Prologo
Era il 10 giugno 1987. La scuola stava per finire, e in quel pomeriggio nuvoloso e sfaccendato sfogliavo il giornale rimasto sul tavolo del salotto, a casa del mio migliore amico. La sera l’Italia doveva giocare un’amichevole con l’Argentina campione del mondo, ma le pagine della cultura venivano prima di quelle dello sport. E nelle pagine della cultura c’era uno speciale su Leopardi. Quattro pagine dedicate al «poeta di Recanati» in occasione del 150° anniversario della sua morte. A colpirmi fu il titolo di un articolo che scendeva giù a sinistra in tre colonne: Quel bilioso ranocchietto.
Cominciai a leggere distrattamente. «Ieri fui da Cancellieri, il qual è un coglione, un fiume di ciarle, il più noioso e disperante uomo della terra». (Avevo letto bene?) «La letteratura romana è così misera, vile, stolta, nulla, ch’io mi pento di averla veduta e vederla, perché questi miserabili letterati mi disgustano della letteratura». (Esagerato!). «Pare che questi fottuti Romani che si son fatti e palazzi e strade e chiese e piazze sulla misura delle abitazioni de’ giganti, vogliano anche farsi i divertimenti a proporzione, cioè giganteschi, quasi che la natura umana, per coglionesca che sia, possa reggere e sia capace di maggior divertimento che fino a un certo segno».
Dunque anche Leopardi diceva le parolacce? «Non era granché conciliante, Giacomo Leopardi. Da Roma, fra il 1822 e il 1823, inviava continui sfoghi e lamentele epistolari al fratello Carlo e a Pietro Giordani, quasi a imporre loro il proprio rabbioso disadattamento, la protesta talvolta persino un po’ querula contro tutto e tutti», spiegava l’articolo firmato da Stefano Giovanardi.
Stavo per finire il mio quarto anno di liceo classico e Leopardi l’avevo letto, commentato, studiato, parafrasato; non imparato a memoria (ormai non si usava più), ma analizzato criticamente, stilisticamente e psicologicamente: testo, contesto, ipotesti e paratesti (gli ipertesti ancora non andavano di moda). Cose così, però, non le avevo mai lette. Neanche immaginate, a dire il vero. Lui non scriveva così, lui non parlava così: lui non era così!
E invece: «Ho bisogno d’amore, amore, amore, fuoco, entusiasmo, vita», scriveva al fratello (neanche fosse una canzone di Zucchero); e in un’altra lettera si spingeva molto oltre: «Queste bestie femminine ... sono piene d’ipocrisia, non amano altro che il girare e divertirsi non si sa come, non la danno, credetemi, se non con quelle infinite difficoltà che si provano negli altri paesi».
A casa di quel mio amico c’erano un sacco di libri, molti più che a casa mia. E c’era un dizionario che non era normale come quelli che avevo io (lo Zingarelli d’italiano, il Rocci di greco, il Calonghi di latino). Nel senso che non era di un volume solo, ma di dodici; e anche così arrivava soltanto alla lettera P. Sull’ultimo c’era scritto ORAD-PERE, e già questa cosa ci faceva ridere, perché era un po’ come cantava Vasco Rossi: «Chi non vespa più e si fa le pere» (noi Vasco lo sentivamo, come Zucchero, ma non avevamo mai fumato nemmeno una sigaretta).
Io e il mio amico – che neanche a farlo apposta si chiamava Giacomo – ci fiondammo sul secondo e sul terzo volume (BALC-CERR e CERT-DAG: sono andato a controllare la copia che adesso ho a casa) e cominciammo a compulsare tutte le parolacce che cominciavano per C. Tra ingenue risatine adolescenziali, trovammo anche frasi di Ariosto, di Machiavelli, di Tasso, di Monti, di Pratolini, di Pavese... Il tono complice con cui ce le leggevamo l’un l’altro, a ripensarci, mi fa molta tenerezza. Mai e poi mai avrei pensato che proprio lì stesse nascendo la mia vocazione. (Troppo facile ora, col senno di poi, notare che vocabolario e vocazione condividono lo stesso etimo: quella voce che evidentemente sarebbe tornata a chiamarmi).
Quando due anni dopo, iscritto alla facoltà di Lettere, mi apprestai ad affrontare da non frequentante il programma di Storia della lingua italiana, di quel pomeriggio non ricordavo più nulla (mi è tornato in mente poco tempo fa, trovando per caso quel ritaglio di giornale piegato dentro a un libro). Il primo testo d’esame s’intitolava Saggi di storia linguistica italiana. Il primo saggio di quel primo testo s’intitolava Sulla «lingua degli autori». Divagazioni di uno storico della lingua. Parlava, tra l’altro, dei «fraintendimenti che possono insorgere quando estendiamo arbitrariamente al passato parametri interpretativi che valgono solo oggi»; ad esempio, considerando impropriamente anticheggianti – in un testo del Settecento – forme come niuno o romore, che all’epoca erano invece corrette e correnti.
