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Credo anch’io che il congiuntivo sia morto
Non c’è più il futuro di una volta, dice qualcuno.
Se è per questo neanche il congiuntivo. «Io credo che tu abbi in capo una mala intenzione»; «benché tu vadi per una strada ... e io per un’altra»; «in conclusione, io ti credo che mi sii sorella». Non è Paolo Villaggio, che pure ha pubblicato pochi anni fa un libro intitolato Mi dichi; non è Totò («ma mi faccino il piacere!») e neanche Lapo Elkann, già premiato col Tapiro d’oro per l’uso molto disinvolto dei congiuntivi. È proprio il nostro Giacomo Leopardi, nella sua prosa più sostenuta e classicheggiante: quella delle Operette morali.
Può suonare strano, in effetti, ma ancora per tutto l’Ottocento il tipo che tu vadi (solo alla seconda persona) era prescritto dalle grammatiche come equivalente – per alcune addirittura preferibile – al tipo che tu vada. La ragione va cercata nell’ossequio alle cinquecentesche indicazioni di Pietro Bembo (sempre lui, quello delle Prose della volgar lingua), a loro volta fondate sulla grande ricorrenza di queste forme nei classici del Trecento toscano: «perché non ti facci maraviglia» (Dante), «ove che tu vadi», «che su per lo tetto tu venghi stanotte di qua» (Boccaccio).
Con ciò sia cosa che tu incominci pur ora quel viaggio del quale io ho la maggior parte, sì come tu vedi, fornito, cioè questa vita mortale, amandoti io assai, come io fo, ho proposto meco medesimo di venirti mostrando quando un luogo e quando altro, dove io, come colui che gli ho sperimentati, temo che tu, caminando per essa, possi agevolmente o cadere, o come che sia, errare: acciò che tu, ammaestrato da me, possi tenere la diritta via.
Racconta Vittorio Alfieri che da giovane, «alla vista di quel primo Conciossiacosaché, a cui poi si accoda quel lungo periodo cotanto pomposo», preso da «un tal impeto di collera», aveva «scagliato per la finestra» l’opera in questione, per secoli considerata modello di buona lingua oltre che di bon ton. Eh sì, perché l’opera che si apre con quel lungo periodo «sì poco sugoso» è il Galateo di monsignor Giovanni Della Casa, composto tra il 1551 e il 1555 e pubblicato postumo nel 1558.
Oggi, forse, uno studente lo frullerebbe dalla finestra anche per via di quei due possi, congiuntivi che nessun galateo linguistico può più accettare. Ma appunto sbaglierebbe, perché – l’abbiamo già detto, ma non si ripeterà mai abbastanza – la lingua cambia nel tempo e modifica pian piano la percezione di determinate forme. Forme che da corrette possono diventare scorrette, ma in sé non sono – e non sono mai state – né belle né brutte. Chi se la prende con «il fantozziano vadi, l’orrendo facci, il terrificante venghi» applica categorie estetiche del tutto fuor di luogo, dato che – come abbiamo visto – vadi era già forma leopardiana, facci dantesca, venghi boccacciana.
Certo: questo non giustifica il senatore Lorenzo Bodega, che intervenendo in Parlamento ha detto «non ci precludiamo la speranza che l’esito del vertice europeo segui l’atteso cambio di rotta» o l’allora sindaco di Roma Gianni Alemanno, che – parlando nell’aula magna del liceo Giulio Cesare – si lasciò sfuggire qualche anno fa uno «spero vi servi». Il primo si è poi giustificato prendendosela con una cattiva lettura degli appunti: «In tutta evidenza, non ho inteso pronunciare alcun segui, bensì un segni (verbo segnare): leggendo il testo degli appunti scritto a mano, la n, come a volte accade, è stata scambiata per una u». Il secondo ha onestamente ammesso l’errore, e alla fine della sua conferenza si è rappacificato con un ragazzo che aveva lasciato l’aula in segno di protesta («quelli del classico a certe cose ci tengono», ha ironizzato coi giornalisti).
