire e trattar da barbara e illecita una nuova idea e un nuovo concetto dello spirito umano.

Rinunciare alle parole straniere, quando queste portano con sé un nuovo concetto o una nuova idea, vuol dire condannarsi al provincialismo e all’arretratezza culturale. Certo: l’italiano virtuale dei mezzi di comunicazione rischia, in prospettiva, di condizionare pesantemente la lingua di tutti i giorni. Stando all’amplissimo lemmario del Grande Dizionario Italiano dell’uso, gli anglicismi risalenti al periodo 1990-2003 sono 1417: in meno di quindici anni sarebbe entrata in italiano una massa di parole inglesi pari quasi a un terzo di quelle entrate in tutta la storia dell’italiano; più del doppio di quelle giunte nel decennio precedente. E sulle 306 parole che nello Zingarelli 2015 risultano entrate in italiano nel XXI secolo, ben 125 sono inglesi o create a partire da parole inglesi: più del 40% (da acquaspinning a Wi-Max, passando per app, blog, cloud, hashtag, podcast, tablet, tweet).

Una progressione impressionante, se non fosse dovuta – in buona parte – a un’illusione ottica. Sull’ultima schiera di anglicismi, infatti, non è ancora passata la scure del tempo che ha già falcidiato i prestiti giunti nel passato, come da sempre avviene nella storia delle lingue (così, ad esempio, francesismi di gran moda nel Settecento come tabouret “comodino”, andrienne “veste femminile” o poudre blonde “cipria” sono scomparsi da molto tempo senza lasciare traccia). Forse Roberto Benigni esagerava quando, un paio d’anni fa, commentando l’articolo 6 della Costituzione (quello che garantisce le minoranze linguistiche), diceva che «bisognerebbe organizzare, come il family day, un giorno a difesa della nostra lingua: l’italian language day».

1 Tra gli italianati può essere annoverato già Robert de la Pole, il personaggio che Maria Bellonci immaginò come corrispondente epistolare di Isabella de’ Medici nel suo Rinascimento privato (1985): «Illustrissima Signora, forse avrete notato che dilungo il mio scrivere; e questo faccio per illudermi di starmene a ragionare con voi. Temo che il mio linguaggio sia poco ornato. Sebbene da tanti anni viva in Italia e mi diletti infinitamente della lingua italiana cosiddetta volgare, tutta piena di confluenze verbali che la fanno aperta a qualsiasi scelta, dentro di me sono sempre inglese, o anglico, come dite voi».

2 Nell’Itabolario curato qualche anno fa da Massimo Arcangeli (un originale vocabolario a più mani che ricostruiva 150 anni di Italia unita attraverso 150 parole chiave) quasi un quinto dei lemmi era rappresentato da vocaboli stranieri. Soprattutto francesi fino agli anni Cinquanta (da chic a festival); poi quasi tutti angloamericani, con punte – negli ultimi trent’anni – di quattro o cinque per decennio. L’apporto complessivo aumenta fino a un terzo del totale se si tiene conto dei vocaboli di origine straniera mimetizzati in italiano. Appartengono a questa categoria anche parole che oggi sentiamo italianissime come arrangiarsi (definito a fine Ottocento dal Lessico dell’infima e corrotta italianità di Fanfani e Arlìa «verbo francioso de’ dialetti cisalpini») o associamo a realtà italianissime come funicolare (da machine funiculaire). E lo stesso vale per altri francesismi come moda, cinematografo, metropolitana o per parole modellate sull’inglese come guerra fredda e minigonna. «Italiani, boicottate le parole straniere», esortava la propaganda fascista: peccato che la stessa boicottaggio derivi – attraverso il francese boycottage – dall’inglese to boycott, a sua volta dal nome del capitano Charles Cunningham Boycott, tirannico amministratore delle tenute della contea irlandese di Mayo.