Ma metteva anche in guardia dal «rischio opposto: quello di non cogliere l’identità tra passato e presente». Il primo esempio? La convinzione diffusa «che l’uso del turpiloquio nelle conversazioni informali sia un portato dei nostri tempi». «C’è da chiedersi», scriveva Luca Serianni – l’autore di quel libro – «in che misura questa convinzione riposi sul tipo di documentazione disponibile» o quanto invece discenda «dall’immagine fatalmente libresca che gli scrittori del passato, “i classici”, finiscono con l’assumere ai nostri occhi».
Era la conferma di quella tridimensionalità della lingua che le parolacce di Leopardi mi avevano fatto oscuramente intuire. Quadridimensionalità, anzi; perché – come avrei imparato proprio studiando per quell’esame – la lingua cambia non solo nel tempo, nello spazio e nella società, ma anche a seconda dei diversi tipi di uso: dell’argomento, del contesto, dell’interlocutore, dell’effetto che si vuole ottenere. Ed è sempre stato così – sempre – in tutte le lingue vive.
Quindi, ogni volta che parliamo della lingua di un testo o di un discorso, dobbiamo tener presenti tutti questi fattori. Dobbiamo ricollocare quel testo o quel discorso – passato o presente che sia – all’interno di queste coordinate, ricostruendo usi e norme specifici, indagando in parallelo molti altri testi, scavando sotto la superficie di ogni parola o espressione o costrutto. Per cercare di capire davvero come stanno le cose, insomma, dobbiamo fuggire automatismi e luoghi comuni e farci ogni volta il maggior numero possibile di domande, ognuna delle quali richiederà un supplemento di ricerca. Il fascino di questa prospettiva – della sfida insita in questo metodo – mi sembrò irresistibile.
Fu così che, folgorato sulla via del turpiloquio, decisi d’intraprendere la strada che mi avrebbe infine portato a diventare un linguista. Parola ambigua, il cui significato – come quello di tante altre parole – è cambiato nel tempo. Oggi, infatti, indica chi studia la lingua attenendosi a criteri tendenzialmente scientifici, ma ancora un secolo fa (come ci dice sempre quel dizionario in più volumi: il Grande Dizionario della lingua italiana, fondato da Salvatore Battaglia nel 1961 e ormai giunto a compimento) indicava gli appassionati sostenitori della “buona lingua”.
Coloro che nell’Ottocento erano appunto «messi in croce, e chiamati per istrazio Linguisti», come scriveva il padre Cesari, padre di tutti i puristi; o logodedali, come voleva il classicista Perticari, cognato del Monti; o scrutinaparole, come diceva il romantico Berchet, l’autore della Lettera semiseria di Grisostomo. Puristi, classicisti, romantici: tre diverse squadre iscritte a quell’interminabile campionato che nella storia della nostra lingua e della nostra letteratura si chiama “questione della lingua”. Ma questa, per l’appunto, è un’altra storia (o, se preferite, un altro campionato).
Qui la questione è diversa: e non riguarda certo le parolacce, anche se per impostarla possiamo partire sempre da Leopardi. Da uno degli appunti dello Zibaldone, stavolta: quella specie di diario-taccuino al quale Giacomo confidava i suoi pensieri. Lì, scritta negli stessi giorni di quelle lettere tanto arrabbiate (il 5 maggio 1822, per l’esattezza), troviamo questa riflessione:
Quelli pertanto che essendo gelosissimi della purità e conservazione della lingua italiana, si scontorcono, come dice il Bartoli (Torto ec. c. 11),1 ad ogni maniera di dire che non sia stampata sulla forma della grammatica universale, non sanno che cosa sia né la natura della lingua italiana che presumono di proteggere, né quella di tutte le lingue possibili.
Questo è il punto. Se si ama la propria lingua, non c’è peggior delitto di volerla seppellire viva. Di imbalsamarla con norme e precetti considerati astrattamente eterni. Di ibernarla in nome di una mai esistita èra glaciale della perfezione. Di questo passo, si rischia di far la fine di quel professore di lingue morte che – diceva perfidamente Leo Longanesi –, per poter finalmente parlare le lingue che conosceva, si suicidò.
Invece l’italiano, per nostra fortuna, è vivo più che mai e anche nei secoli scorsi è stato molto più vivace di quanto si possa immaginare. Non ci credete? Allora forse è venuto il momento che qualcuno vi racconti tutto quello che avreste dovuto sapere sulla nostra lingua e nessuno (o quasi) ha mai avuto il coraggio di dirvi.
1 Se volete sapere quale fosse il torto del Bartoli, non avete che da voltare pagina e proseguire nella lettura. Magari ne vale la pena...