Ma il problema del congiuntivo – potrebbe obiettare qualcuno – non è tanto nelle forme, quanto nel mancato uso. Come per il «basta che vi decidete» di uno spot radiofonico commissionato nel 2007 dall’allora governo Prodi, o per il «vorrei una scuola che boccia» di Pierferdinando Casini, o per l’«io ritengo che questa vicenda dimostra che lui è un prepotente» di Massimo D’Alema (notava con malizia un giornalista: «Per ben trentaquattro volte Baffino ha abbattuto il congiuntivo durante l’ora e mezzo di dibattito alla festa dell’Unità di Roma dell’altra sera. L’insistenza è stata talmente sorprendente da imporre un riascolto dell’intervento. Nel calcolo non abbiamo contato le ripetizioni di concetti simili. Comunque una strage»). In epoca di prima Repubblica, Luciano Satta citava il presidente del consiglio Bettino Craxi («io credo che c’è»; «io penso che le nostre possibilità sono limitate»; «ho l’impressione che mi avete portato fuori strada») e concludeva chiosando: «Il potere logora i congiuntivi di chi lo detiene».
Che dire, però, di frasi come «penso che gli antichi valevano ... ciascuno per quattro di noi» (Leopardi, Operette morali), «credo che i Giulente sono nobili» (De Roberto, I viceré), «mi pare che deve essere così» (Nievo, Le confessioni d’un italiano), «penso che è sciocco» (D’Annunzio, Il piacere)? Che dire di periodi ipotetici come «s’io v’era con saldi chiovi fisso, / non devea specchio farvi» (Petrarca, Canzoniere: chiovi sta per “chiodi”, devea per “doveva”) o come «forse nol facea, se più tardava» (Ariosto, Orlando furioso)? La prospettiva storica, come sempre, attenua e relativizza; modera l’intolleranza normativa, perché – anche in fatto di lingua – le cose sono sempre più complicate di ciò che sembra.
Forse anche per questo la sorte del congiuntivo non smette di appassionare gli italiani. Dal 1992 a oggi, “la Repubblica”, “La Stampa” e il “Corriere della Sera” hanno dedicato al tema almeno dieci articoli all’anno: più che alla teoria della relatività. Dagli articoli si deduce che nella percezione collettiva il congiuntivo è un po’ come il colesterolo. C’è il congiuntivo cattivo, da eliminarsi, perché additato come colpevole dell’oscurità dei testi burocratici. C’è – molto più diffuso – il congiuntivo buono, descritto con l’affetto che si riserverebbe (viene da dire) a un congiunto. Che però assume quasi sempre le fattezze del caro estinto, in base alla radicatissima convinzione che la famigerata morte del congiuntivo lasci spazio, ormai, solo all’elaborazione del lutto.
Non sarà un caso che quando nel 1990 l’Accademia della Crusca – per rispondere ai dubbi linguistici dei parlanti – prese a pubblicare il periodico “La Crusca per voi”, il primo dubbio del primo numero riguardasse proprio la cosiddetta morte del congiuntivo. Scrivevano gli alunni della scuola media Leon Battista Alberti di Mantova: «Si dice che il congiuntivo è morto» (è morto – non sia – come a fornirne la prova provata), «è proprio vero?».
Quella del congiuntivo sembra davvero la cronaca di una morte annunciata. Nel 1956, Franco Fochi aveva intitolato un suo saggio Credo che può bastare, denunciando la diffusione dell’indicativo in questo tipo di frasi e individuando nella capitale il focolaio del contagio. Dieci anni dopo, nel suo Lingua in rivoluzione, ribadiva l’accusa: «Colpevole, non del difetto come tale, ma del solecismo promosso a regola, del lazzarone eletto deputato, è chiaramente Roma». Roma e i tanti romani che si sentivano parlare in televisione, come Mario Riva, conduttore del seguitissimo programma “Il musichiere” («prometta Riva in modo tassativo / d’usare qualche volta il congiuntivo»).
«Il congiuntivo sta per lasciare per sempre il discorso dove un tempo aveva regnato da signore incontrastato», commentava contrito – nel suo Più stile all’italiano, 1968 – Antonio Frescaroli; lasciando aperto, tuttavia, ancora uno spiraglio: «Il congiuntivo sta morendo; ma l’agonia non è ancora la morte». Anche se la morte, stando ad altre autorevoli diagnosi, era già stata decretata una ventina d’anni prima: «Come in tutti gli esami di concorso», si leggeva nel 1950 in un numero della rivista “Il Ponte”, «si constata che la scuola non insegna più la lingua italiana, sì che si scrive sgrammaticato e senza sintassi (c’è tra l’altro nei giovani la morte del congiuntivo)».
Coloro che gli dèi amano muoiono giovani, dicevano i greci. Solo che qui si tratta di una morte apparente, come quelle romanzesche di Sandokan o del Conte di Montecristo; come quelle favolose di Biancaneve o della Bella addormentata. O forse soltanto di una morte presunta, come quella del Fu Mattia Pascal di Pirandello. Nonostante gli innumerevoli necrologi, infatti, il congiuntivo continua a circolare tranquillamente in tutta Italia (anche se forse un po’ in crisi d’identità).
A confermarne lo stato di salute tutt’altro che drammatico, sono proprio quegli stessi giornali che da tempo rilanciano la notizia della sua morte. In un campione di articoli scelti tra quelli pubblicati nel “Corriere della Sera”, nella “Repubblica” e nella “Stampa” tra il 1992 e il 2009, gli indicativi usati al posto di un congiuntivo obbligatorio non superano il 5%, e nei contesti in cui la scelta tra i due modi è legittima rimangono stabili al di sopra del 70%.
“E nei testi scritti in rete?”, si potrebbe chiedere qualcuno. Una ricognizione in Google fatta il 17 maggio 2009 da Valeria Della Valle e Giuseppe Patota per il loro Viva il congiuntivo! dava come esito 1.634.500 pagine per la stringa penso che siano, 567.400 per penso che sono. La stessa ricognizione, ripetuta il 28 gennaio 2014, forniva risultati meno incoraggianti (penso che siano 24.700.000 / penso che sono 121.000.000); né le cose cambiavano provando con la seconda persona plurale: penso che siate dava circa 4.180.000 risultati, penso che siete ben 30.100.000 (quasi otto volte tanto). Nelle scritture del web, bisogna ammetterlo, il congiuntivo sembra essere un po’ in ribasso.
Tutt’altra storia nei fumetti: negli ultimi vent’anni, il congiuntivo è stato usato scrupolosamente da Paperone («immagino che tu sia venuto a batter cassa!»), ma anche da Tex Willer («non credo che Miller sarebbe dispiaciuto se ci rimettessi la pelle») e da Diabolik («mi fa piacere che non siate scettico»). E lo stesso succede in televisione. Dai Simpson, per dire, il congiuntivo è di casa: «Vuoi che io trascorra più tempo con papà?», chiede Homer riferendosi al decrepito nonno; «ritengo che tu sia troppo piccola per indagare su un tentato omicidio» dice altrove Marge – protettiva – alla piccola Lisa, che nella stessa puntata affermava: «Non sappiamo neanche di chi sia la pistola» (forse invece di “parli come un libro stampato”, dovremmo cominciare a dire “parli come un cartone animato”).
Alla faccia degli stereotipi tanto diffusi sull’impoverimento linguistico causato dalla televisione,1 il congiuntivo tiene bene non solo nei cartoni animati – e più in generale nella tv per bambini e ragazzi –, ma anche nelle telecronache sportive, in diverse trasmissioni d’intrattenimento e nel parlato simulato delle fiction («siete due anime limpide: basterà che vi parliate con calma e tutto si metterà a posto», Elisa di Rivombrosa).
E poi domina, un po’ inaspettatamente, nei testi delle canzoni di successo. Altro che dismesso, dimenticato, polveroso: studiando le hit parade degli ultimi anni, viene quasi il dubbio che il congiuntivo sia (diventato) un modo alla moda. Lo si trova molto più spesso dell’indicativo nelle subordinate concessive («nonostante tu sia / la mia rondine andata via», Mango), nelle completive («quando pensi che sian troppe le parole», Negramaro) e nelle interrogative indirette («hanno ucciso l’uomo ragno / chi sia stato non si sa», 883); anche in pacifica convivenza col turpiloquio: «So solo che se ti vedessi / sarei più stronzo di ciò che ti aspettassi» (Tiziano Ferro).
Pure quelli che, come Ligabue, predicano male («nelle canzoni rinuncio di frequente ai congiuntivi quando sento che si oppongono a una sensazione di parlato che in certi casi mi sembra necessaria»), in realtà razzolano bene: «Può darsi non sia tutto come lo sognavi tu» (Con queste facce qui), «non mi spiego mai perché / io non riesca a metter via te» (Ho messo via), «credo che ognuno si faccia il giro come viene» (Almeno credo). Né le cose stanno diversamente nel rock più trasgressivo: bastino passaggi come «e tu vuoi fare qualcosa che serva / e farlo prima che il tuo amore si perda» negli Afterhours di Manuel Agnelli o «ci sarebbe da scoprire tutto ciò che è da apprezzare / me la sento: sarebbe bene ne potessimo parlare» nei Marlene Kuntz di Cristiano Godano (Godàno, qui il congiuntivo non c’entra).
Certo, si trovano – anche nelle canzoni – clamorosi esempi di congiuntivi mancati: dalla Carezza in un pugno cantata da Celentano nel 1968 («ma non vorrei che tu / a mezzanotte e tre / stai già pensando a un altro uomo») fino al brano con cui Arisa ha vinto l’ultimo Festival di Sanremo («brucia nelle vene come se / il mondo è contro te e tu non sai il perché»). E d’altra parte la canzone italiana ha tutta una sua tradizione di errori grammaticali: a scopo comico («ho soffrito tantissimo che non mi ricordo neanche più / non farmi più soffriggere» Enzo Jannacci, Ho soffrito); espressivo («il paese era molto giovane / i soldati a cavallo era la sua difesa» Francesco De Gregori, Buffalo Bill); o ingenuamente trasgressivo, come in Jovanotti: «A me mi piace / pensare che tra un’ora / sarà più meglio sì / più meglio ancora / ma però bisogna che ci stiamo / anche se poi dicono / che ce la tiriamo» (Ci provo gusto). Il fatto è che a parlare come un libro stampato, si sa, non si riesce troppo simpatici: «Errori di grammatica / lei non ne fa / e senza errori non si ha mai felicità» (Ornella Vanoni, Dettagli).
1 A proposito di lingua della televisione, avete mai pensato al paradossale destino toccato a Mike Bongiorno? Al momento della sua morte, molti l’hanno salutato quasi come un altro padre della lingua («uno straordinario traghettatore verso l’italiano di massa», l’ha definito Francesco Sabatini). Cinquant’anni prima, però, gli intellettuali lo avevano ridicolizzato per quello che chiamavano il suo «basic italian». «Abolisce i congiuntivi, le proposizioni subordinate, riesce quasi a rendere invisibile la dimensione sintassi», scriveva Umberto Eco nel 1961. E negli stessi anni Tullio De Mauro descriveva quello di Mike Bongiorno come un «parlato informale standard, povero lessicalmente, sintatticamente precario». L’esempio era tratto dalla puntata di “Lascia o raddoppia?” dell’11 febbraio 1956: «Guardi, questa sera le dobbiamo dire due cose molto belle: la prima è che nell’evenienza che lei non raddoppi questa sera, c’è un gruppo di persone, che non so bene quale gruppo sia, che le costruirà un appartamento che lei potrà andare ad abitare il giorno in cui si sposa». Un brano che, a rileggerlo oggi, ci colpisce non solo per l’«infilata di che a cannocchiale», ma anche – e forse di più – per l’attento uso del congiuntivo, per l’osservanza della consecutio temporum, per la rispettosa formalità del le (e ovviamente del lei: oggi tutti i conduttori danno del tu ai concorrenti).